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1) Nell’ambito del procedimento di estradizione per l’estero, l’intervenuta consegna allo Stato richiedente della persona reclamata comporta l’inammissibilità, per sopraggiunta carenza d’interesse, dell’impugnazione proposta dalla medesima persona contro il provvedimento di rigetto della richiesta di revoca o di inefficacia della misura cautelare coercitiva disposta a suo carico nel corso dello stesso procedimento, stante la natura incidentale della quaestio libertatis rispetto alla procedura di estradizione e avendo la cautela personale esaurito la sua funzione strumentale alla consegna. 2) Nell’ipotesi considerata, l’interesse all’impugnazione del provvedimento sulla libertà personale adottato a fini estradizionali non può essere ravvisato neppure nella prospettiva di ottenere la riparazione per ingiusta detenzione, in quanto il conseguimento di tale obiettivo è incompatibile con la pronuncia della sentenza – irrevocabile – favorevole all’estradizione.
RITENUTO IN FATTO
1. La Corte di appello di Firenze, con sentenza del 13 gennaio 2011 (irrevocabile il 7 aprile successivo), dichiarava sussistere le condizioni per l'estradizione processuale verso la Repubblica del Montenegro del cittadino albanese F. M., nei confronti del quale l'Autorità giudiziaria di quel Paese procedeva penalmente per il reato di associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti e per i reati-fine di importazione, detenzione e vendita illecite delle stesse sostanze, commessi negli anni 2008 e 2009, ed aveva emesso, in data 5 dicembre 2009, mandato di cattura.
1.1. Il M., ricercato in campo internazionale, era stato arrestato in Firenze dalla Polizia giudiziaria il 2 giugno 2010 e sottoposto, con provvedimento adottato il giorno successivo, ai sensi dell'art. 716, commi 3 e 4, cod. proc. pen., dal Presidente della Corte fiorentina, alla misura cautelare della custodia in carcere finalizzata a garantire la consegna.
1.2. Il Ministro della Giustizia, con decreto 21 aprile 2011, concedeva la sollecitata estradizione e informava lo Stato richiedente che a partire dall'11 maggio 2011 era possibile procedervi entro il termine di quindici giorni fissato dall'art. 18, par. 4, della Convenzione europea di estradizione del 13 dicembre 1957.
1.3. Il M., però, impugnava dinanzi al competente Tar del Lazio il citato decreto ministeriale, sollecitandone l'annullamento previa sospensione dell'efficacia.
Il magistrato delegato del Tar, con decreto del 9 maggio 2011, ritenuto che ricorrevano i presupposti della «estrema gravità ed urgenza», disponeva, ai sensi dell'art. 56, comma 2, d.lgs. 2 luglio 2010, n. 104 (c.d. codice del processo amministrativo), la sospensione, in via cautelare, dell'efficacia del provvedimento ministeriale sino alla camera di consiglio del successivo 8 giugno, fissata per la deliberazione collegiale ex art. 55, comma 5, del richiamato decreto legislativo.
2. i difensori dell'estradando, in data 27 maggio 2011, presentavano richiesta alla Corte di appello di Firenze per la declaratoria d'inefficacia, ai sensi degli artt. 708, comma 6, cod. proc. pen. e 18, par. 4, della Convenzione europea di estradizione, della misura custodiale in atto, essendo inutilmente decorso (il 26 maggio 2011) il termine previsto per la consegna.
Il Giudice distrettuale, con ordinanza del 3 giugno 2011, rigettava la richiesta, ritenendo che la mancata esecuzione della consegna dell'estradando nel termine previsto non era ascrivibile a colpevole inerzia dello Stato richiedente o a inadempienze dei Ministero della Giustizia italiano, ma era imputabile esclusivamente alla «sopravvenienza di una causa di forza maggiore», costituita dal provvedimento col quale il Tar, su richiesta dello stesso estradando, aveva sospeso cautelarmene l'esecuzione della disposta estradizione.
3. Avverso tale ordinanza di rigetto ha proposto ricorso per cassazione, tramite il proprio difensore, il M., sollecitando l'annullamento della medesima ordinanza, la declaratoria di perdita di efficacia della misura cautelare alla quale era sottoposto e la sua immediata liberazione.
