Tribunale di Torre Annunziata, Sezione distaccata di Gragnano, in composizione monocratica, Ordinanza 9 luglio 2003
R.G.
TRIB. n°614/GR/2001
R.G.N.R.
n° 13208/2000
TRIBUNALE
DI TORRE ANNUNZIATA
SEZIONE DISTACCATA DI GRAGNANO
UFFICIO DEL GIUDICE MONOCRATICO
Il Giudice monocratico di Tribunale, dott. Nicola Russo,
sciogliendo la riserva A. all’udienza del 9/7/2003 nel procedimento penale a carico di V. M. + 3, in atti generalizzati, ha emesso la seguente
ORDINANZA
FATTO
Gli imputati V. M. (28/6/1935), V. A., V. A., V. M. sono stati tratti a giudizio, in forza di decreto emesso dal Pubblico Ministero in data 12 settembre 2001, per rispondere dei reati di cui agli artt. 110, 582 e 612 commessi in danno di V. M. (3/7/1935), più compiutamente descritti nei capi d’imputazione.
Vi è stata costituzione di parte civile della persona offesa dai reati.
Il procedimento era stato rinviato all’odierna udienza per l’esame delle persone la cui citazione era stata disposta dal giudice in forza di ordinanza emessa ai sensi dell’art. 507 c.p.p..
Introdotto il giudizio per la sua trattazione, la Difesa degli imputati ha chiesto di sospendersi il procedimento ai sensi di quanto previsto dall’art. 5 comma 2 della Legge 12 giugno 2003 n° 134.
Il Pubblico Ministero non si è opposto alla richiesta e la Parte civile si è rimessa alle valutazioni del giudice.
DIRITTO
La sospensione del procedimento invocata dalla Difesa degli imputati è stata, come anticipato in premessa, introdotta dall’art. 5 della legge 12 giugno 2003 n. 134 che, nella parte d’interesse, stabilisce:
comma I
“L'imputato, o il suo difensore munito di procura speciale, e il pubblico ministero, nella prima udienza utile successiva alla data di entrata in vigore della presente legge, in cui sia prevista la loro partecipazione, possono formulare la richiesta di cui all'articolo 444 del codice di procedura penale, come modificato dalla presente legge, anche nei processi penali in corso di dibattimento nei quali, alla data di entrata in vigore della presente legge, risulti decorso il termine previsto dall'articolo 446, comma 1, del codice di procedura penale, e ciò anche quando sia già stata presentata tale richiesta, ma vi sia stato il dissenso da parte del pubblico ministero o la richiesta sia stata rigettata da parte del giudice, e sempre che la nuova richiesta non costituisca mera riproposizione della precedente.”
comma II
“Su richiesta dell'imputato il dibattimento è sospeso per un periodo non inferiore a quarantacinque giorni per valutare l'opportunità della richiesta e durante tale periodo sono sospesi i termini di prescrizione e di custodia cautelare.”
profili di ammissibilità della richiesta di sospensione
Appare prodromico, alla delibazione imposta dal comma 2 dell’art. 23 della L. 11/3/53 n°87, la risoluzione della questione attinente all’ammissibilità della richiesta come formulata.
Innanzitutto va osservato che l’istanza di sospensione è stata tempestivamente proposta, in quanto formulata nella prima udienza utile successiva all’entrata in vigore della L. n°134/2003 (vigente dal 29/6/2003).
In secondo luogo, deve considerarsi sussistente la legittimazione alla sua formulazione da parte del difensore, pur non munito di procura speciale.
Invero l’attribuzione della facoltà di proposizione della richiesta di sospensione all’imputato non può essere intesa nel senso di escludere analoga legittimazione al suo difensore.
In tal senso militano una serie di argomentazioni. Innanzitutto l’art. 99 del codice di rito penale stabilisce al primo comma che “al difensore competono le facoltà e i diritti che la legge riconosce all’imputato, a meno che essi siano riservati personalmente a quest’ultimo”.
Questo principio generale - che attribuisce al difensore un generalizzato potere di rappresentanza del suo assistito - consente, in primo luogo, di ritenere che la previsione dell’art. 5, comma II, della L. n°134/2002 vada interpretata nel senso di ritenere che l’attribuzione della legittimazione all’imputato non sia significativa di una esclusione per il difensore dall’esercizio di analoga facoltà.
In senso contrario non appare conferente l’osservazione (pur affacciatasi negli articoli dei primi commentatori ed in alcuna delle prime pronunce giurisprudenziali) secondo cui la natura di norma transitoria dell’art. 5 e l’eccezionalità dei principi da esso introdotti richiederebbero un’interpretazione restrittiva della sua previsione. Stando a quest’opinione, infatti, la soluzione in parola sarebbe sostenuta sia dall’osservazione che mentre il primo comma di questo articolo fa riferimento all’imputato ed al difensore munito di procura speciale, il secondo comma menziona il solo imputato, sia dalla considerazione che dalla proposizione della richiesta di sospensione deriva l’effetto della cristallizzazione medio tempore dei termini di prescrizione e di custodia cautelare (la cui incidenza sulla posizione dell’imputato esigerebbe una sua diretta manifestazione di volontà) sia, infine, dall’assunto secondo cui la previsione dell’art. 99 c.p.p. varrebbe per le sole disposizioni, originariamente o successivamente, inserite nel tessuto del codice di rito.
