Tribunale di Grosseto, in in composizione monocratica,
Ordinanza 14 febbraio 2002

Tribunale di Grosseto, in in composizione monocratica,
Ordinanza 28 febbraio 2002

con nota di Eugenio Albamonte, "Speciale tenuità del fatto” e “condotte riparatorie”: primi problemi nell’applicazione del rito “penale” del giudice di pace

Proc. n.00/626 R.Dib. Tribunale di Grosseto, ordinanza del 14.2.2002           

Sulle richieste della difesa dell’imputato, rispettivamente di declaratoria ex art. 129 c.p.p. di improcedibilità ex art. 34 D.Lgs. 28.8.2000 n.274, ovvero in subordine di sospensione del procedimento per lo svolgimento delle attività risarcitorie e riparatorie ex art. 35 D.Lgs. 28.8.2000 n.274;

Rilevato che in virtù della norma transitoria di cui all’art.64 comma 2 del D.Lgs. 28.8.2000 n. 274, e con la clausola di salvaguardia di cui al primo comma dell’art.63 “in quanto applicabili”, in ipotesi le norme invocate possono trovare applicazione nel caso di specie, trattandosi di reati di competenza penale del giudice di pace commessi prima dell’entrata in vigore di detto decreto;

Considerato quanto alla prima richiesta che nella specie si è già nella fase del comma terzo di detto articolo 34 e pertanto la speciale tenuità - a parte l’ovvia considerazione che si tratti di un giudizio involvente valutazioni di merito e dunque da assumere comunque all’esito dell’istruttoria dibattimentale – può essere dichiarata con sentenza solo in assenza di opposizione della persona offesa, allo stato formalizzata invece dalla parte civile;

Ritenuto quanto alla seconda richiesta, relativa all’istanza di sospensione ai sensi dell’art. 35 del decreto, che si tratti di una facoltà rimessa alla discrezionalità del Giudice e che nella specie - essendovi stato già un congruo rinvio per consentire alle parti un accomodamento, andato vano per la complessità dei rapporti che le legano – non si ravvisa l’opportunità di un ulteriore rinvio;

P.Q.M.

Respinge le richieste della difesa dell’imputato e Dispone procedersi oltre.

Grosseto, 14.2.2002

                                                                                   IL GIUDICE

                                                                              Dott. Giovanni PULIATTI                                                                               

 

 

Proc. n.02/123 R.Dib.Tribunale di Grosseto, ordinanza del 28.2.2002           

Sulle richieste della difesa dell’imputato di declaratoria di improcedibilità per avvenuta riparazione da parte della Compagnia Assicuratrice ai sensi dell’art.35 D.Lgs. 28.8.2000 n.274, ovvero in subordine di sospensione del procedimento per completare la riparazione del danno;

Il Giudice, osserva preliminarmente che, in forza del combinato disposto degli artt.63 e 64 D.Lgs. 274/2000, la disposizione di cui all’art.35 dello stesso decreto è pacificamente osservabile, in quanto applicabile, nella presente fattispecie di reato, oggi di competenza del Giudice di Pace ma assegnata alla trattazione del Tribunale in quanto commessa prima dell’entrata in vigore della suddetta normativa.

Ciò premesso, l’applicazione della disposizione richiamata, ancorché per sua natura preliminare all’apertura del dibattimento, presuppone o comunque consente lo svolgimento di un esame preliminare che passa non solo attraverso l’audizione delle parti e della persona offesa, ma anche attraverso l’analisi di tutti quegli atti che possano consentire al Giudice la valutazione circa la sussistenza dei requisiti indicati dall’art.35 per reputare che le dedotte condotte riparatorie siano idonee a provocare l’estinzione del reato ovvero, in alternativa, consentano la concessione del termine di cui al comma 3 della norma stessa.

P.Q.M.

Dispone l’acquisizione della documentazione in possesso del Pubblico Ministero e delle parti;

Dispone l’audizione della persona offesa e dell’imputato;

all’esito, impregiudicata ogni valutazione assegna termine di mesi due per l’eventuale produzione ed allegazione di documentazione attestate ulteriori integrazioni delle attività risarcitorie e/o attestanti la presenza dei requisiti di cui all’art. 35 D.Lgs. 274/2000.