Con un primo motivo, il ricorrente deduce la violazione degli artt. 708 cod. proc. pen. e 13 Cost.: sottolinea, in particolare, che i termini di custodia previsti dalla prima norma per la fase amministrativa dell'estradizione, una volta conclusa la fase giurisdizionale, sono molto brevi, inderogabili e non soggetti, in difetto di una espressa previsione legislativa, a sospensione o proroga per effetto del provvedimento cautelare del giudice amministrativo; aggiunge, evocando Sez. U, n. 41540 del 28/11/2006, Stosic, che non sono applicabili i termini massimi di custodia di cui all'art. 303, comma 4, cod. proc. pen., operativi soltanto per il procedimento ordinario e non estensibili a quello di estradizione.
Con un secondo motivo, lamenta la violazione degli arti. 696 cod. proc. pen. e 18, par. 4, della Convenzione europea di estradizione, norma - quest'ultima -direttamente applicabile nell'ordinamento italiano, perché ratificata con legge 30 gennaio 1963, n. 300 e implicitamente richiamata dall'art. 696 cod. proc. pen., nella parte in cui stabilisce la prevalenza delle norme pattizie internazionali in tema di estradizione rispetto alla disciplina del codice di rito: la coercizione personale non poteva protrarsi oltre i limiti fissati dalla richiamata norma convenzionale, sulla quale non poteva incidere l'andamento della procedura attivata con il ricorso al Giudice amministrativo, della quale non erano prevedibili i tempi di definizione, situazione - questa - che avrebbe peraltro esposto «lo Stato italiano a responsabilità nei confronti della comunità internazionale e ad azioni di risarcimento danni dinanzi all'Autorità giudiziaria europea».
4. Con ordinanza del 19 luglio 2011, la Sesta Sezione penale, assegnataria del ricorso, ne ha rimesso la decisione - ex art. 618 cod. proc. pen. - alle Sezioni Unite, rilevando un contrasto di giurisprudenza all'interno della stessa Sezione, non superato neppure dopo l'intervento di Sez. U, Stosic, del cui pensiero erano state date, alternativamente, letture diverse.
La Sezione rimettente evidenzia che, secondo un primo orientamento in linea con la pronuncia delle Sezioni Unite, l'estradando detenuto deve essere rimesso in libertà, se l'efficacia del decreto di estradizione viene sospesa, in via cautelare, dal giudice amministrativo, con conseguente mancata esecuzione della consegna nel termine stabilito; ciò perché la legge non prevede l'intervento del detto giudice come causa di sospensione o di proroga dei termini di durata della misura restrittiva applicata, che non possono in nessun caso superare quelli inderogabili previsti per la consegna dagli artt. 708 cod. proc. pen. e 18 della Convenzione europea di estradizione, posto che una contraria soluzione si porrebbe in palese contrasto con i principi fissati dall'art. 13 della Costituzione (Sez. U, Stosic; Sez. 6, n. 12677 del 20/03/2007, Cipriani; Sez. 6, n. 17624 del 12/04/2007, Sogorovic; Sez. 6, n. 44441 del 13/11/2008, Orvidas; Sez. 6, n. 6567 del 06/12/2007, dep. 2008, Imperiale). Altro orientamento, invece, esclude, nell'ipotesi considerata, la perdita di efficacia della misura cautelare personale e ritiene la durata della custodia disciplinata dall'art. 303, comma 4, cod. proc. pen. ovvero attinta da una causa sospensiva iussu iudicis (provvedimento del giudice amministrativo), al pari di quanto avviene nel procedimento ordinario ex art. 304, comma 1, lett. a), cod. proc. pen. (Sez. 6, n. 12451 dell'11/03/2011, Pilatasig; Sez. 6, n. 29261 del 08/05/2006, Cipriani; Sez. 6, n. 10110 del 08/02/2006, Cipriani; Sez. 6, n. 19830 del 09/04/2002, Aboud Maisi).
La Sezione rimettente, inoltre, osserva che la questione controversa e, quindi, l'esigenza di superare la evidenziata dissonanza di orientamenti interpretativi sono rese particolarmente rilevanti dalla nuova disciplina del processo amministrativo (d.lgs. n. 104 del 2010), che, semplificando e riducendo i termini di svolgimento del procedimento cautelare incidentale (artt. 55-62, 98), «rende concreta quella dinamica di "automatismo" nella concessione di misure sospensive dei provvedimenti impugnati davanti al giudice amministrativo in sede di "misure cautelari" [...] monocratiche o collegiali, di primo o di secondo grado».
5. Il Presidente Aggiunto, con decreto in data 8 agosto 2011, ha assegnato - ex art. 618 cod. proc. pen. - il ricorso alle Sezioni Unite, fissando per la trattazione l'odierna udienza camerale.
