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Mariacarmela Lospinuso, Il caso Megaupload, tra libertà della rete e tutela penale del diritto d’autore
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 Sommario: 1. Megaupload: “la prima guerra digitale” della storia - 2. La ricerca del bene giuridico tutelato - 3. Possibili ripercussioni del caso Megaupload nell’ordinamento giuridico italiano - 4. No della Camera dei Deputati all’emendamento dell’On. Fava - 5. La sentenza “storica” della Corte di Giustizia dell’UE - 6. Riflessioni conclusive

 
1. Megaupload: “la prima guerra digitale” della storia
 
A più di un mese dal sequestro del più famoso sito di file sharing del web, Megaupload, è ancora vivo il dibattito in rete sulla possibilità di una censura globale in nome della tutela del copyright.
Nel caso in esame, lo scorso 19 gennaio, il Grand Jury federale della Virginia ha disposto il sequestro del sito e di tutti i siti web ad esso connessi, oltre che delle proprietà dei soggetti ritenuti responsabili.
I reati contestati agli indagati, la cosiddetta Mega Conspiracy per usare la terminologia dei giudici federali, e soprattutto al suo fondatore, Kim Dotcom, sono l’associazione per delinquere finalizzata alla commissione di violazioni del diritto d’autore e al riciclaggio di denaro per aver reinvestito i proventi derivanti dall’attività gestita con Magaupload.
Il provvedimento emesso dai giudici statunitensi prende le mosse dalla qualificazione del sito Megaupload, considerato non come un semplice fornitore di file hosting, ma come offerente di una rete di distribuzione illecita di opere protette nella quale i gestori erano pienamente consapevoli che gran parte del materiale messo in condivisione violava le norme sul copyright e, ciò nonostante, perseveravano nell’attività.
La prima riflessione da fare alla luce di questo caso, in rete definito come “la prima guerra digitale” della storia, riguarda il danno effettivo provocato dalla condivisione di opere protette dal diritto d’autore e la perdita economica subita dalle industrie discografiche e cinematografiche.
Megaupload era, infatti, il cyberlocker più usato dagli internauti, con circa 1,7 milioni di utenti contro i 990 mila di eMule. Con la sua attività avrebbe provocato un danno di oltre 500 milioni di dollari di mancati introiti ai detentori del copyright dei vari file scaricati illegalmente, guadagnando 175 milioni di dollari con la pubblicità sul sito e con gli abbonamenti1.
Questo fenomeno, meglio noto con il nome di “pirateria audiovisiva”, ha contribuito negli anni a ingenerare negli utenti la convinzione della liceità della loro condotta, giustificata dall’elevata speculazione da parte delle case produttrici che applicano un prezzo troppo elevato per il prodotto.
A conferma della perdita economica subita dalle Major, il Rapporto sulla musica digitale, presentato lo scorso gennaio dall’IFPI (Federazione internazionale delle industrie fonografiche), sottolinea che un utente su quattro (circa il 28%) si avvale di servizi privi di autorizzazione che hanno un impatto negativo sulle vendite. È facile intuire come la lotta alla pirateria sia diventata prioritaria per le industrie discografiche, che concentrano gran parte delle loro ambizioni di crescita del fatturato sulla musica on-line e sul download a pagamento di brani singoli e album.
 