Grosseto, 28.2.2002

                                                                                   IL GIUDICE

                                                                                Dott. Pietro MOLINO                                                                  

 

Eugenio Albamonte,* "Speciale tenuità del fatto” e “condotte riparatorie”: primi problemi nell’applicazione del rito “penale” del giudice di pace

Con le due ordinanze in commento il Tribunale maremmano si confronta con alcuni degli istituti maggiormente controversi introdotti dalla riforma attributiva delle competenze penali al giudice di pace (D.Lgs. 274/2000), ovvero l’esclusione della procedibilità nei casi di particolare tenuità del fatto (art.34) e l’estinzione del reato conseguente a condotte riparatorie (art.35).

            Non si conoscono precedenti, data l’estrema novità della materia, ma è da ritenere che, contestualmente alle pronunce in esame, le problematiche prese in considerazione abbiano senz’altro trovato ingresso in più di una corte di merito.

            Le opzioni interpretative adottate dai giudici grossetani, identiche su alcune premesse di fondo, non coincidono invece su alcuni degli aspetti più rilevanti introdotti dal decreto legislativo, a testimonianza della difficoltà di approccio con istituti normativi assai peculiari, connotati da elementi di eterogeneità con le tradizionali categorie del diritto penale, e certamente non del tutto coerenti con l’assetto processuale conosciuto.

Una prima questione pregiudiziale: l’applicabilità degli istituti di cui agli artt.34 e 35 ai reati oggi di competenza del giudice di pace ma ancora giudicati dal Tribunale ordinario in composizione monocratica.

            Le pronunce in commento si domandano in primo luogo se gli istituti della “speciale tenuità” e delle “condotte riparatorie” siano applicabili ai processi in corso davanti al tribunale ordinario (in composizione monocratica) per reati commessi in epoca precedente alla pubblicazione del decreto legislativo 274/2000 o comunque anteriormente alla sua entrata in vigore.

            La soluzione adottata – che dichiara l’ammissibilità dei nuovi istituti - è pacificamente affermata dalla dottrina e trova conforto normativo nella esplicita previsione transitoria di cui all’art.64 comma 2: nei procedimenti relativi a reati commessi primi dell’entrata in vigore del decreto legislativo (e dunque ancora di competenza del giudice togato) si osservano le disposizioni dell’articolo 63 comma 1 e 2, secondo le quali quando il reato ora di competenza del giudice di pace si trovi ad essere attribuito alla cognizione di un giudice diverso si osservano comunque le disposizioni del titolo II del decreto nonché, in quanto applicabili, le disposizioni di cui agli articoli 33, 34, 35, 43 e 44.

            Nessun dubbio dunque sulla immediata attivazione delle nuove previsioni.

Rimane da comprendere invece quale spazio in concreto acquisterà la riserva che lo stesso articolo 63 formula allorché dispone l’osservanza delle disposizioni richiamate in quanto applicabili, cioè in quanto compatibili con un rito – quello del Tribunale ordinario – sensibilmente diverso da quello studiato per il giudice onorario, se non altro per l’evidente minore esaltazione del momento conciliativo.

Le ordinanze in commento rappresentano proprio uno dei primi segnali della difficoltà di conciliare i nuovi istituti con i meccanismi e soprattutto con le scansioni procedurali ordinarie: ciascuna delle problematiche affrontate merita dunque una autonoma riflessione.

La speciale tenuità: il problema del consenso della persona offesa.

Con la prima ordinanza sopra citata il Tribunale maremmano ha in primo luogo escluso la possibilità di riconoscere l’improcedibilità dell’azione penale a causa dell’espresso dissenso della persona offesa.

            È noto infatti che ai fini dell’applicazione dell’istituto non solo de­ve risultare il fatto esiguo sulla base dei criteri indicati dall’art.34, ma deve ricorrere anche un requisito negativo, che muta a seconda della fase del procedimento.

