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L'obbligo del giudice di condannare la parte civile al pagamento delle spese del processo nel caso di mancato accoglimento della impugnazione proposta dalla stessa parte civile contro la sentenza di assoluzione dell'imputato, sussiste anche quando analoga impugnazione sia proposta dal pubblico ministero
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE UNITE PENALI Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. MARVULLI Nicola - Presidente Dott. MORELLI Francesco - Consigliere Dott. LATTANZI Giorgio - Consigliere Dott. SIRENA Pietro - Consigliere Dott. ONORATO Pierluigi - Consigliere rel. Dott. BRUSCO Carlo Giuseppe - Consigliere Dott. CANZIO Giovanni - Consigliere Dott. ROTELLA Mario - Consigliere Dott. CORTESE Arturo - Consigliere
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da: 1) PROCURATORE GENERALE presso la corte d'appello di Reggio Calabria; 2) I., parte civile, in persona del suo legale rappresentante pro tempore, nel processo penale contro: M.M.L., nata a ...il ...; avverso la sentenza resa il 27.5.2004 dalla corte d'appello di Reggio Calabria; Visto il provvedimento denunciato e i ricorsi; Udita la relazione svolta in Camera di Consiglio dal Consigliere Dr. Pierluigi ONORATO, Letta la requisitoria del Pubblico Ministero in persona del Sostituto Procuratore Generale Dr. CESQUI Elisabetta, che ha concluso chiedendo dichiararsi inammissibile il ricorso del Procuratore Generale e inammissibili i primi due motivi di ricorso della parte civile, nonche' rigettarsi il terzo motivo di ricorso della parte civile;
Osserva:
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
1 - Con sentenza del 2.2.1998 il pretore di Reggio Calabria assolveva perche' il fatto non sussiste, ex art. 530 comma 2 c.p.p., M.M.L. dal reato di truffa in danno dell'I., contestatole per avere simulato con V.M., titolare di azienda agricola - successivamente deceduto - un rapporto di lavoro agricolo, inducendo in errore l'istituto previdenziale e determinandolo a corrisponderle una indennita' di disoccupazione agricola da maggio a dicembre 1989 e da giugno a settembre 1990. 2 - Il Pubblico Ministero e la parte civile I. proponevano appello e la corte distrettuale di Reggio Calabria, con sentenza del 27.5.2004, confermava integralmente la pronuncia di primo grado, condannando altresi' la parte civile al pagamento delle spese processuali del grado di appello. Osservava la corte che le deposizioni dei due testi di accusa non potevano considerarsi decisive, giacche' i medesimi, dipendenti del V., avevano - si' - riferito di non aver mai visto la M. lavorare nel fondo del V., ma avevano anche precisato di non poter escludere che la medesima si trovasse al lavoro in una parte dell'esteso fondo agricolo diversa da quella dove lavoravano essi stessi. Inoltre le deposizioni di altri testi escussi avvaloravano la tesi difensiva. L'accusa era quindi fondata su elementi logici non irrilevanti, ma inidonei ad assurgere alla dignita' di prove dotate di tranquillante certezza.
3 - Contro tale decisione hanno proposto ricorso il Procuratore Generale di Reggio Calabria e l'I.
3.1 - Il Procuratore Generale denuncia con un solo motivo violazione dell'art. 192 comma 2 c.p.p., nonche' manifesta illogicita' della motivazione risultante dal testo della sentenza impugnata. Lamenta che la corte territoriale ha completamente trascurato la valutazione di numerosi indizi precisi, gravie concordanti: in particolare la circostanza che la M. era proprietaria di un proprio fondo agricolo di oltre quaranta ettari, per la coltivazione del quale assumeva mano d'opera bracciantile e colonica; il fatto che era compartecipe all'impresa familiare nella gestione della farmacia del marito, con un reddito mensile di circa dieci milioni di lire; l'ulteriore significativa circostanza che il rapporto di lavoro bracciantile de quo era durato il numero di giornate minimo per conseguire il requisito contributivo.