2. La ricerca del bene giuridico tutelato
 
È possibile affermare, dunque, che il fenomeno della pirateria audiovisiva coinvolge una serie di interessi contrastanti: da una parte quelli dei singoli utenti che rivendicano la libera circolazione e fruibilità delle risorse, e dall’altra quelli degli autori alla salvaguardia delle opere dell’ingegno, annessa a un ritorno economico per lo sfruttamento del prodotto.
Il legislatore, con la legge del 1941 n. 633 e le ripetute modifiche, ha affrontato il problema predisponendo un sistema idoneo a realizzare un bilanciamento tra i vari interessi coinvolti.
In relazione alla tutela penale approntata dal nostro legislatore, occorre innanzitutto verificare in che misura il processo di democratizzazione della società, considerato quale naturale conseguenza dello sviluppo della tecnologia, abbia influito sulle categorie tradizionali del diritto penale. Il legislatore potrebbe, infatti, accontentarsi di prendere atto dell’esistenza di nuove forme di aggressione a beni giuridici tradizionali, modificando le vecchie fattispecie di reato per ricomprendere nuove condotte, con l’aumento del carico sanzionatorio quale unica risposta al dilagare di fenomeni che destano un particolare allarme sociale come quello della pirateria; oppure, proprio in relazione alle nuove condotte, creare delle fattispecie ad hoc allargando così i confini della tipicità penale.
Con la legge n. 633/1941 il legislatore in realtà ha creato nuove fattispecie per evidenziare l’importanza di questo fenomeno e le ripercussioni che potrebbe avere nel nostro ordinamento. È partito dalla constatazione che le vecchie fattispecie di reato non sono in grado di risolvere situazioni giuridiche emergenti, che necessitano di costanti interventi da parte delle autorità date le continue evoluzioni della tecnologia.
Alla luce delle scelte compiute si auspica, però, l’effettiva valorizzazione del bene giuridico, tanto nel suo ruolo di canone ermeneutico delle differenti fattispecie di reato, quanto e soprattutto quale vincolo delle scelte di criminalizzazione operate dal legislatore. Parafrasando la definizione data da autorevole dottrina2, l’importanza di individuare con precisione il bene giuridico tutelato dalla norma è connesso alla necessità che la stessa rispetti uno dei principi cardine dell’ordinamento penale quello di offensività o necessaria lesività per il quale, ai fine della sussistenza del reato, non basta la realizzazione di un comportamento materiale esterno, ma è necessario che tale comportamento leda o ponga in pericolo beni giuridici socialmente rilevanti.
Analizzando, infatti, la tutela penale predisposta con la legge n. 633/1941 è chiaro che le scelte del legislatore sono spinte dalla necessità di salvaguardare non soltanto gli interessi patrimoniali dell’autore legati allo sfruttamento economico delle opere dell’ingegno, ma soprattutto l’economia pubblica nel suo complesso, in quanto la protezione accordata alla proprietà intellettuale, come precisato nei vari considerando della Direttiva n. 2001/29/CE, “promuove e favorisce investimenti in attività di creazione e innovazione e dà sviluppo all’economia e all’occupazione nel suo complesso”3, non solo, ma cerca di limitare le perdite economiche subite dalle grandi industrie discografiche e cinematografiche in modo da incentivare, in maniera del tutto ottimistica, una crescita economica del Paese.
In particolare la legge italiana sul diritto d’autore continua a considerare irrilevante la tutela del diritto morale dell’autore, in quanto il presupposto della pirateria audiovisiva è proprio quello di favorire la libera circolazione di materiale a contenuto legale che, tuttavia, viene diffuso con modalità che contrastano con le finalità della sua creazione. In questo modo, l’autore non riceve alcun ritorno economico dallo sfruttamento della stessa e l’utilizzazione dell’opera non contribuisce alla crescita economica del Paese.
Se da una parte la tutela predisposta dal legislatore italiano incentiva la creazione di opere dell’ingegno, dall’altra c’è chi ritiene che potrebbe compromettere la libertà di accedere a contenuti digitali messi a disposizione dell’utente, impoverendo così il nostro Paese di una forma di democrazia e di libertà di manifestazione del pensiero.
 
