Versione per la stampa
A firma Alberto Maria Picardi, un primo commento sulla ex-Cirielli appena approvata in via definitiva
Da una prima approssimativa lettura, si ritiene che la legge "ex Cirielli", recentemente approvata in via definitiva, non determinerà particolari "sconvolgimenti" nel ruolo di udienza dei giudici di primo grado (perché per quelli di appello e legittimità si applica, per il passato, la vecchia normativa):, tranne che per i reati dei cd. "colletti bianchi", quali molti di quelli contro la PA e i reati societari e tributari; né pare possa avere alcun effetto deflattivo per tutti quei processi che, già aperti, pendono anche da diversi anni in primo grado in attesa di definizione, per il semplice motivo che la disciplina transitoria prevede il mantenimento del "vecchio", e più lungo termine di prescrizione, per i processi pendenti per i quali è già stato aperto il dibattimento. E tuttavia, seri dubbi di costituzionalità sussistono proprio per il predetto regime transitorio relativo alla prescrizione, sul quale, come anticipato dalla stampa, vi saranno numerosi incidenti di costituzionalità finalizzati anche ad estendere la applicazione retroattiva più favorevole al reo della novella ai procedimenti già pendenti successivi alla fase di apertura del dibattimento di primo grado. Per alcuni autori di dottrina si ritiene, infatti, costituzionalizzato, ai sensi dell'art. 25 Cost., il principio della retroattività della norma più favorevole al reo espresso, in sede di legislazione ordinaria, nell'art. 2 comma 3 c.p. Problemi interpretativi immediati per il giudice dibattimentale porrà, invece, il nuovo art. 159 c.p. in materia, tra l'altro, di effetti sospensivi della prescrizione ex art. 159 c.p. per rinvio del processo per impedimento delle parti e dei difensori ovvero su richiesta dell'imputato o del suo difensore, ai sensi del novellato comma 1 n. 3 del prefato art. 159 c.p.: in esso è, invero, statuito espressamente che il corso della prescrizione rimane sospeso per il tempo del rinvio, e tuttavia è stabilito che nella limitata ipotesi (che è quella più frequente nella pratica) di sospensione del processo "per impedimento delle parti o dei difensori, l'udienza non può essere differita oltre il sessantesimo giorno successivo alla prevedibile cessazione dell'impedimento, dovendosi avere riguardo in caso contrario al tempo dell'impedimento aumentato di sessanta giorni" (art. 159 co. 1 n. 3). Ebbene, questa espressa limitazione (pari, nel massimo, ai giorni dell'impedimento + gg. 60) del dies ad quem della sospensione del processo per impedimento dell'imputato o del difensore, proprio perché espressa nel corpo di una disposizione che tratta dei casi che determinano la sospensione della prescrizione, fa ragionevolmente ritenere che il legislatore abbia voluto non solo imporre un termine, ovviamente di natura ordinatoria (arg. ex art. 173 co. 1 c.p.p.), al giudice del dibattimento penale, ma abbia anche voluto limitare gli effetti temporali della sospensione della prescrizione al decorso del predetto termine massimo di sospensione del dibattimento. Ciò significa che, nei casi suddetti di impedimento dell'imputato o del difensore, il giudice deve "stare attento" ad osservare il predetto termine finale di sospensione del dibattimento perché altrimenti, pur non verificandosi alcuna decadenza in caso di rinvio a data successiva, la prescrizione continuerebbe a decorrere dal giorno successivo a quello finale previsto dalla legge. Non solo: nei casi in cui il dibattimento non è stato ancora aperto, e risulta, quindi, applicabile la nuova normativa più favorevole in termini di prescrizione, il giudice dovrà anche ricalcolare i precedenti periodi di sospensione del dibattimento per impedimento dell'imputato o del difensore in modo da riconoscere il decorso della prescrizione per tutto il periodo di sospensione successivo a quello del predetto termine finale massimo di legge (pari, come già riferito, ai giorni dell'impedimento + al max 60 gg.), provvedendo, nei casi di inveramento della prescrizione, a sollecitare le parti ad una immediata decisione della causa ex artt. 469 e 531 c.p.p. senza aprire il dibattimento. Grossi problemi si porranno, invece, in sede di esecuzione penale, poiché vi sono forti limitazioni alla applicazione dei vari benefici "extramurari" ai recidivi (che è la maggior parte della attuale popolazione carceraria): si pensi, in particolare, alla "stretta", per i recidivi