3.2 - Dal canto suo il difensore della parte civile, regolarmente munito di procura speciale, deduce: 3.2.1 - mancanza di motivazione risultante dal provvedimento impugnato, laddove la corte si e' limitata alla esposizione acritica e parziaria delle risultanze testimoniali, senza prendere in considerazione i numerosi e gravi elementi indiziari che pure aveva menzionato nella parte narrativa; 3.2.2 - inosservanza di norme processuali stabilite a pena di nullita' (art. 125, comma 3, c.p.p.), laddove la corte di merito ha omesso di prendere in considerazione le precise doglianze formulate nell'atto di appello; 3.2.3 - nullita' del capo concernente la condanna alle spese processuali per violazione dell'art. 592, comma 1, c.p.p., giacche' questa norma consente la condanna della parte civile per le spese del processo di impugnazione soltanto nel caso che l'impugnazione stessa sia stata proposta dalla sola parte civile, e non - come nel caso presente - anche dal pubblico ministero. Aggiunge che la censura e' ammissibile, se non altro per il carattere abnorme della statuizione; e in via gradata eccepisce la illegittimita' costituzionale della predetta norma, laddove non prevede la facolta' della parte civile di impugnare la propria condanna alle spese.
4 - Il processo e' stato assegnato alla settima sezione di questa corte ai sensi dell'art. 610, comma 1, c.p.p. sul presupposto della inammissibilita' dei ricorsi. Con memoria ritualmente depositata il difensore dell'I. ha confutato la inammissibilita' del suo ricorso, chiedendo la rimessione degli atti al Presidente della corte. La settima sezione, con ordinanza del 10.5.2005, dopo avere rilevato che, per quanto concerne la colpevolezza dell'imputata, i ricorsi devono ritenersi inammissibili in quanto i giudici del merito hanno negato la sussistenza di elementi idonei a suffragare l'accusa di simulazione del rapporto di lavoro con motivazione adeguata ed esente da evidenti illogicita', e che, comunque, esula dai poteri della Corte di Cassazione quello di una rilettura degli elementi posti a sostegno della decisione, essendone l'apprezzamento riservato al giudice di merito, ha affrontato la questione relativa alla pretesa abnormita' del capo della sentenza relativo alla condanna alle spese del procedimento. Sul punto il collegio ha ritenuto irrilevante e comunque assorbita dall'impugnazione della decisione di assoluzione la questione di legittimita' costituzionale prospettata dalla ricorrente in relazione alla disposizione di cui all'art. 592 c.p.p., laddove non prevede in capo alla parte civile la facolta' di impugnare la propria condanna alle spese, per l'irragionevole disparita' di trattamento con la posizione dell'imputato tutelata dall'art. 607 comma 2 c.p.p.. Inoltre, ha ritenuto non condivisibile l'assunto della parte civile ricorrente che, invocando un precedente di questa Corte (Sez. 4^, n. 14406 del 16.4.2002, imp. La Torre e altri), ha eccepito la nullita' del capo della sentenza con la quale era stata condannata al pagamento delle spese processuali benche' l'impugnazione fosse stata proposta anche dal PM. Tuttavia, trattandosi di una questione di diritto rilevante e suscettibile di dar luogo a contrasto giurisprudenziale, il collegio, ai sensi dell'art. 618 c.p.p. ha rimesso il ricorso alle sezioni unite.
5 - Il processo e' stato fissato per l'udienza del 25.10.2005. Il Procuratore Generale in sede, nella sua requisitoria scritta, ha concluso chiedendo di dichiararsi inammissibile il ricorso del Procuratore Generale e inammissibili i primi due motivi di ricorso della parte civile, nonche' di rigettarsi il terzo motivo di ricorso della parte civile.
MOTIVI DELLA DECISIONE
6 - Va anzitutto ricordato che il sistema del processo penale non prevede la possibilita' che il ricorso sia in parte definito dalla sezione semplice e in parte dalle sezioni unite, cosi' come e' invece previsto nel diverso sistema processualcivilistico, in cui e' possibile distinguere motivi di ricorso di competenza delle sezioni semplici e motivi di ricorso di competenza delle sezioni unite (art.142 disp. att. c.p.c.). Per questa ragione, nonche' per la natura sostanzialmente amministrativa e non giurisdizionale dell'ordinanza con cui la sezione semplice rimette il ricorso alle sezioni unite, a queste ultime compete la decisione dell'intero ricorso e non solo del motivo attinente alla questione che ha suscitato il contrasto giurisprudenziale. (Per l'affermazione secondo cui le sezioni unite non possono decidere limitatamente ad alcuni motivi di ricorso, riservando gli altri alla sezione semplice, v. Cass. Sez. Un. Pen. n. 17 del 21.9.2000, Primavera, rv. 216660). Ne deriva che la valutazione di inammissibilita' contenuta nella suddetta ordinanza di rimessione per i motivi attinenti alla violazione dell'art. 192 c.p.p. (n.3.1), alla mancanza di motivazione (n.3.2.1) e alla violazione dell'art. 125, comma 3, c.p.p. (n.3.2.2) non ha effetto preclusivo e non espropria la competenza di questo collegio. Altrettanto deve dirsi per la valutazione espressa sulla eccezione di illegittimita' costituzionale dell'art. 592 c.p.p..