            Nel corso delle indagini preliminari, infatti, non deve risultare un interesse della persona offesa alla prosecuzione del proce­dimento (comma 2); se invece è stata esercitata l’azione penale, la particolare tenuità del fatto può essere dichia­rata solo se l’imputato e la persona offesa non si oppon­gono (comma 3).

          Tralasciando in questa sede la prima ipotesi (che pure dà luogo a non pochi problemi interpretativi), per quanto riguarda la possibilità che la “speciale tenuità” sia dichiarata dopo che l’azione penale sia stata esercitata, cioè in altri termini in sede dibattimentale (o predibattimentale), le perplessità derivano dalla considerazione che essendo stato oltrepassato il limite temporale per porre in essere la condotta riparatoria e non avendo avuto buon esito il tentativo di conciliazione, non esisterebbe più un interesse della persona offesa alla composizione del con­flitto, al quale dare rilevanza: di talché, o si ritiene che l’opposizione, rispondendo all’esigenza di attribuire rilievo sic et simpliciter alla volontà della persona offesa, debba essere intesa come manifestazione di un dissenso; oppure si adotta un’interpretazione dell’ultimo comma dell’art.34 per la quale se è stata eser­citata l'azione penale, la particolare tenuità del fatto può essere dichiarata con sentenza solo dopo l’audizione della persona offesa, ma indipendentemente dal fatto che questa dissenta o meno, e sempre che l'imputato non si opponga.

                 L’opzione esercitata dal Tribunale – ovvero quella di considerare il dissenso della persona offesa come un ostacolo insormontabile e pregiudiziale al riconoscimento dell’istituto – è senz’altro quella più conforme al dettato normativo, anche se finisce di fatto per rendere inutilizzabile l’istituto, attribuendo il potere di celebrare il pro­cesso alla volontà della vittima (che nella normalità dei casi lo eserciterà in senso positivo).

D'altra parte, la soluzione opposta sembra forzare oltre misura il tenore letterale della norma, piuttosto univoco nel ribadire la necessità di assenza di opposizione.

In attesa delle prime posizioni della giurisprudenza di legittimità (se non addirittura del giudice delle leggi, considerati i possibili sospetti di incostituzionalità) e dunque fermi restando tutti i dubbi appena riferiti, un’interpretazione conforme alla funzione "ricompositoria" del rito disegnato per il giudice di pace consente invece di giungere in ogni caso ad una conclusione condivisibile.

Non può essere posta in discussione infatti la volontà di esaltare il ruolo della persona offesa, nel senso di esigere che le sue ragioni trovino adeguato risalto all’interno del processo.

Ebbene, il dibattimento è il luogo deputato nel quale la persona offesa può vedere “pubblicamente” affermate le proprie motivazioni e le proprie pretese: solo una “pubblica soddisfazione” della persona offesa, in termini anche e soprattutto morali, può condurre allora - anche a seguito di una indagine esplorativa condotta direttamente dal giudice - ad una declaratoria di speciale tenuità.

Con tale convincimento, qualche rilievo critico può allora essere mosso alla pronuncia in commento, non tanto nel merito delle conclusioni, ma piuttosto con riguardo al percorso procedurale, apparendo più conforme alla ratio della disposizione che la decisione debba conseguire ad una verifica più pregnante ed effettiva (che può passare anche attraverso l’esame testimoniale della persona offesa e l’esame dell’imputato medesimo) delle ragioni della vittima del reato.

Le condotte riparatorie.

Problemi ancora maggiori – come si può intuire dalla lettura di entrambe le ordinanze – suscita l’osservanza della disposizione che consente al giudice di dichiarare l’estinzione del reato conseguente a condotte riparatorie (art.35 del D.Lgs. 274/2000).

Ai giudici grossetani le difese degli imputati, entrambi tratti a giudizio per il reato di cui all’art.590 c.p. - ponevano diverse questioni.