6. Deve ancora precisarsi in fatto che, nelle more della trattazione del ricorso, per quanto si evince dagli atti, il Tar del Lazio, con ordinanza collegiale dell'8 giugno 2011, rigettava la richiesta di sospensione cautelare del decreto ministeriale di estradizione.
A seguito di appello proposto dal M. ex art. 62 d.lgs. n. 104 del 2010, il Presidente del Consiglio di Stato, con decreto del 13 giugno 2011, sospendeva nuovamente l'esecuzione del decreto ministeriale, ma il Consiglio di Stato in composizione collegiale, con ordinanza del 12 luglio successivo, rigettava la richiesta cautelare.
La Procura generale presso la Corte di appello di Firenze, con nota del 18 agosto 2011, comunicava che il M., il precedente 26 luglio, era stato preso in consegna, in esecuzione del decreto di estradizione, da funzionari della Polizia montenegrina, come si evinceva dall'allegato verbale redatto dalla Polizia di Stato (Ufficio di Polizia Frontiera Aerea di Fiumicino).
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. La questione di diritto per la quale il ricorso è stato rimesso alle Sezioni Unite è la seguente: «se la misura coercitiva a fini estradizionali perda efficacia nel caso in cui lo Stato richiedente non prenda in consegna l'estradando nel termine di legge a causa della sospensione dell'efficacia, disposta dal giudice amministrativo, del provvedimento ministeriale di concessione dell'estradizione».
2. Preliminarmente deve rilevarsi che, per effetto della eseguita consegna allo Stato richiedente della persona reclamata, è venuto meno l'interesse di questa al ricorso, che deve, pertanto, essere dichiarato inammissibile.
3. Nel sistema processuale penale, infatti, la presenza di un interesse ad impugnare è espressamente richiesta dall'art. 568, comma 4, cod. proc. pen., norma di carattere generale applicabile anche al regime delle impugnazioni contro i provvedimenti de libertate. Detta norma, riproducendo quasi integralmente la disposizione di cui all'art. 190, comma quarto, del codice di rito abrogato, testualmente recita: «Per proporre impugnazione è necessario avervi interesse». L'interesse come condizione dell'impugnazione e requisito soggettivo del relativo diritto, al di là della previsione positiva introdotta, per la prima volta, dal legislatore del 1930 (i precedenti codici non menzionavano tale requisito), è un principio da sempre immanente, per la sua ragionevolezza, nell'intero sistema processuale e ne integra un canone generale, ampiamente già elaborato, in particolare, dai processualisti del settore civile e proclamato costantemente dalla giurisprudenza di legittimità. Nel sistema delle impugnazioni penali, la nozione d'interesse ad impugnare non può essere ancorata al concetto di soccombenza, così come inteso dagli studiosi del processo civile, nel quale assume rilievo, a differenza di quanto accade nel processo penale la cui dinamica è affidata all'impulso officioso, il confronto tra la domanda di parte e la sentenza. La soccombenza, infatti, presuppone un processo contenzioso, vale a dire una lite intesa come conflitto di interessi contrapposti. Il processo penale, invece, mira alla realizzazione di un unico interesse, tendenzialmente orientato alla conoscenza della verità, all'accertamento della norma eventualmente violata e all'attuazione della giustizia, intesa come affermazione del diritto oggettivo, sicché la nozione di soccombenza appare del tutto inidonea a descrivere in questo campo l'interesse ad impugnare. Tale conclusione trova conferma nel rilievo che l'art. 570 cod. proc. pen. riconosce al Pubblico Ministero la facoltà di proporre impugnazione anche nel caso in cui la decisione abbia accolto le conclusioni da lui rassegnate nel procedimento a quo. L'interesse ad impugnare deve essere colto nella finalità, perseguita dal soggetto legittimato, di rimuovere lo svantaggio processuale e, quindi, il pregiudizio derivante da una decisione giudiziale ovvero deve essere individuato - il che non muta il risultato - facendo leva sul concetto positivo di utilità che la parte mira a conseguire attraverso l'esercizio del diritto di impugnazione e in coerenza logicamente con il sistema legislativo. Sono questi gli elementi qualificanti dell'interesse ad impugnare, e il criterio di misurazione dello stesso, visto sia in negativo (rimozione di un pregiudizio) che in positivo (conseguimento di una utilità), è un criterio comparativo tra dati processuali concretamente individuabili: il provvedimento impugnato e quello che il giudice ad quem potrebbe emanare in accoglimento dell'impugnazione. Dal 1930 in poi il sistema delle impugnazioni penali ha subito, con