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Penale.it - Monica A. Senor, Videoriprese di immagini non comuncative: un vuoto legislativo che la giurisprudenza non intende colmare con un'interpretazione garantista

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Monica A. Senor, Videoriprese di immagini non comuncative: un vuoto legislativo che la giurisprudenza non intende colmare con un'interpretazione garantista
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Commento a Corte di Cassazione penale, 33593/12

I primi commenti giornalistici alla sentenza n.33593/12 della VI sezione della Cassazione penale si possono riassumere in una parola: ineccepibile. Concordo. Ma solo sulla coerenza logica delle motivazioni della Suprema Corte (in effetti, ineccepibile), non certo per l’ineccepibilità del presupposto da cui viene dedotta la conclusione.
 
I fatti. Una maestra viene denunciata per maltrattamenti per aver inflitto punizioni corporali ai suoi alunni. Il P.M., per supportare l’accusa, autorizza con decreto la P.G. ad effettuare delle videoriprese nell’aula di lezione. Dall’attività di monitoraggio effettuata emerge, in effetti, una condotta violenta della maestra nei confronti dei giovani studenti.
 
La sentenza. La Cassazione, pronunciandosi in sede cautelare, rigetta il ricorso avverso l’ordinanza del Tribunale del Riesame con cui l’indagata chiedeva una declaratoria di inutilizzabilità delle videoriprese in quanto eseguite senza autorizzazione del G.I.P. Le argomentazioni della Corte si basano sui principi sanciti dalle Sezioni Unite nella famosa sentenza Prisco.
 
Il precedente. Con la citata sentenza, nel 2006, le Sezioni Unite hanno affermato che la tutela costituzionale del domicilio (da cui discende la doppia riserva di legge e di giurisdizione e dunque l’obbligo di un provvedimento autorizzativo del Giudice per l’espletamento di atti di indagine che comportino una violazione di domicilio) è fondata non sulla natura astratta del luogo, ma sul rapporto esistente tra un soggetto ed il luogo in cui svolge la sua vita privata, che deve essere un rapporto stabile, tale da giustificare la tutela del luogo stesso anche quando la persona è assente. In sintesi: l’abitazione sì, una toilette pubblica no; quest’ultima, tuttavia, è meritevole di tutela sotto il profilo del diritto alla riservatezza (che un soggetto ha diritto di pretendere quando e per il tempo in cui occupa determinati luoghi, come appunto un bagno), riconducibile all’art.2 della Costituzione.
Se non che, non prevedendo l’art.2 le stesse alte garanzie di cui all’art.14 Cost., di fatto, la tutela riconosciuta alla riservatezza di un soggetto è minore rispetto alla tutela del domicilio, delle comunicazioni e della libertà personale. Per gli atti di indagine che ledono tale diritto sarà quindi sufficiente un decreto motivato del P.M.
 
La sentenza. La Cassazione, con la sentenza in commento, fa fedele applicazione dei principi enunciati nella pronuncia Prisco, stabilendo che: “La tutela costituzionale del domicilio va tuttavia limitata ai luoghi con i quali la persona abbia un rapporto stabile, sicché, quando si tratti di tutelare solo la riservatezza, la prova atipica [la videoregistrazione, n.d.r.] può essere ammessa con provvedimento motivato dell’autorità giudiziaria. Non sono pertanto ammissibili riprese visive effettuate, ai fini del processo, in ambito domiciliare mentre vanno autorizzate dall’autorità giudiziaria procedente (p.m. o giudice) le riprese visive che, pur non comportando un’intrusione domiciliare, violino la riservatezza personale”.
 
I dubbi. Ho letto più e più volte le due frasi di cui sopra e, sinceramente, proprio non riesco a comprenderle. Certo che sono ammissibili le riprese visive in ambito domiciliare, così come sono ammissibili le intercettazioni comunicative e/o ambientali! Solo occorre un’ordinanza motivata del Giudice. Quando, invece, si tratta di videoriprese di comportamenti non comunicativi, secondo la sentenza Prisco, è sufficiente il decreto del P.M., mentre a leggere l’odierna Cassazione sembrerebbe che occorra l’autorizzazione dell’autorità giudiziaria procedente, p.m. o giudice…come fossero la stessa cosa!
 
La sentenza. A prescindere dai rilievi testé esposti, la Cassazione esclude che un’aula scolastica possa essere considerata un domicilio, qualificandola piuttosto come luogo aperto al pubblico in quanto si tratta di un luogo in cui può entrare un numero indeterminato di persone, con conseguente liceità ed utilizzabilità delle riprese disposte con il solo decreto motivato del P.M.
 
La critica di fondo. In materia di videoriprese di immagini non comunicative è intervenuta nel 2008 anche la Corte Costituzionale ristringendo ulteriormente l’ambito di tutela, affermando che “…affinché scatti la protezione dell'art. 14 Cost., non basta che un certo comportamento venga tenuto in luoghi di privata dimora; ma occorre, altresì, che esso avvenga in condizioni tali da renderlo tendenzialmente non visibile ai terzi. Per contro, se l'azione - pur svolgendosi in luoghi di privata dimora - può essere liberamente osservata dagli estranei, senza ricorrere a particolari accorgimenti (paradigmatico il caso di chi si ponga su di un balcone prospiciente la pubblica via), il titolare del domicilio non può evidentemente accampare una pretesa alla riservatezza”.
 
