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Giuseppe Scozzari, Brevi riflessioni in tema di riqualificazione giuridica del fatto in sentenza alla luce del principio di correlazione tra accusa e sentenza
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La prima sezione penale del Tribunale di Palermo con la sentenza n. 184 del 2011 ha condannato B.G. alla pena di anni uno mesi sei di reclusione per il reato di cui all’art. 572 c.p. (maltrattamenti in famiglia), operando una riqualificazione dei fatti, dato che nel corso del processo le contestazioni mosse all’imputato erano di ben altra natura e specie, essendosi lo stesso dovuto difendere per i reati di cui agli artt. 594 (ingiuria), 612 (minaccia) e 660 (molestia) c.p..
Tale riqualificazione non è condivisibile, in quanto viola non solo principi di natura processuale, ma anche norme di rango costituzionale e norme sovranazionali.
E’, infatti, evidente che la riqualificazione sia stata operata in spregio delle più elementari norme poste alla base dello svolgimento del processo penale e del contraddittorio.
Per comprendere in quale violazione sia incorso il giudice di prime cure occorre innanzitutto prendere le mosse dall’art. 6 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, in materia di equo processo. Tale previsione impone agli Stati sottoscrittori del trattato di rendere effettive le garanzie di contraddittorio per tutti gli accusati in un procedimento penale, al fine di realizzare il c.d. “giusto processo” (o equo, nella traduzione storica della Convenzione). A tal fine l’art. 6, in particolare, al par. 3 stabilisce che «ogni accusato ha diritto di:
a) essere informato, nel più breve tempo possibile, in una lingua a lui comprensibile e in modo dettagliato, della natura e dei motivi dell’accusa formulata a suo carico;
b) disporre del tempo e delle facilitazioni necessarie a preparare la sua difesa;».
Come è noto le disposizioni contenute nella CEDU godono di un rango “qualificato” nella gerarchia delle fonti, essendo state definite quali norme “interposte” tra le norme di tipo costituzionale e quelle ordinarie che alle prime devono conformarsi. Questo proprio in virtù del diretto richiamo alle fonti di diritto internazionale di cui al comma 1 dell’art. 117 Cost. (1),
Il giudice italiano, quindi, nell’applicare la legge, è tenuto anche al rispetto delle suddette norme, nella misura in cui esse siano compatibili con l’ordinamento costituzionale italiano e siano altrettanto compatibili con il perseguimento di fini costituzionalmente protetti (2). Anzi, tali norme, in quanto di rango superiore alle leggi ordinarie, divengono addirittura norme integratrici del parametro costituzionale, che non è consentito al giudice disattendere (3). In quanto norme integratrici vincolano il giudice anche nell’interpretazione, considerato che lo stesso deve interpretare le norme di diritto interno conformemente al dettato delle norme internazionali (4) (5).
Essendo quindi indubbia la applicabilità dell’art. 6 della CEDU in ogni processo penale e assicurato il rango di norma “interposta” e quindi “superiore” rispetto alle norme ordinarie, occorre verificare cosa questo comporta in concreto e, soprattutto, rispetto alla disciplina di cui all’art. 521 c.p.p., come peraltro applicata nella sentenza in commento (6).
A tal fine è necessario analizzare la giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo in materia.
La sentenza più significativa al riguardo è sicuramente la n. 25575 dell’11 dicembre 2007, Drassich c. Italia (7) (ma non è da dimenticare la sent. del 25 marzo 1999, Pélissier e Sassi c. Francia).
Nel caso sottoposto all’attenzione della Corte europea, il triestino M. Drassich era stato chiamato a giudizio per il reato di corruzione in atti di ufficio. Riconosciuto colpevole, sia in primo che in secondo grado, per il reato di cui all’art. 319 c.p., presentava ricorso in Cassazione per fare valere il decorso termine di prescrizione. In sede di legittimità i giudici, pur in presenza di una evidente fondatezza del ricorso, rigettavano lo stesso, in quanto riqualificavano ex officio (quindi ai sensi del 521 c.p.p.) il reato commesso dal Drassich da corruzione in corruzione in atti giudiziari (art. 319-ter c.p.) dal termine di prescrizione molto più lungo. Su tale riqualificazione il Drassich adiva la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, la quale dichiarava la lesione del «diritto ad essere informati in modo dettagliato della natura e dei motivi dell’accusa, nonché del diritto a disporre del tempo e delle facilitazioni necessarie a disporre la difesa», e la conseguente violazione degli artt. 1 e 6 della Convenzione.