riferimento alla problematica dell'interesse ad impugnare, una continua evoluzione, che ha portato a profonde modifiche del settore, nel senso che v'è stata una progressiva estensione della titolarità del diritto d'impugnazione, operata attraverso l'accreditamento di un più ampio concetto d'interesse, ravvisato comunque sempre nella finalità di rimuovere un pregiudizio, persino se derivante da una pronuncia favorevole, che incide, però, negativamente nella sfera giuridica o in quella morale della parte. Al primo intervento del legislatore, che, in attuazione dell'art. 111 Cost., aveva modificato parzialmente, con la legge 18 giugno 1955, n. 517, l'originario panorama normativo delle impugnazioni, hanno fatto seguito le sentenze manipolative della Corte costituzionale, che fanno esplicito riferimento - a giustificazione dell'estensione del potere d'impugnazione dell'imputato prosciolto - alla lesione di interessi potenzialmente intaccati anche dalla pronuncia favorevole (sentenze n. 70 del 1975, n. 73 del 1978, n. 72 del 1979, n. 53 del 1981, n. 224 del 1983, n. 200 dei 1986); vi sono stati, quindi, due ulteriori interventi legislativi, gli artt. 134 e 135 legge 24 novembre 1981, n. 689 e l'art. 3 legge 31 luglio 1984, n. 400, che hanno recepito il contenuto delle intervenute statuizioni di incostituzionalità del Giudice delle leggi, con riferimento agli artt. 512, 513, 387, 399 cod. proc. pen. del 1930 nella parte in cui ponevano limiti al diritto d'impugnazione avverso sentenze di proscioglimento con effetti pregiudizievoli per l'imputato. Il vigente codice di procedura penale ha avallato e completato l'iter di totale ricezione della linea di tendenza emersa dalle pronunce della Corte costituzionale e già seguita dal legislatore del 1981 e del 1984, tanto che la legge-delega 16 febbraio 1987, n. 81, all'art. 2, n. 86, espressamente prevede il «riconoscimento del diritto d'impugnazione dell'imputato prosciolto che vi abbia interesse», disposizione recepita nell'art. 593 cod. proc. pen., sul quale non hanno sostanzialmente inciso le norme introdotte dalla legge 20 febbraio 2006, n. 46, dichiarate incostituzionali con sentenze della Corte costituzionale nn. 26 e 320 del 2007 e n. 85 del 2008. L'esposto iter giurisprudenziale e legislativo offre la conferma che l'interesse ad impugnare, con riferimento alle molteplici situazioni che caratterizzano il procedimento penale nelle sue varie articolazioni, non può essere ancorato semplicisticamente al concetto di soccombenza, che è proprio del sistema delle impugnazioni civili, ma deve essere costruito in chiave utilitaristica, nel senso che deve essere orientato a rimuovere un pregiudizio e ad ottenere una decisione più vantaggiosa rispetto a quella della quale si sollecita il riesame.
4. L'interesse richiesto dall'art. 568, comma 4, cod. proc. pen., quale condizione di ammissibilità dell'esercizio del diritto d'impugnazione, deve essere connotato dai requisiti della concretezza e dell'attualità, deve sussistere non soltanto all'atto della proposizione dell'impugnazione, ma persistere fino al momento della decisione, perché questa possa potenzialmente avere una effettiva incidenza di vantaggio sulla situazione giuridica devoluta alla verifica del giudice dell'impugnazione (Sez. U, n. 10372 del 27/09/1995, Serafino; Sez. U, n. 20 del 20/10/1996, Vitale). Con riferimento a quest'ultimo aspetto, viene in considerazione la categoria della «carenza d'interesse sopraggiunta». Il fondamento giustificativo di tale categoria risiede nella valutazione negativa della persistenza, al momento della decisione, dell'interesse all'impugnazione, la cui attualità è venuta meno a causa della mutata situazione di fatto o di diritto intervenuta medio tempore, che assorbe e supera la finalità perseguita dall'impugnante, vuoi perché la stessa ha già trovato concreta attuazione (si pensi, in materia di revoca di misura interdittiva, alla sopravvenuta estinzione della medesima nel corso del procedimento d'impugnazione), vuoi perché ha perso ogni rilevanza (si pensi, in tema di scadenza dei termini di durata massima della custodia cautelare in carcere, alla intervenuta sentenza di condanna irrevocabile a pena detentiva superiore al presofferto). A fronte di tali esemplificative situazioni, il rapporto processuale d'impugnazione, concepito come prosecuzione del rapporto processuale originario, inevitabilmente perde di significato e non può trovare ulteriore spazio, essendo intervenuto, per eventi verificatisi medio tempore, il superamento del punto controverso in conseguenza, per così dire, della «cristallizzazione» del rapporto giuridico di base.