Nel primo caso (ordinanza del 14.2.2002) - si richiedeva la concessione del termine previsto dall’art.35 comma 3 del decreto per poter provvedere alla effettuazione delle condotte riparatorie, onde accedere alla definizione alternativa del procedimento; il Tribunale rigettava la domanda, ritenendo che i numerosi rinvii del processo, disposti per favorire l’eventuale conciliazione e remissione di querela, fossero ostativi alla concessione del termine suddetto.

In effetti, la fattispecie introdotta dall’art.35 contempla la possibilità che il giudice di pace (ovvero ogni altro giudice che per qualsiasi motivo si trovi a trattare i reati attribuiti alla competenza del magistrato onorario) disponga la sospensione del processo, per un periodo non superiore a tre mesi, qualora l'imputato chieda nell'udienza di comparizione di poter provvedere agli adempimenti di cui al comma 1 e dimostri di non averlo potuto fare in precedenza; accogliendo la richiesta, il giudice di pace può anche imporre specifiche prescrizioni all'imputato.

L’introduzione di una “sanatoria” in corso di causa fa sorgere sicuramente qualche interrogativo.

Ci si chiede infatti quale sia il contenuto della dimostrazione di non aver potuto provvedere alla riparazione in precedenza: deve essere una causa impeditiva non addebitabile all’imputato oppure è sufficiente provare il fatto ostativo, qualunque ne sia l’origine e le eventuali responsabilità?

La seconda interpretazione si fa senz'altro preferire, coerente come appare con l'intero assetto normativo introdotto dalla riforma; del resto, l'evenienza più frequente nella prassi è certamente quella di un imputato che assuma semplicemente di non aver goduto di sufficienti margini di tempo per provvedere alla riparazione, in considerazione dei tempi ristretti che trascorrono tra il momento nel quale viene a conoscenza dell'intervenuto esercizio dell'azione penale e la data dell’udienza di comparizione.

Alla luce dell’orientamento illustrato la soluzione adottata dal Tribunale maremmano nella prima ordinanza in commento si palesa del tutto condivisibile: nella fattispecie posta all’attenzione del giudicante, infatti, non si riscontrava alcuna prova del fatto ostativo, qualunque ne fosse l’origine e la responsabilità; anzi, il lungo lasso di tempo trascorso giocava in senso contrario all’esistenza di un qualsiasi fattore impeditivo di una tempestiva riparazione.

D’altra parte, è opportuno ricordare che l’istituto introdotto dall’art.35, in linea con i criteri ispiratori dell’intero decreto legislativo, risponde ad un’evidente finalità di deflazione e “velocizzazione” dei procedimenti: non vi è chi non veda allora come tale obiettivo sarebbe oltremodo contraddetto ove si accedesse ad una indiscriminata concessione di termine, non motivata dal riscontro di precisi precedenti ostacoli alla effettuazione delle condotte riparatorie.

Più complessa invece la problematica della seconda fattispecie: qui la difesa invocava l’immediata estinzione del processo in conseguenza di un avvenuto risarcimento del danno da parte della compagnia assicuratrice dell’imputato, che sebbene non tacitava l’intera pretesa della vittima delle lesioni - che infatti si opponeva alla declaratoria di estinzione – era tuttavia dalla difesa stessa ritenuto idoneo ad eliminare le effettive conseguenze dannose da quella sopportate, nonché a soddisfare le esigenze di riprovazione e prevenzione del reato; in subordine, la difesa dell’imputato invocava comunque la concessione del termine previsto all’art.35 comma 3 per provvedere al completamento delle condotte riparatorie.

Molti, come anticipato, i problemi in questo caso sul tappeto.  

Se pacifica appare la possibilità di concedere la sospensione del processo all'imputato che dimostri di aver effettuato una riparazione solo “parziale” del danno, al fine di consentirgli di completare l’opera di risarcimento, sostanziosi interrogativi invece pone la questione delle caratteristiche della riparazione medesima.

            L’art.35 prevede invero due condotte: la riparazione del danno cagionato dal reato mediante le restituzioni o il ri­sarcimento e l’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose del reato.