3. Possibili ripercussioni del caso Megaupload nell’ordinamento giuridico italiano
 
In seguito al sequestro di Megaupload, data l’enorme mole di informazioni in possesso dei giudici federali, è probabile che gli elenchi degli utenti vengano trasmessi alle autorità competenti territorialmente.
L’elenco degli internauti italiani che hanno diffuso e condiviso materiale protetto da copyright, ad esempio, potrebbe essere trasmesso all’autorità giudiziaria italiana al fine di esercitare l’azione penale nei confronti degli stessi. A tali utenti verrebbe, secondo la normativa italiana in materia di diritto d’autore, contestato il reato di cui all’art. 171 1° comma, lett. a-bis) L. 633/1941 che collega la responsabilità penale alla messa a disposizione del pubblico in un sistema di reti telematiche, mediante connessioni di qualsiasi genere, di un'opera dell'ingegno protetta, o parte di essa, sempre che tale condotta non sia stata commessa con finalità lucrative; il tal caso, invece, verrebbe a configurarsi la più grave figura delittuosa (prevista dall’art. 171-ter 2° comma, lett. a-bis) compiuta, ad esempio, attraverso l’uso di “Uploader Rewards” di Megaupload, un sistema attraverso il quale venivano riconosciuti premi in denaro agli utenti che avevano inserito i file “più scaricati”.
In realtà, come affermato in dottrina4, proprio in relazione a tali condotte, si pongono delle evidenti difficoltà nella definizione e nella dimostrazione di consapevole detenzione di contenuti, nonché problemi rilevanti nell’accertamento da parte della polizia giudiziaria, tenendo presente la particolare sensibilità e riservatezza delle informazioni che possono essere acquisite mediante un uso incontrollato degli strumenti investigativi.
L’impatto con questi nuovi temi è tale da sconvolgere il tradizionale ambito applicativo del diritto penale in termini di valutazione degli elementi soggettivi e oggettivi del reato. Il ruolo di definire limiti e confini di un’azione tecnologicamente vasta, complessa, multiforme e mutevole, nella quale concorrono soggetti diversi e che si muove su spazi diversi, ma che caratterizza la nostra vita sempre di più, è affidato soltanto all’attenta interpretazione del giudice penale e alla sua capacità di coerente analisi tecnologica e di sensibilità sociale.
In relazione a tali condotte, la differenza sostanziale non riguarda tanto l’elemento oggettivo del reato quanto l’elemento soggettivo; infatti, l’art. 171-ter comma 2° lett. a-bis) L. 633/1941 è una fattispecie a dolo specifico per il quale il legislatore richiede che il soggetto agisca con finalità lucrative, non identificando, però, l’incremento patrimoniale con il mero risparmio di spesa derivante dall’uso di copie non autorizzate di programmi o altre opere dell’ingegno, al di fuori dello svolgimento di una attività economica da parte dell’autore del fatto (Cass. pen., sez. III , 9 gennaio 2007, n. 149). Con la previsione nell’art. 171-ter comma 2° lett. a-bis) del fine di lucro, dopo la modifica avvenuta con la legge omnibus del 2005 n. 43, è cessata la polemica di coloro che ritenevano ingiusta la norma che puniva, anche con una pena detentiva da uno a quattro anni, chi in buona fede avesse usufruito, con accesso ad Internet, di una comunicazione al pubblico trasmessa dalla rete.
L’altra norma presa in considerazione, l’art. 171 comma 1° lett. a-bis, è una fattispecie a dolo generico, che concerne una vera e propria condotta di immissione nella rete che assume le caratteristiche particolari della condivisione peer to peer, laddove il soggetto agisce con dolo, essendo consapevole della sua messa a disposizione dei file al pubblico. Per la punibilità del reato non si richiede che l’utente agisca con particolari finalità essendo sufficiente che egli sia consapevole che, attraverso l’upload dei file, assume una posizione attiva perché a sua volta condivide opere protette dal diritto d’autore realizzando di conseguenza una condotta illecita. Risultano chiare le difficoltà nell’accertamento di tali condotte, soprattutto se si tratta di privati, e quindi anche la repressione di questi fenomeni a causa di evidenti peculiarità che caratterizzano i crimini informatici: l’anonimato dell’autore del reato, la scarsa visibilità delle prove e la possibilità di cancellazione di queste da parte dell’autore stesso, a cui si aggiungono la difficoltà di individuazione delle tracce e la grande quantità di dati da analizzare.
 