5. Con specifico riferimento alla materia estradizionale, rileva la Corte che ricorre l'ipotesi di sopravvenuta carenza d'interesse all'impugnazione del provvedimento reiettivo della richiesta d'inefficacia della misura cautelare personale per decorrenza dei termini massimi di cui agli artt. 708, comma 6, cod. proc. pen. e 18, par. 4, della Convenzione europea di estradizione, nel caso in cui l'estradando, in pendenza dell'impugnazione, sia stato effettivamente consegnato allo Stato richiedente. Non va sottaciuto, infatti, che la cautela personale adottata nell'ambito della procedura di estradizione passiva è finalizzata essenzialmente a soddisfare l'esigenza di scongiurare il pericolo di fuga dell'estradando, per garantirne la consegna allo Stato richiedente. E' pur vero, come già hanno avuto modo di statuire queste Sezioni Unite (sent. n. 26156 del 28/05/2003, Di Filippo), che l'esaurimento della fase giurisdizionale del procedimento di estradizione, conclusosi con sentenza irrevocabile favorevole all'estradabilità del soggetto sottoposto a misura coercitiva, non preclude il controllo giurisdizionale sulla richiesta di revoca o di sostituzione o di inefficacia della misura medesima, se detta richiesta è fondata su profili evidenziatisi soltanto nella fase amministrativa e non attinenti alla sussistenza delle condizioni, già accertate in via definitiva, per la concedibilità dell'estradizione, ma è anche vero che, ove, in esecuzione del decreto ministeriale di estradizione, sia avvenuta di fatto la consegna della persona allo Stato richiedente, viene meno l'interesse alla definizione del procedimento de libertate, che, avendo natura incidentale rispetto a quello di estradizione ed essendo funzionale all'obiettivo da quest'ultimo perseguito, non ha più ragion d'essere, per avere comunque assolto, in via definitiva, la sua funzione strumentale alla consegna della persona richiesta, uscita ormai dal campo di operatività della giurisdizione dello Stato italiano, che non è più in grado di incidere sullo status libertatis del medesimo soggetto. Né, in tale ipotesi, l'interesse all'impugnazione della misura custodiale sofferta a fini estradizionali può essere ravvisato nella prospettiva dell'esercizio del diritto alla riparazione per ingiusta detenzione. Al riguardo, non può certo ignorarsi che la Corte costituzionale, sollecitata in più occasioni a pronunciarsi sui limiti normativi dell'equa riparazione per ingiusta detenzione, ha ripetutamente riconosciuto all'art. 314 cod. proc. pen. una dimensione applicativa più estesa rispetto al mero dato letterale; e ciò ha fatto alla luce della direttiva di cui all'art. 2, n. 100, della legge-delega n. 81 del 1987, che enuncia il principio della riparazione dell'ingiusta detenzione «senza alcuna distinzione o limitazione circa il titolo della detenzione stessa o le ragioni dell'ingiustizia», e dell'alinea del richiamato art. 2, che prescrive la necessità di adeguamento dei codice di procedura penale «alle norme delle Convenzioni internazionali ratificate dall'Italia e relative ai diritti della persona e al processo penale, tra le quali la Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali e il Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, adottato a New York il 19 dicembre 1966, che prevedono rispettivamente, nell'art. 5, par. 5, e nell'art. 9, par. 5, il diritto ad un indennizzo in caso di detenzione illegale, senza alcuna limitazione». In particolare, il Giudice delle leggi, con sentenza interpretativa di rigetto n. 231 del 2004, pur dichiarando non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 314 cod. proc. pen., in riferimento agli artt. 2, 3, 13 e 24, comma quarto, Cost., nella parte in cui non prevede espressamente la riparazione per ingiusta detenzione sofferta a fini estradizionali, ha sottolineato che una lettura conforme a Costituzione della norma censurata consente di ritenere che, anche nei confronti dei soggetti di cui è richiesta l'estradizione, gli estremi dell'ingiusta detenzione possono e debbono comunque essere valutati, ai fini del riconoscimento del diritto alla riparazione, non sulla base dei parametri ricavabili dagli artt. 273 e 280 cod. proc. pen., la cui applicabilità è esclusa esplicitamente dall'art. 714, comma 2, cod. proc. pen., ma «verificando se risulta ex post accertata l'insussistenza delle specifiche condizioni di applicabilità delle misure coercitive, per tali soggetti individuate a norma del comma 3 dell'art. 714 cod. proc. pen. nelle "condizioni per una sentenza favorevole all'estradizione"». Tale lettura costituzionalmente orientata dell'art. 314 cod. proc. pen. è condivisa da queste Sezioni Unite. Al di fuori del limite indicato, non v'è ulteriore spazio per l'esperimento dell'azione di riparazione per l'ingiusta detenzione a fini estradizionali. Ne consegue che, in caso di sentenza irrevocabile favorevole all'estradizione, la detenzione eventualmente patita - a tal fine - dall'estradando non può considerarsi ingiusta e non può costituire, pertanto, titolo per un favorevole epilogo della procedura di cui agli artt. 314 e 315 cod. proc. pen.; in mancanza di tale prospettiva, quindi, l'avvenuta esecuzione dell'estradizione fa venire meno, anche sotto tale profilo, il concreto interesse della persona ormai estradata a coltivare il ricorso in materia de libertate.