          Entrambe le condotte riparatorie devono avere, tra gli altri requisiti, quello della personalità: che si debba trattare di una prestazione personale lo si ricava dall’art.35 comma 2, in quanto il giudice deve ac­certare di volta in volta se le attività risarcitorie sono sta­te idonee a soddisfare esigenze di riprovazione del fatto e di prevenzione, sicché la condotta non può che essere compiuta personalmente dall’a­gente.

            Da ciò dovrebbe conseguire che, per quanto riguarda il risarci­mento del danno, la causa di estinzione non possa essere applicata a fronte di una mera ed automatica riparazione avvenuta per opera dell’istituto assicuratore, né tanto meno quando il risarcimento del danno è compiuto dal responsabile civile per conto proprio e nel proprio interesse oppure da un terzo magari estraneo alla vicenda criminosa.

            Tuttavia, nemmeno una soluzione contraria appare conforme a giustizia: specialmente nel campo delle lesioni dipendenti da sinistri stradali sarebbe assurdo pretendere un risarcimento “personale” da parte dell’imputato, nel momento in cui lo stesso è normativamente obbligato a dotarsi di copertura assicurativa per la circolazione stradale.

            Ciò che il legislatore richiede, a ben vedere, è una partecipazione personale alla condotta riparatoria, cioè un comportamento fattivamente volto al soddisfacimento della pretesa risarcitoria, di cui l’autore del reato potrà fornire adeguata dimostrazione ogni qual volta sia in grado di provare che il risarcimento, ancorché da terzi proveniente, è stato da lui medesimo provocato, sollecitato, non ostacolato.

                Se è vero poi che la condotta riparatoria deve essere volontaria (e non frutto di coazione), non è richiesto, invece, che sia spontanea, e ciò sia per quanto riguarda il risarcimento del danno, sia ri­spetto alla eliminazione delle conseguenze dannose o pe­ricolose: questo perché, a differenza di quanto previsto dall’art.62 comma i n. 6 seconda parte c.p., non è stata impiegata alcuna espressione (come ad esempio l’avver­bio «spontaneamente») dalla quale si possa ricavare che la libera scelta deve essere stata determinata anche da motivi interiori non egoistici e di convenienza, ma espressione di un ravvedimento.

            Più complessa è la questione del quantum del risarcimento.

                La norma, par­lando di riparazione del danno e di eliminazione delle conseguenze, sembra richiedere sempre l’integralità.

            D’altro canto, esistono fondate ragioni per giungere a una conclusione per certi aspetti diversa.

            Infatti, intanto il requisito della necessaria integralità del risarci­mento suscita notevoli perplessità in ordine alla sua le­gittimità costituzionale: dando rilievo alle capacità eco­nomiche dell’imputato, esso finisce per compiere una di­scriminazione tra abbienti e non abbienti con ingiusto privilegio per i primi.

           Vero questo, ciò che suscita perplessità non é tanto il requisito della integralità di per sé considerato, il quale risponde oltretutto alla ratio og­gettiva dell’istituto ed esplica anche una funzione afflit­tivo-preventiva, quanto piuttosto l’impossibilità, deri­vante dalla particolare formulazione della norma, di non poter apprezzare o lo sforzo di riparazione compiuto dal soggetto nullatenente oppure la riparazione parziale realizzata dal soggetto meno abbiente; da ciò consegue che, laddove l’integralità della riparazione non sia soggettivamente possibile, potrebbe essere ritenuta sufficiente la riparazione parziale o, nei casi di assoluta indigenza, l’essersi adoperati per risar­cire o eliminare le conseguenze dannose o pericolose del reato.

           Da qui consegue un ulteriore interrogativo: l’integralità del risarcimento va rapportata ad una commisurazione oggettiva del danno, rimessa in ultima analisi alla stima del giudice che procede, ovvero alla valutazione e alla richiesta che ne fa la parte offesa?