4. No della Camera dei Deputati all’emendamento dell’On. Fava
 
In Italia, l’ampio dibattito sul tema della tutela della proprietà intellettuale ha indotto la Camera dei Deputati, il 1 febbraio 2012, a bocciare l’emendamento presentato dall’Onorevole Giovanni Fava, il 14 luglio 2011, (“Modifica degli articoli 16 e 17 del decreto legislativo 9 aprile 2003, n. 70, in materia di responsabilità e di obblighi dei prestatori di servizi della società dell’informazione”), che mirava ad introdurre nel nostro ordinamento un rigoroso regime di responsabilità per i c.d. intermediari della comunicazione: fornitori di servizi di hosting, caching e mere conduit.
Secondo l’On. Fava, un fornitore di hosting doveva essere ritenuto responsabile tutte le volte che non si attivava per rimuovere un contenuto e/o per disabilitare il suo accesso, segnalato come illecito non da un’autorità, ma anche da un comune cittadino.
Il “no” espresso dalla Camera dei Deputati ha contribuito a sottolineare l’importanza di garantire la libertà di accesso ai contenuti digitali senza alcun tipo di restrizione, contemperando questa esigenza con gli interessi degli autori delle opere dell’ingegno che non possono essere sottovalutati in nome di una pretesa democratizzazione della rete. In realtà,la motivazione che ha spinto la Camera al diniego consiste nella necessità di un ampio, trasparente e approfondito dibattito parlamentare che coinvolga i singoli cittadini che sono i diretti destinatari del provvedimento, prima di qualsiasi intervento normativo in una materia delicata, con interessi tra loro divergenti.
Un regolamentazione della disciplina è stata anche espressamente richiesta da Marco Polillo, Presidente di Confindustria Cultura Italia, che ha esortato l’Agcom (l’ Autorità per la Garanzie nelle comunicazioni) ad adottare il regolamento sul rispetto del diritto d’autore su Internet, ma anche in questo caso dovrebbe essere sottoposto a consultazione pubblica e, in un momento storico così instabile come quello che il nostro Paese sta vivendo, potrebbe essere considerato di importanza marginale.
 