7 - Tanto premesso, devono anzitutto essere esaminate le censure formulate sia dal pubblico ministero, sia dalla parte civile ai sensi dell'art. 576 c.p.p., in ordine alla responsabilita' penale dell'imputata (nn. 3.1, 3.2.1 e 3.2.2). Si tratta di censure tutte manifestamente infondate, giacche' la corte di merito ha confermato l'assoluzione della M. ex art. 530, comma 2, c.p.p. con una motivazione adeguata, scevra da vizi logici o giuridici, correttamente centrata sulla considerazione che gli indizi logici della simulazione del rapporto bracciantile de quo erano controbilanciati dalle deposizioni testimoniali, alcune delle quali erano pienamente liberatorie per l'imputata ed altre solo relativamente potevano definirsi accusatorie. Conclusivamente, il compendio probatorio risultava contraddittorio, in quanto non arrivava a dimostrare con sufficiente certezza che il rapporto di lavoro era simulato, e imponeva pertanto l'assoluzione della imputata ex art. 530, comma 2, c.p.p.. Non e' compito del giudice di legittimita' compiere una rivalutazione di tale compendio probatorio, sulla base delle prospettazioni dei ricorrenti, avendo questa Corte chiarito gia' da tempo che esula dai suoi poteri una "rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, la cui valutazione e', in via esclusiva, riservata al giudice di merito, senza che possa integrare il vizio di legittimita' la mera prospettazione di una diversa, e per il ricorrente piu' adeguata, valutazione delle risultanze processuali" (Sez.Un. n. 6402 del 2.7.1997, Dessimone, rv. 207944; Sez. Un. n. 930 del 29.1.1996, Clarke, rv. 203428). Non puo' quindi ravvisarsi nella sentenza impugnata ne' una errata applicazione dell'art. 192, comma 2, c.p.p. ne' una mancanza di motivazione ai sensi dell'art. 606 lett. e) c.p.p.. A maggior ragione non puo' ravvisarsi una violazione dell'art. 125, comma 2, c.p.p. perche' la sentenza impugnata ha motivatamente valutato le censure degli appellanti, confutandone le prospettazioni probatorie. Ma al riguardo si deve anzitutto osservare che, nella innovativa disciplina dell'art. 606 c.p.p., la mancanza di motivazione non puo' essere dedotta in Cassazione come inosservanza di una norma processuale stabilita a pena di nullita' (Sez. Un. n. 5 del 24.4.1991, Bruno, rv. 186998).
8 - Deve quindi esaminarsi l'ultima doglianza della parte civile (n. 3.2.3), che ha causato la rimessione del ricorso a queste sezioni unite. A questo proposito, il primo e piu' delicato problema e' quello dell'ammissibilita' del motivo di ricorso, ovverosia della facolta' della parte civile di impugnare la sentenza nella parte in cui la condanna al pagamento delle spese processuali anticipate dallo Stato. Il problema resta immutato pure nel caso - com'e' quello di specie - in cui la parte civile impugna la sentenza anche nella parte in cui assolve l'imputato. E' infatti evidente che il potere della parte civile di impugnare il giudizio di assoluzione ai sensi dell'art. 576 c.p.p. non la legittima, di per se', anche a impugnare la sua condanna alle spese processuali, sicche', in mancanza di uno specifico fondamento giuridico, il motivo formulato al riguardo sarebbe inammissibile per difetto di legittimazione. Sul tema, poco visitato dalla dottrina, un chiaro Autore ritiene sottinteso nell'art. 576, comma 1, c.p.p. (e risultante dal caso simmetrico, relativo al querelante, previsto nel comma 2 dello stesso articolo) che la parte civile puo' impugnare anche le condanne alle spese e danni da lite temeraria. Al riguardo, occorre invero osservare che dal combinato disposto degli artt. 576, comma 2, 542 e 427, commi 1 e 3, c.p.p. risulta la seguente disciplina: a) quando si tratta di reato perseguibile a querela, nel caso in cui il giudice di primo grado emetta sentenza di assoluzione perche' il fatto non sussiste o perche' l'imputato non l'ha commesso, il querelante in quanto tale e' condannato al pagamento delle spese anticipate dallo Stato; b) nello stesso caso, il querelante e' condannato alla rifusione delle spese e al risarcimento del danno in favore dell'imputato che ne abbia fatto domanda (anche a favore del responsabile civile citato o intervenuto, solo se il querelante si e' costituito parte civile); b) contro il capo della sentenza assolutoria che decide in tal modo