           Abbracciare il primo orientamento pone non pochi problemi di ordine procedurale, in quanto non si comprende esattamente – e la pronuncia in commento denuncia tutta la difficoltà di enucleare un corretto modus operandi - come il giudicante debba procedere alla quantificazione esatta del danno, sulla base di quali allegazioni probatorie, in quale fase del processo (preliminarmente ovvero in sede di dibattimento), con quali poteri istruttori integrativi.

           Ed ancora: una volta effettuata la stima del danno e, in ipotesi, ritenuto che il risarcimento “parziale” (rispetto alle pretese della persona offesa) non è stato comunque idoneo ad produrre la sua riparazione, può allora il giudice (onorario od ordinario che sia) procedere alla celebrazione del processo e alla istruttoria dibattimentale senza che si sia in qualche modo verificata una situazione di incompatibilità a seguito di una precedente attività valutativa e cognitiva degli atti di causa?

          I problemi evidenziati non sussistono invece seguendo l’indirizzo opposto, ritenendo cioè che la piena aderenza del risarcimento alla quantificazione espressa dalla vittima sia un presupposto essenziale affinché il risarcimento medesimo assuma i caratteri della “riparazione” del danno.

          Tuttavia, non può sfuggire all’interprete che un orientamento del genere rischia di svuotare di significato la disposizione, e ciò per un duplice ordine di ragioni.

          In primo luogo, è evidente che, nella quasi totalità dei casi di reati a querela, un risarcimento totale del danno reclamato conduce ad una remissione della querela medesima: dunque, se l’istituto introdotto dall’art.35 ha una ragion d’essere in quanto causa di estinzione del reato, questa deve essere necessariamente diversa da quella che consegue alla remissione della querela: si intende dire, in altri termini, che il suo stare nell’ordinamento non può essere giustificato da quelle sporadiche ipotesi in cui la querela non viene ritirata nonostante la tacitazione di ogni pretesa civilistica.

          Ma al di là di considerazioni di ordine evidentemente funzionale, sembra di poter dire che la stesso tenore della disposizione suggerisce un diverso approccio interpretativo.

          Il comma 2 deIl’art. 35 prescrive infatti che il giudice di pace pronuncia la sentenza di estinzione del reato solo se ritiene le attività risarcitorie e riparatorie idonee a soddisfare le esigenze di riprovazio­ne del reato e quelle di prevenzione.

          Stando alla lettera della legge, questa previsione ri­sulta diretta ad aumentare la componente afflittiva e preventiva dell’istituto: rimettendo infatti al giudice il potere di sindacare se le condotte riparatorie siano effet­tivamente in grado di estinguere il reato, lascia intende­re che tali condotte, anche quando compensino integralmente il danno, possono ri­sultare insufficienti sul piano della colpevolezza e della prevenzione generale e speciale.

         Sembra allora di poter affermare che il risarcimento in funzione riparatoria non possa essere assimilato tout court alla mera soddisfazione della richiesta proveniente ex parte offesa, costituendo piuttosto un comportamento dell’imputato, successivo alla commissione del reato, suscettibile di valutazione da parte del giudice che ne stima gli effetti sia sul piano dell’eliminazione del danno conseguente alla condotta criminosa, sia sotto il diverso profilo delle necessità di stampo prettamente punitivo e preventivo.

         Così definiti i termini della questione, e certamente non risolti i dubbi che ciascuna delle tesi illustrate porta con sé, si osserva che l’ordinanza, sfruttando arditamente le pieghe della normativa, adotta una linea “attendista”, scegliendo di concedere un termine al duplice fine di verificare un’eventuale raggiunta integralità del risarcimento (rispetto alle richieste provenienti dalla parte offesa) ovvero di raccogliere ulteriori elementi atti a consentire una più adeguata stima delle caratteristiche della condotta riparatoria già posta in essere, con particolare riguardo ai requisiti della personalità e della congruità rispetto al danno cagionato.          

Eugenio Albamonte - Sostituto Procuratore presso il Tribunale di Grosseto - (marzo 2002)

(riproduzione riservata)  

Dello stesso autore:

E. Albamonte/P. Molino: Il nuovo processo penale davanti al giudice di pace, Ed. Il Sole 24 Ore.

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