5. La sentenza “storica” della Corte di Giustizia dell’UE
 
Prodromica alla decisione della Camera è una sentenza emessa dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea5, il 24 novembre 2011, definita “storica” perché per la prima volta il diritto dell’Unione “vieta un’ingiunzione di un giudice nazionale diretta ad imporre ad un fornitore di accesso ad Internet di predisporre un sistema di filtraggio:
  • di tutte le comunicazioni elettroniche che transitano per i suoi servizi, in particolare mediante programmi «peer to peer»;
  • che si applica indistintamente a tutta la clientela;
  • a titolo preventivo;
  • a sue spese esclusive, e
  • senza limiti nel tempo,
idoneo ad identificare nella rete di tale fornitore la circolazione di file contenenti un’opera musicale, cinematografica o audiovisiva rispetto alla quale il richiedente affermi di vantare diritti di proprietà intellettuale, onde bloccare il trasferimento di file il cui scambio pregiudichi il diritto d’autore”.
Risulta chiaro nella motivazione della sentenza della Corte che, “sebbene la tutela del diritto di proprietà intellettuale sia sancita dall’art. 17, n. 2 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, non può desumersi né da tale disposizione né dalla giurisprudenza della Corte che tale diritto sia intangibile e che la sua tutela debba essere garantita in modo assoluto; inoltre, è compito delle autorità e dei giudici nazionali, nel contesto delle misure adottate per proteggere i titolari di diritti d’autore, garantire un giusto equilibrio tra la tutela di tali diritti e quella dei diritti fondamentali delle persone sui quali incidono dette misure”.
Per di più, questo sistema di filtraggio controverso implicherebbe un’analisi sistematica di tutti i contenuti, nonché la raccolta e l’identificazione degli indirizzi IP degli utenti, che rappresentano dati personali protetti e che porterebbero pertanto alla violazione del diritto alla tutela dei dati personali.
Appare evidente che, nonostante la tutela della proprietà intellettuale sia un diritto tutelato dalla Carta di Nizza, la protezione non può spingersi fino a comprimere, o anche solo a limitare, altri diritti riconosciuti dalla stessa,quali il diritto alla privacy nelle comunicazioni elettroniche, la libertà di impresa degli Internet Service Provider e la libertà di manifestazione del pensiero.
Questa decisione è stata ribadita recentemente in un’altra sentenza della Corte di giustizia dell’Unione Europea6 che ha riconfermato che un prestatore di servizi hosting non può essere destinatario di un’ingiunzione rivolta da un giudice nazionale per la predisposizione di un sistema di filtraggio.
Le sentenze citate costituiscono una vera e propria rivoluzione nella rete in quanto la precedente giurisprudenza7 aveva attribuito al “provider che non si limita a fornire la connettività, ma eroga dei servizi aggiuntivi, dal caching all’hosting, una responsabilità subordinata alla circostanza che il provider sappia che l’attività o l’informazione trasmessa o svolta suo tramite sia illecita; tanto seppure con la espressa limitazione derivante dalla circostanza che non si possa imporre al prestatore di servizi un obbligo generale di sorveglianza sulle informazioni trasmesse e memorizzate né, tanto meno, un obbligo generale di ricercare attivamente fatti o circostanze che indichino la presenza di attività illecite. Di conseguenza il provider è responsabile dell’illecito posto in essere dall’utilizzatore allorché egli abbia piena consapevolezza del carattere antigiuridico dell’attività svolta da quest’ultimo. Tale responsabilità si configura, quindi, alla stregua di una responsabilità soggettiva: colposa, allorché il fornitore del servizio, consapevole della presenza sul sito di materiale sospetto, si astenga dall’accertarne l’illiceità e, al tempo stesso, dal rimuoverlo; dolosa quando egli sia consapevole anche dell’antigiuridicità della condotta dell’utente e, ancora una volta, ometta di intervenire”.
Tale tendenza trovava giustificazione nel fatto che i provider sono gli unici soggetti facilmente identificabili e in grado di fornire garanzie patrimoniali per un eventuale risarcimento del danno derivante dal reato. In realtà, però, per attribuire una responsabilità soggettiva in capo al provider bisognerebbe dimostrare che egli abbia fornito consapevolmente l’accesso in rete a dati illeciti, analisi che difficilmente potrebbe essere estesa ai provider per la mancanza in capo agli stessi di un potere di controllo sulle trasmissioni realizzate attraverso il sistema che viene fornito.
 