sulla sua responsabilita' per le spese processuali e per i danni, il querelante puo' proporre impugnazione. La disciplina si spiega razionalmente perche', nei reati perseguibili a querela, e' solo il querelante in quanto tale a dare causa al processo penale, sicche' e' giusto (se e' ravvisabile una colpa a suo carico) che gli vengano accollate le spese sopportate dallo Stato nei casi in cui l'esercizio della giurisdizione si rivela inutile; cosi' come e' giusto (sempre se ricorra una sua colpa, piu' o meno grave) che egli debba rimborsare all'imputato le spese processuali e i danni da questi sopportati per fronteggiare le conseguenze della querela. La disciplina prevista per la parte civile e' analoga, ma non identica. Secondo l'art. 541, comma 2, c.p.p., che attiene alla decisione di primo grado, con la sentenza che assolve l'imputato per cause diverse dal difetto di imputabilita', se ne e' fatta richiesta, il giudice condanna la parte civile alla rifusione delle spese processuali sostenute dall'imputato e dal responsabile civile per effetto dell'azione civile esercitata nel processo penale; se la parte e' incorsa in colpa grave, il giudice la condanna altresi' al risarcimento dei danni causati all'imputato e al responsabile civile. In tal caso, sempre secondo i criteri della causalita' e della soccombenza, la parte civile deve rifondere le spese e i danni cagionati alle controparti private con l'infondato esercizio dell'azione civile nella sede penale; non deve invece rifondere le spese del processo anticipate dallo Stato, perche', non trattandosi di reato perseguibile a querela, essa non e' responsabile dell'inutile attivazione del processo penale. Nei gradi successivi del giudizio, invece, soccorre l'art. 592 c.p.p., secondo cui il giudice che dichiari inammissibile o rigetti l'impugnazione della parte civile deve condannarla alle spese del processo anticipate dallo Stato. In tale ipotesi, la responsabilita' per le spese del processo si giustifica alla luce dei suddetti criteri, perche' e' la parte civile ad essere causa del processo di impugnazione (a differenza del processo di primo grado). Per la parte civile, pero', non esiste una esplicita norma positiva che assegni ad essa il potere di impugnare le disposizioni delle sentenze che la condannino a pagare le spese anticipate dallo Stato, a differenza di quel che avviene per il querelante con il combinato disposto degli art. 542 e 427, comma 4, c.p.p.. Invero, l'art. 576, comma 1, c.p.p. legittima la parte civile a impugnare solo i capi della sentenza che riguardano l'azione civile, o ad impugnare anche la sentenza di proscioglimento penale dell'imputato, ma ai soli effetti della sua responsabilita' civile; mentre il capo della decisione che condanna alle spese del processo anticipate dallo Stato non riguarda l'azione civile, ne' la responsabilita' civile dell'imputato, ma solo la diversa responsabilita' della parte privata per le spese del processo conseguenti all'esercizio dell'azione penale. Non si puo' infatti condividere quella opinione dottrinale che afferma la natura civilistica della responsabilita' delle parti private e del querelante per le spese processuali, giacche' queste, essendo anticipate dallo Stato, hanno carattere essenzialmente pubblicistico, ineriscono all'azione penale e non all'azione civile esercitata nel processo penale. Del resto contro siffatta ricostruzione dommatica milita la rubrica e il testo dell'art. 541 c.p.p. dai quali risulta univocamente che le spese relative all'azione civile sono soltanto quelle sopportate dalla parte civile, poste a carico dell'imputato condannato (comma 1), e quelle sostenute dall'imputato e dal responsabile civile per effetto dell'azione civile, poste a carico della parte civile in caso di assoluzione dell'imputato (comma 2). Per il principio di tassativita' delle impugnazioni di cui al primo comma dell'art. 568 c.p.p., se ne dovrebbe quindi concludere che la parte civile non puo' impugnare la sentenza che la condanna a pagare le spese processuali anticipate dallo Stato, con evidente lesione del suo diritto di difesa e della parita' di trattamento rispetto al querelante in quanto tale. Tuttavia, in virtu' della norma di cui al secondo comma dell'art. 568 c.p.p. (che non e' una deroga, ma una particolare