Le garanzie di cui all’art.14 Cost. si applicano dunque, secondo la più recente giurisprudenza delle nostre corti superiori, solo al domicilio, ma non nella sua accezione oggettiva (mutuata dal diritto civile) di cui all’art.614 c.p., bensì inteso come il luogo con cui il soggetto ha un rapporto stabile e sempre che non sia visibile ai terzi.
Se l'interpretazione del concetto costituzionale di domicilio fosse più estensiva e/o se la locuzione "altre forme di comunicazione" di cui all'art.15 Cost. fosse interpretata nel senso di comprendere anche le comunicazioni visive, certamente si addiverrebbe ad un'applicazione più garantista delle norme processual-penalistiche: è dunque evidente e pacifico come non vi sia, di fondo, una volontà di limitare determinate attività di indagine, lasciando ampi ed incontrollabili poteri alle Procure a discapito delle libertà fondamentali dei cittadini.
Il nocciolo della questione giuridica viene, infatti, surrettiziamente risolta ponendo l’accento sul diritto alla riservatezza, il quale, ricondotto negli stretti argini dell’art.2 della Costituzione come espressione della dignità personale, non può godere delle garanzie della doppia riserva di legge e di giurisdizione.
Che tale interpretazione sia ormai inappropriata in relazione nella moderna ITC society in cui controllo tecnolgico e videosorveglianza regnano sovrani (e privi di regolamentazione!) è di tutta evidenza.
La sperequata disciplina rispetto al regime codicistico, assolutamente garantista, delle intercettazioni, francamente, non è ormai più tollerabile.
Diviene, inoltre, davvero difficile comprendere tutto il clamore mediatico che suscita l’argomento “intercettazioni” ogni qual volta si tenta di revisionarne la disciplina, laddove le riprese non comunicative, nonostante la loro oggettiva lesività della vita privata dei cittadini al pari se non più delle intercettazioni, cadono nel silenzio assoluto, quando addirittura non ricevono, come nel caso di specie, l’appoggio incondizionato dell’opinione pubblica.
Ancor meno accettabile il doppio binario instaurato tra riprese effettuate dalla polizia giudiziaria e riprese effettuate da privati, per i quali il reato di cui all’art.615 bis c.p. viene spesso ritenuto integrato al di là dei parametri sopra indicati, come nella recente sentenza n.9235/12, con cui la Cassazione ha riconosciuto la sussistenza del reato nella condotta di un investigatore privato che aveva ripreso la moglie di un cliente durante un rapporto sessuale con l’amante, in casa e col consenso di quest’ultimo,
 
Purtroppo, la nostra giurisprudenza è ben lontana dall’emettere pronunce come quella della Corte Suprema americana dello scorso gennaio, nella causa United States v. Jones, ove è stata riconosciuta la violazione del Quarto Emendamento nell’apposizione da parte della polizia di un GPS device sull’auto di un soggetto in assenza di un regolare mandato (warrant) di perquisizione.
 
Va detto, peraltro, che non solo in Italia, ma in tutta Europa, ove le Costituzioni sono più antiche, il diritto alla protezione dei dati personali viene disciplinato solo a livello di legislazione ordinaria; la tutela, tuttavia, è oggi rafforzata da due riferimenti giuridici forti rappresentati dall’art.8 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo (secondo cui ogni persona ha diritto al rispetto della sua vita privata) e, più di recente, dall’art.8 della Carta dei diritti fondamentali dell’unione europea, il quale sancisce che ogni individuo ha diritto alla protezione dei dati di carattere personale che lo riguardano.
In tale contesto, la rigida (formalmente ineccepibile) applicazione da parte delle nostre corti superiori del mero sistema interno delle fonti del diritto (da cui consegue, come visto, una tutela minore della riservatezza rispetto alle altre libertà fondamentali) non è più giustificabile.
La Corte Costituzionale ha infatti riconosciuto, attraverso l’art.117 Cost., alla CEDU il ruolo di fonte interposta tra la Costituzione e la legge ordinaria e dunque le norme di legislazione ordinaria debbono oggi essere interpretate in modo conforme alle convenzione europea: poiché l’art.8 CEDU prevede un espresso diritto al rispetto della vita privata, al domicilio ed alla corrispondenza, le norme interne ordinarie non potranno che essere interpretate in modo conforme alla disciplina convenzionale.
Non solo. L’ex Carta di Nizza, oggi Carta dei diritti fondamentali, è divenuta una fonte di diritto comunitario primario (l'art. 6 TUE enuncia che la Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea ha lo stesso valore giuridico dei trattati). Il Giudice nazionale, previa valutazione circa l’immediata applicabilità del diritto comunitario e previo eventuale rinvio alla Corte europea di Giustizia per la sua corretta interpretazione, deve dunque procedere alla disapplicazione delle norme nazionali in contrasto con quanto stabilito dalla Carta, il cui art. 52, comma 3, stabilisce che, laddove essa contenga diritti corrispondenti a quelli garantiti dalla CEDU, il significato e la portata degli stessi (fatto salvo il diritto dell’Unione di concedere una protezione più estesa) siano uguali a quelli conferiti dalla convenzione.
In conclusione, poiché la Corte europea dei diritti dell’uomo ha costantemente interpretato l’art.8 CEDU, nella parte in cui prevede che non può esservi alcuna ingerenza della pubblica autorità nell’esercizio del diritto alla vita privata se non in base ad una legge, nel senso che non basta una legge in senso formale ma occorre altresì che questa sia sufficientemente accessibile e prevedibile (da intendersi come specifica e precisa), si può desumere che, sebbene l’art.2 della nostra Costituzione non preveda una riserva di legge, questa possa essere ritenuta necessaria sulla scorta di un’interpretazione orientata al diritto convenzionale.
Tutto ciò in attesa che il legislatore, invece di continuare a (non) occuparsi di intercettazioni, colga l’importanza del tema videosorveglianza e deliberi in proposito una disciplina che tenga conto dei nuovi confini dell’habeas data.
avv. Monica A. Senor, Torino - settembre 2012
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