specifici o infraquinquennali reiterati, per quanto riguarda i permessi premio, la detenzione domiciliare o l'affidamento in prova al servizio sociale (artt. 7, 8 e 9), visto che essi, ad esempio, non potranno usufruire della sospensione dell'esecuzione della pena, ex art. 656 comma 5 c.p.p.,(art. 9, che ha inserito una nuova lettera c) all'art. 656 co. 9 c.p.p.) Ma la disposizione più allarmante, in termini di previsione di massiccio ed imminente sovraffollamento carcerario, è la seguente, posta al comma 6 dell'art. 7 della prefata legge: Il comma 1 dell'articolo 58- quater della legge 26 luglio 1975, n. 354, è sostituito dal seguente: "1. L'assegnazione al lavoro all'esterno, i permessi premio, l'affidamento in prova al servizio sociale, nei casi previsti dall'articolo 47, la detenzione domiciliare e la semilibertà non possono essere concessi al condannato che sia stato riconosciuto colpevole di una condotta punibile a norma dell'articolo 385 del codice penale". Insomma, se si dovesse ritenere la norma suddetta (come sembra pacifico), di natura processuale, essa, per il principio del "tempus regit actum" (dove per "actum" deve intendersi la data del deposito della istanza di concessione dei benefici da parte dell'imputato condannato o del suo difensore) - dovrebbe ritenersi già applicabile a tutti coloro che, prima dell'entrata in vigore della presente legge, siano stati condannati in via definitiva per il delitto di cui all'art. 385 c.p., con conseguenze in termini di carcerazione massiccia ed anche, a parere dello scrivente, irragionevole ex art. 3 Cost o comunque desocializzante ex art. 27 comma 3 Cost., specie nei casi di commissione, da parte dell'episodico "evasore" ex art. 385 c.p. (condannato, magari, con pena sospesa), di successiva sua condotta costituente reato non particolarmente efferato o grave, per il quale subisce una condanna a pena detentiva. Più in generale, resta immutata, però, in capo allo scrivente, la sensazione di una legge viziata da una sorta di inversione logica, e perciò strutturalmente (e forse anche costituzionalmente) irrazionale: l'accorciamento, per alcuni reati anche rilevante, dei tempi di prescrizione è stato effettuato senza preventivamente "mettere in cantiere" una riforma del processo e dell'organizzazione giudiziaria in grado assicurare una ragionevole durata del processo penale. Insomma, se la "macchina" della giustizia è intollerabilmente lenta, e se non si è fatto nulla per far fronte a questa strutturale lentezza, l'accorciamento dei termini di prescrizione dei reati, vieppiù se agevolmente individuati in quelli dei cd. "colletti bianchi", in materia di criminalità economica e di delitti contro la pubblica amministrazione, maschera una vera e propria "amnistia di fatto" e permanente in favore di determinate forme di delinquenza, con ingiustificate discriminazioni in danno di altre, ed in particolare di coloro che, commettendo per lo più reati contro il patrimonio e la persona, vengono dichiarati recidivi. Per questi ultimi, infatti, non solo è prevista una pena più elevata e una "stretta" dei benefici carcerari, ma anche un allungamento dei termini di prescrizione dei reati. Ebbene, tale allungamento della prescrizione non viene ancorato alla gravità oggettiva del reato (come è accaduto fin d'ora con l'art. 157 c.p.), ma alla personalità criminale del reo desunta dalla recidiva o dal suo stato di abitualità o professionalità nel reato (cfr. art. 161 co. 2 c.p., come novellato dall'art.6 co 5 L. cit.) Si tratta, infatti, di una impostazione normativa che, nel disciplinare una causa di estinzione del reato quale è il tempo della prescrizione, prescinde dal reato stesso e dalla sua oggettiva gravità soffermandosi pressoché esclusivamente sul reo, cioè alle caratteristiche della sua personalità criminale. Tale impostazione normativa non appare in linea con i principi costituzionali di personalità dell'addebito penale, ancorata (sin dalla storica sentenza della Corte Costituzionale 364/1988) ad una visione "oggettiva" della colpevolezza come disvalore penale della condotta e non certo come manifestazione della personalità deviante o criminale del suo autore. La pratica giudiziaria sarà, anche questa volta, la "cartina al tornasole" in grado, si spera, di dirimere al più presto i tanti dubbi interpretativi della suddetta normativa. - Alberto Maria Picardi (magistrato) - novembre 2005 (riproduzione riservata)
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