configurazione del principio di tassativita'), quella sentenza (e in particolare quel capo della sentenza che contiene la condanna della parte civile alle spese processuali) e' sempre ricorribile per Cassazione. In altri termini, per il diritto positivo la impugnabilita' e' limitata alla ricorribilita' per Cassazione. Il che si giustifica razionalmente con la considerazione che la condanna della parte civile a rifondere allo Stato le spese processuali non puo' avvenire che con una sentenza di secondo grado (impugnabile soltanto con ricorso per Cassazione), essendo la responsabilita' della parte civile per le spese del processo limitata ex art. 592 c.p.p. ai casi in cui la stessa ha proposto contro la sentenza di primo grado una impugnazione risoltasi con pronuncia di rigetto o di inammissibilita'. Se si considera altresi' - come gia' accennato - che la responsabilita' del querelante per le spese anticipate dallo Stato sussiste, nelle ipotesi previste, sin dal primo grado del processo, si deve concludere che il sistema, nonostante l'apparenza contraria, finisce per ritrovare una sua obiettiva razionalita' e legittimita' costituzionale, giacche' la (sola) ricorribilita' in Cassazione della condanna alle spese processuali per la parte civile assicura a questa parte la completa soddisfazione del suo diritto di difesa e la sostanziale parita' di trattamento rispetto alla posizione riservata al querelante.
In conclusione, si deve affermare il principio che la parte civile, a norma dell'art. 568, comma 2, c.p.p., ha sempre il diritto di ricorrere per Cassazione contro i capi delle sentenze che la condannano ex art. 592 c.p.p. al pagamento delle spese processuali anticipate dallo Stato. Per conseguenza, per sostenere tale ricorribilita', non e' necessario invocare - come fa la parte civile nel presente processo - una presunta abnormita' del provvedimento o in subordine la illegittimita' costituzionale della predetta norma processuale.
9 - Cosi' affermata la ammissibilita' del motivo di ricorso 3.2.3 se ne deve pero' dichiarare la infondatezza giuridica. Invero, il tenore letterale della norma di cui all'art. 592, comma 1, c.p.p. non lascia dubbi circa la responsabilita' per le spese processuali della parte civile che abbia proposto una impugnazione rigettata o dichiarata inammissibile, senza possibilita' di distinguere il caso in cui l'impugnazione della parte civile sia o no accompagnata anche dalla impugnazione del pubblico ministero. La interpretazione contraria e' sostenuta solo da Cass. Sez. 4^ n.14406 del 16.4.2002, ud. 13.3.2002, La Torre ed altri, rv. 221841, che, giudicando un ricorso contro una sentenza di corte d'assise d'appello che aveva condannato le parti civili al pagamento delle spese relative al giudizio di appello alle quali avevano dato causa, ha affermato il seguente principio: "nel caso di mancato accoglimento delle impugnazioni proposte avverso sentenza di assoluzione tanto del pubblico ministero quanto della parte civile, non puo' darsi luogo alla condanna di quest'ultima al pagamento delle spese, come previsto in via generale dall'art. 592, comma 1^, cod. proc. pen., non potendosi far gravare alla parte civile anche gli oneri derivanti dall'attivita' del rappresentante della pubblica accusa e non essendo possibile discernere tra le spese derivate dall'impugnazione dell'una o dell'altra parte". Si argomenta in sostanza che la parte privata soccombente non puo' essere gravata di spese processuali che sono state causate anche dall'impugnazione della parte pubblica. Una tesi siffatta sembra fondarsi sul principio di causalita', il quale nella dottrina processualcivilistica viene generalmente configurato come la ragione sostanziale che giustifica ai sensi dell'art. 2043 cod. civ. la condanna alle spese giudiziali e che si traduce poi sul piano formale nel principio di soccombenza. Tale principio di causalita' e' assunto pero' in un'accezione scorretta, che ne esclude impropiamente la operativita' ogni volta che le spese del processo siano imputabili a una pluralita' di parti, private o pubbliche. Si deve infatti osservare che nel codice di procedura penale vige al contrario un principio generale di responsabilita' che pone le spese del processo a carico di tutte le parti private soccombenti. Cosi', lo stesso