In particolare la Corte europea ha concentrato la sua attenzione sulla circostanza per la quale l’accusato deve essere «informato … della natura … dell’accusa formulata a suo carico». Essa non dubita che l’atto di accusa (8) «svolge un ruolo fondamentale nel procedimento penale» e che in esso deve essere contenuto, a norma dell’art. 6 § 3, lett. a), non solo i motivi dell’accusa e dei fatti materiali alla base di essa «ma anche, e in maniera dettagliata, della qualificazione giuridicadata a tali fatti (9)». Per la Corte la portata di questa disposizione «deve essere valutata alla luce del più generale diritto a un processo equo sancito dal par. 1 dell’articolo 6». Ne consegue che «una informazione precisa e completa delle accuse a carico di un imputato, e dunque la qualificazione giuridica che la giurisdizione potrebbe considerare nei suoi confronti, è una condizione fondamentale dell’equità del processo.». Pertanto «se i giudici dispongono, quando tale diritto è loro riconosciuto nel diritto interno, della possibilità di riqualificare i fatti per i quali sono stati regolarmente aditi, essi devono assicurarsi che gli imputati abbiano avuto l’opportunità di esercitare i loro diritti di difesa su questo punto in maniera concreta ed effettiva.».
Alla luce di tali affermazioni occorre, allora, verificare se il tribunale di Palermo, nel riqualificare il reato in sentenza, abbia effettivamente assicurata la possibilità all’imputato B.G. di esercitare i diritti di difesa, nel pieno contraddittorio tra le parti.
Di fatto così non sembrerebbe, dal momento che il giudice, nel corso del dibattimento, non ha mai fatto cenno ad una eventualità di tal tipo, non consentendo, dunque, che la discussione si orientasse in tal senso e che l’imputato potesse opportunamente difendersi.
Il codice di rito, peraltro, oltre ai poteri concessi al giudice di cui all’art. 521 c.p.p., prevede anche la possibilità per il pubblico ministero di rettificare e/o modificare il capo di imputazione e non vi è dubbio che il giudice possa pacificamente sollecitare il P.M. ad operare una modifica del capo di imputazione ai sensi dell’art. 516 c.p.p. (10) (11). Se ciò fosse accaduto sicuramente il dibattimento si sarebbe svolto secondo le regole e i canoni prescritti dalla Costituzione e nel rispetto delle norme poste a fondamento dell’equo processo e a garanzia del diritto di difesa degli imputati.
In realtà si può dire che si è assistito alla scissione del dibattimento di primo grado in due tronconi separati: il primo si è svolto nel contraddittorio tra le parti e riguardava gli elementi costitutivi dei reati di ingiuria, minaccia, ecc…, nonché l’applicazione della disciplina della prescrizione, delle esimenti e di ogni altra questione rilevante in merito; il secondo, invece, si è svolto nella mente del giudice, che, in contraddittorio con sé stesso, verificava la ipotetica sussistenza degli elementi costitutivi di un reato altrettanto ipotetico.
Tutto ciò in violazione degli artt. 24, 111 Cost. e 6 CEDU, nell’interpretazione data dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo e fatta propria dalle Corti del nostro Paese.
Si deve poi fare ancora riferimento alla sentenza n. 25575/2007 della Corte Europea allorquando essa denota che, anche in presenza di un elemento materiale identico posto alla base di due reati, non si può operare una riqualificazione de plano da parte del giudice, se i due reati contengono e hanno degli elementi distintivi che li differenziano, specie se questi costituiscono due reati autonomi. Interessante notare che la Corte ribadisce questo concetto per due reati sicuramente molto simili, per elementi costitutivi e bene giuridico tutelato, quali appunto la corruzione semplice e la corruzione in atti giudiziari, i cui termini di prescrizione hanno diversa durata.
Non si può quindi dubitare che tutte le osservazioni svolte sinora sicuramente si possono applicare a fortiori alle fattispecie di reato di cui agli artt. 594, 612 e 660 c.p. e a quella di cui all’art. 572 c.p..
Tenendo conto di quanto detto, si potrebbe opportunamente ritenere che la sentenza di primo grado del Tribunale di Palermo possa essere considerata nulla. Si tratterebbe di una nullità generale a regime intermedio ex artt. 178 e 180 c.p.p., che, dunque, non può essere sanata in grado di appello, sia perché il dibattimento in sede di appello è a cognizione limitata (art. 597 c.p.p.), sia perché la sua rinnovazione ha carattere eventuale (art. 603 c.p.p.), sia soprattutto perché il diritto violato è il diritto alla difesa ex artt. 24 e 111 Cost., diritto che deve essere garantito in ogni grado e stato del procedimento, anche nel giudizio di primo grado. (12) Il giudice di appello adito dovrebbe, pertanto, dichiarare la nullità con sentenza e rinviare gli atti al giudice che procedeva quando si è verificata la nullità, così come previsto dall’art. 604 comma 4 c.p.p.
La nullità delle sentenza del Tribunale di Palermo sarebbe, del resto, confermata dalla giurisprudenza di legittimità successiva alla sentenza Drassich c. Italia. Ed, infatti, secondo una recente massima della Suprema Corte: «È causa di nullità generale a regime intermedio, per violazione del diritto di difesa, la riqualificazione dell'imputazione operata in sentenza senza il previo contraddittorio, per quanto sia più favorevole per l'imputato.»(13).