6. Le argomentazioni sin qui sviluppate impongono, a norma dell'art. 173, comma 3, disp. att. cod. proc. pen., l'enunciazione dei seguenti principi di diritto:
- «nell'ambito del procedimento di estradizione per l'estero, l'intervenuta consegna allo Stato richiedente della persona reclamata comporta l'inammissibilità, per sopraggiunta carenza d'interesse, dell'impugnazione proposta dalla medesima persona contro il provvedimento di rigetto della richiesta di revoca o di inefficacia della misura cautelare coercitiva disposta a suo carico nel corso dello stesso procedimento, stante la natura incidentale della quaestio libertatis rispetto alla procedura di estradizione e avendo la cautela personale esaurito la sua funzione strumentale alla consegna»;
- «nell'ipotesi considerata, l'interesse all'impugnazione del provvedimento sulla libertà personale adottato a fini estradizionali non può essere ravvisato neppure nella prospettiva di ottenere la riparazione per ingiusta detenzione, in quanto il conseguimento di tale obiettivo è incompatibile con la pronuncia della sentenza - irrevocabile - favorevole all'estradizione».
7. L'intervenuta esecuzione del decreto ministeriale di estradizione emesso nei confronti di F. M., che in data 26 luglio 2011 è stato consegnato alle autorità dello Stato richiedente, giustifica, in applicazione degli esposti principi di diritto, la declaratoria d'inammissibilità, per sopravvenuta carenza d'interesse, del ricorso dal predetto proposto avverso l'ordinanza 3 giugno 2011 della Corte di appello di Firenze. Lo stesso difensore del ricorrente, pur avendo insistito, nel corso dell'odierna udienza camerale, per l'accoglimento del ricorso, non ha prospettato alcun concreto e attuale interesse del proprio assistito, ormai estradato, alla relativa decisione. Il carattere assorbente e decisivo della conclusione alla quale si è pervenuti impedisce di prendere in esame la questione di diritto rimessa, per il rilevato contrasto di giurisprudenza, alla valutazione delle Sezioni Unite.
8. E' il caso di precisare che, nel sistema processuale penale, non v'è una disposizione simile a quella di cui all'art. 363, comma terzo, cod. proc. civ., che, valorizzando la funzione nomofilattica del giudice di legittimità, consente alla Corte di cassazione, pur quando dichiara inammissibile il ricorso, di enunciare il principio di diritto nell'interesse della legge, anche se tale pronuncia non è destinata a spiegare alcun effetto sul provvedimento del giudice di merito (comma quarto del citato articolo). Né è concretamente praticabile un'estensione analogica di tale disciplina nell'ambito del sistema processuale penale, attraverso l'auto-attribuzione del corrispondente potere.
9. Alla declaratoria d'inammissibilità non segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e della sanzione pecuniaria, considerato che il venir meno dell'interesse alla decisione dei ricorso è sopraggiunto alla sua proposizione, è ricollegabile unicamente a fattori connessi all'evoluzione dinamica della procedura di estradizione e non configura, per così dire, un'ipotesi di soccombenza del ricorrente (Sez. U, n. 20 del 09/10/1996, Vitale).
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso per carenza sopravvenuta di interesse. Così deciso il 27 ottobre 2011
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