art. 592, comma 2, c.p.p. stabilisce la responsabilita' solidale per le spese processuali anche a carico dei coimputati che hanno partecipato attivamente al giudizio in conseguenza dell'effetto estensivo della impugnazione, quando questa sia stata rigettata o dichiarata inammissibile. Cio' significa che il legislatore pone a carico solidale dell'imputato le spese del giudizio di impugnazione, anche quando questi non promuove il giudizio, ma si limita a partecipare ad esso in virtu' dell'effetto estensivo dell'impugnazione. Si puo' dire a rigore che in tal caso l'imputato e' responsabile delle spese processuali non perche' ha dato causa al giudizio, ma perche' e' stato causa (o concausa) delle spese del giudizio. Sulla stessa linea, correttamente questa Corte ha gia' ritenuto che anche gli appellanti in via incidentale sono soggetti al pagamento delle spese del processo quando la impugnazione e' dichiarata inammissibile o e' rigettata (Sez. 4^, sent. n. 111828 del 28.12.1993, p.c. in proc. Arsighini, rv. 196609). Parimenti nell'ordinamento del processo civile si rinviene un principio generale di responsabilita' solidale per le spese processuali, che sono poste a carico di tutti i soccombenti che hanno un interesse comune nel giudizio (art. 97, primo comma, ultimo periodo, c.p.c.), inteso questo non solo come indivisibilita' o solidarieta' del rapporto sostanziale dedotto in giudizio, ma anche come convergenza di interessi processuali, desumibile anche dalla identita' delle questioni sollevate e dibattute (explurimis Cass. Sez. Un. Civ., n. 1436 del 12.2.1987, rv. 450963; Cass. Civ. Sez. 2^ n. 5825 del 24.6.1996, rv. 498277; Cass. Civ. Sez. 2^ n. 6761 del 31.3.2005, rv. 581469). In tutte queste ipotesi la responsabilita' per le spese processuali si giustifica col principio della soccombenza, in base al quale esse sono poste a carico delle parti che hanno subito l'esito sfavorevole del giudizio. Si puo' giustificare anche col principio di causalita', inteso pero' nel senso che le spese processuali gravano su tutte le parti soccombenti che le hanno cagionate partecipando al processo, anche se del processo non sono state promotrici. Un siffatto sistema, tendenzialmente unitario, si atteggia pero' in modo particolare nel processo penale, perche' in questo, per comprensibili ragioni, la parte pubblica (il pubblico ministero) e' per principio esonerato dalla responsabilita' per le spese. Questa particolarita' spiega perche' l'art. 592 c.p.p. prevede la condanna alle spese processuali del giudizio di impugnazione solo della parte privata, e non invece della parte pubblica, soccombente. La suddetta ratio unitaria che ispira il sistema della responsabilita' solidale di piu' parti soccombenti spiega invece perche' la parte civile deve essere condannata alle spese del giudizio di impugnazione anche quando, per comune interesse processuale, ha condiviso col pubblico ministero l'iniziativa della impugnazione e la conseguente soccombenza.
In conclusione, sia per ragioni testuali sia per ragioni sistematiche, e' necessario affermare il seguente principio: "l'obbligo del giudice di condannare la parte civile al pagamento delle spese del processo nel caso di mancato accoglimento della impugnazione proposta dalla stessa parte civile contro la sentenza di assoluzione dell'imputato, sussiste anche quando analoga impugnazione sia proposta dal pubblico ministero".
10 - Per le suesposte considerazioni il ricorso del Procuratore Generale, essendo fondato su motivi tutti manifestamente infondati, va dichiarato inammissibile. Il ricorso della parte civile, invece, va respinto, giacche' solo due dei motivi dedotti a sostegno possono dirsi manifestamente infondati. Consegue ex art. 616 c.p.p. la condanna della stessa parte civile ricorrente al pagamento delle spese processuali. Considerato il contenuto dell'impugnazione, non si ritiene di irrogare anche la sanzione pecuniaria a favore della cassa delle ammende. P.Q.M. La Corte Suprema di Cassazione dichiara manifestamente infondato il ricorso del Procuratore Generale e rigetta il ricorso della parte civile, che condanna al pagamento delle spese processuali. Cosi' deciso in Roma, il 25 ottobre 2005. Depositato in Cancelleria il 16 novembre 2005
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