Già in precedenza, peraltro, la Corte di Cassazione aveva sostenuto che: «La regola di sistema espressa dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (14), secondo cui la garanzia del contraddittorio deve essere assicurata all’imputato anche in ordine alla diversa definizione giuridica del fatto operata dal giudice ex officio, è conforme al principio statuito dall’art. 111, comma 2 Cost., che investe non soltanto la formazione della prova, ma anche ogni questione che attiene la valutazione giuridica del fatto commesso. Ne consegue che si impone al giudice una interpretazione dell’art. 521, comma 1 c.p.p. adeguata al decisum del giudice europeo e ai principi costituzionali sopra richiamati.»(15).
Alla luce delle superiori considerazioni e alla luce della giurisprudenza sopra riportata, non può che confermarsi l’opinione secondo la quale la sentenza in commento sia da considerarsi nulla ai sensi degli artt. 178 e 180 c.p.p., in quanto emessa in violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza di cui all’art. 521 c.p.p. ed in violazione degli artt. 24, 111, 117 comma 1 Cost. e dell’art. 6, parr. 1 e 3, lett. a) e b) della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo.
Avv. Giuseppe Scozzari, Agrigento - marzo 2012
(riproduzione riservata)
 

 
 
1() Petri V., Il valore e la posizione delle norme Cedu nell’ordinamento interno, in Cass. pen., 2008, p. 2296 ss.
2() Lupo E., La vincolatività delle sentenze della Corte Europea dei Diritti dell’uomo per il giudice interno e la svolta recente della Cassazione civile e penale, in Cass. pen., 2007, p. 2247 ss.
3() Corte Cost. sent. n. 348/2007, in Giur. cost. 2007, p. 3475 ss.; Corte Cost. sent. 349/2007, ivi, 2007, p. 3535 ss.
4() Corte Cost. sent. 349/2007 cit.; Cass. pen., sez. VI, 19 febbraio 2010, n. 20500, Fadda, in Cass. pen., 2011, p. 1834 ss.
5() Con l’unica conseguenza che, qualora il giudice non ritenesse applicabile una norma di diritto internazionale alla luce dei principi costituzionali, egli è tenuto a sollevare questione di legittimità costituzionale per la violazione dell’art. 117, comma 1, Cost..
6() Marcolini S., All’incrocio tra Costituzione e Cedu. Il rango delle norme della Convenzione e l’efficacia interna delle sentenze di Strasburgo, in Cass. pen., 2007, p. 3492 ss.
7() In Cass. pen., 2008, p. 1646 ss.; nonchè in Foroit., 2008, IV, p. 241 ss.
8() La terminologia qui utilizzata è la stessa della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, volutamente generica (non atecnica), in quanto deve potersi adattare ad ogni ordinamento degli stati sottoscrittori.
9() Cfr. sent. CEDU, cit.
10() E qualora ciò fosse avvenuto è appena il caso di ricordare che l’imputato gode di effettive alternative processali garantitegli da una sentenza additiva della Corte Costituzionale.
11() Bruni V., Il contraddittorio sulle questioni inerenti alla riqualificazione del fatto, in Cass. pen., 2011, p. 1834 ss.
12 Cass. pen., sez. VI, 12 novembre 2008, n. 45807, Drassich, in Cass. pen.,  2009, p. 1457 ss., con commenti di M. Caianiello, La riapertura del processo ex art. 625 bis c.p.p. a seguito di condanna della Corte europea dei diritti dell’uomo e di L. De Matteis, Condanna da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo e revoca del giudicato.
13() Cass. pen., sez. III, 23 marzo 2011, n. 18509, Fiodo, in C.E.D. Cass., n. 250292. In senso conforme: Cass. pen. sez. VI, 19 febbraio 2010, n. 20500, Fadda, cit.; Cass. pen., sez. I, 18 febbraio 2010, n. 9091 del 2010, Di Goti e altri, in Cass. pen., 2011, p. 630 ss., con commento di Sculco M., Diversa qualificazione giuridica del fatto e prerogative difensive; Cass. pen. Sez. I, 4 novembre 2009, n. 43230, Pigozzi, in Arch. nuova proc. pen.,  2010, p. 198 ss.; Cass. pen., sez. VI, 25 maggio 2009, n. 36323, Drassich, in Cass. pen., 2010, p. 2608 ss., con Osservazioni di Renzetti C. e nota di Quattrocolo S., Giudicato interno e condanna della Corte europea dei diritti dell’uomo: la Corte di Cassazione “inaugura” la fase rescissoria del 2009; Cass. pen., sez. VI, 12 novembre 2008, n. 45807, Drassich, cit.
14() Sent. 11 dicembre 2007, Drassich c. Italia, cit.
15() Cass. pen., sez. VI, 12 novembre 2008, n. 45807, Drassich, n. 45807 del 2008, cit.

 

 
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