6. Riflessioni conclusive
 
Dall’analisi risulta chiaro che in Italia, così come in altri Paesi del mondo, c’è una forte tendenza alla democratizzazione della rete, per dare ampio riconoscimento a libertà e diritti del singolo individuo, considerati inviolabili anche a fronte degli interessi, sia pur legittimi, di grandi industrie che detengono i diritti di sfruttamento delle opere dell’ingegno.
Quanto espresso nella citata sentenza della Corte di Giustizia dell’UE, in realtà, era già stato affermato in una decisione del Tribunale di Roma del 22 marzo 20118, nella quale viene sottolineata “l’esigenza di un bilanciamento legislativo tra l’interesse alla libera circolazione delle informazioni ( la c.d. libertà di Internet), anche quale profilo di libertà di manifestazione del pensiero protetta da tutte le Costituzioni europee, che si presume essere ostacolata da un obbligo generale di sorveglianza dell’impresa sulle informazioni stesse, e gli interessi protetti dalle singole norme che sanzionano gli illeciti. Un controllo del gestore del sito sulle informazioni presenti in rete diventa inesigibile per gli eccessivi costi che questo porrebbe a carico dell’impresa e che quest’ultima passerebbe sul consumatore finale”.
In conclusione, non può sussistere né un obbligo di controllo da parte del gestore del sito né tantomeno una limitazione dell’utilizzo delle risorse messe a disposizione della rete, ovviamente rispettando gli interessi degli autori delle opere, altrimenti si ricadrebbe nell’illecito contestato al gestore del sito Megaupload e ai suoi singoli utenti. Infatti, nella sentenza in esame “non vi è una contestazione tra le parti circa la liceità degli atti di pirateria digitale in sé, ma la contestazione verte piuttosto sulla esenzione o no da responsabilità del gestore del motore di ricerca quale intermediario; se da un lato il gestore del motore di ricerca nella fase di selezione e posizionamento delle informazioni in generale non svolge un ruolo attivo e quindi non ha conoscenza dei dati e non esercita un controllo preventivo sui contenuti dei siti sorgente a cui è effettuato il link, dall’altro però, una volta venuto a conoscenza del contenuto illecito di specifici siti, identificati dai c.d. Urls ( Uniform Resource locator), è in condizione di esercitare un controllo successivo e di impedirne la indicizzazione e il collegamento, non essendo invece materia del contendere in difetto peraltro della partecipazione a giudizio del webmaster, la eliminazione dei contenuti dei siti pirata.
Viene, così, inibita alla società che gestisce un motore di ricerca la prosecuzione e la ripetizione della violazione dei diritti di sfruttamento economico, di cui è titolare una società di distribuzione, su un’opera cinematografica, attraverso il collegamento a mezzo del motore di ricerca stesso ai siti riproducenti in tutto o in parte l’opera, differenti rispetto al sito ufficiale del film”.
 
dott.ssa Mariacarmela Lospinuso, marzo 2012
(riproduzione riservata)
 
 

 
 
 
1Chiuso il sito Megaupload e arrestato il fondatore, 23 gennaio 2012, www.dirittodautore.it
 
2Fiandaca G. – Musco E., Diritto penale. Parte generale, Zanichelli, 2009, pag. 3 e ss.
 
3David Terracina, La tutela penale del diritto d’autore e dei diritti connessi, Torino, 2006, pag. 99 e ss.
 
4 Cfr. Giuseppe Corasaniti, Prove digitali e interventi giudiziari sulla rete nel percorso della giurisprudenza di legittimità, in Dir. informatica 2001, 03, p. 399.
 
5 Corte di giustizia UE, sez. III, 24 novembre 2011, n. 70. in Gior. Dir. Amm., 2012, 1, 78.
 
6 Corte di giustizia UE, sez. III, 16 febbraio 2012, n. 360 , in Dir. Comunitario on line, 2012
 
7 Trib. Catania sez. IV, 29 giugno 2004, in Guida al Diritto, 2004, 32, 77
 
8Tribunale di Roma, 22 marzo 2011, in Danno e Resp., 2011, 7, 753 con nota di riccio: Nella sentenza in esame la PFA Films s.r.l., nella qualità di licenziataria esclusiva dei diritti di sfruttamento economico sul film del regista iraniano Asghar Farhadi, agisce in via cautelare contro la Google Italy s.r.l., la Microsoft s.r.l. e la Yahoo! Italia s.r.l., domandando, previo accertamento della contraffazione dei medesimi e della conseguente concorrenza sleale, la rimozione dei propri servers dell’accesso ai files audiovisivi dei film non autorizzati e la inibitoria della prosecuzione delle violazioni, oltre alle misure accessorie del pagamento di sanzioni pecuniarie per euro 1.000,00 per ogni minuto e 10.000,00 per ogni giorno di ritardo nella esecuzione del provvedimento e della pubblicazione.
 
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