Tutte queste argomentazioni appaiono confutabili. Innanzitutto proprio l’estensione al difensore munito di procura speciale del diritto di richiedere un’applicazione di pena per il suo assistito (con gli irretrattabili effetti che dall’esecuzione della sanzione discendono sull’imputato) renderebbe, di contro, illogica una limitazione al solo imputato della facoltà di chiedere la sospensione del procedimento per valutare semplicemente l’opportunità di accedere alla richiesta di definizione alternativa del giudizio.
Invero, proprio l’attività processuale che, a ben vedere, maggiormente inciderebbe sullo status dell’assistito, sarebbe esercitabile anche attraverso un procuratore a differenza di quella che, rispetto alla prima, costituisce solamente un prodromo, peraltro, eventuale.
In secondo luogo, la “cristallizzazione” temporanea dei termini di prescrizione e di custodia cautelare durante il tempo in cui il procedimento rimane sospeso non costituisce un novum del procedimento penale, ma al contrario è operante in altre situazioni in cui tale effetto è ricollegato alla sola scelta del difensore.
Si pensi ai casi in cui l’udienza di un procedimento penale non venga tenuta per legittimo impedimento del difensore (determinato da un suo concomitante impegno professionale o dalla partecipazione del patrocinatore all’astensione dalle udienze promossa dalla classe forense).
In tutti questi casi è incontestata l’incidenza della scelta del Difensore sullo status del suo assistito, essendo prevista la sospensione dei termini di prescrizione e, se del caso, anche di quelli di custodia cautelare.
Né un tale risultato comporta un pregiudizio insuperabile per l’imputato, dal momento che questi, ai sensi dell’art. 99 c.p.p., può togliere effetto, con una manifestazione di volontà di segno contrario, all’atto compiuto dal difensore prima che sia intervenuto un provvedimento del giudice.
Infine, non appare assolutamente condivisibile l’assunto secondo cui l’art. 99 farebbe riferimento alle sole norme del codice di procedura penale, dal momento che testualmente la disposizione fa richiamo alla “legge” e non alle sole disposizione codicistiche.
Va, peraltro, osservato che nell’ambito stesso del codice di procedura penale, allorquando il Legislatore ha inteso fare riferimento in via esclusiva all’imputato ha sempre utilizzato l’avverbio “personalmente” per evidenziare, anche sul piano letterale, la restrizione all’esercizio di facoltà (cfr. artt. 46 comma II, 419 comma V, 438 comma III, 446 comma III e 571 c.p.p.).
Nel caso che ci occupa, infine, appare decisiva la circostanza fattuale della presenza degli imputati in udienza che, alla richiesta del loro difensore, non hanno manifestato una volontà di segno contrario.
Va, pertanto, ritenuta ammissibile la richiesta formulata dal difensore degli imputati ancorché non munito di procura speciale.
profili di illegittimità costituzionale della norma di cui all’art. 5 della legge n°134/2003
indicazione delle norme costituzionali violate
Ad opinione di questo giudicante la disposizione prima riportata dell’art. 5, commi I e II, della L. n° 134/2003 si pone in contrasto con gli artt. 3, 24 e 111 comma II, periodo finale, della Costituzione nella parte in cui, tra i procedimenti in corso alla data della sua entrata in vigore, per i quali prevede la possibilità di formulare o rinnovare la richiesta di cui all’art. 444 c.p.p. nonostante sia decorso il relativo termine previsto dal codice di rito, non ricomprende anche i giudizi instaurati ai sensi dell’art. 550 c.p.p..
rilevanza della questione e sua proposizione ex officio
La presente questione di legittimità costituzionale viene proposta d’ufficio ai sensi del comma III dell’art. 23 della L. n°87/1953, non essendo la stessa stata oggetto di censura avanzata dalla Difesa.
Innanzitutto la questione appare rilevante, dal momento che la richiesta di sospensione del procedimento costituisce una facoltà preliminare alla successiva ed eventuale formulazione dell’istanza di patteggiamento e, pertanto, una declaratoria d’inammissibilità della richiesta – che intervenisse oggi e che fosse fondata sull’inapplicabilità della previsione dell’art. 5 comma I anche ai procedimenti in corso instaurati nelle forme di cui all’art. 550 c.p.p. – impedirebbe agli imputati di fruire di un termine necessario per compiere la valutazione sull’opportunità di richiedere il patteggiamento e, dunque, comporterebbe per gli stessi la preclusione ad accedere, ancora in questa fase del giudizio, ad una definizione del processo a loro carico in cui potrebbero beneficiare di una sensibile riduzione del trattamento sanzionatorio.
I commi primo e secondo (quest’ultimo per il suddetto legame con la prima disposizione, ora evidenziato in sede di esame della rilevanza della questione) dell’art. 5 della L n° 134/2003 appaiono contrastare innanzitutto con l’art. 3 della Costituzione nella parte in cui ingiustificatamente escluderebbero dalla riapertura dei termini per la proposizione del patteggiamento i giudizi incardinati in forme diverse da quelli richiamati nell’art. 446, comma I, del codice di procedura penale.
Come già riportato, il comma I dell’art. 5 della L. n°134/2003 stabilisce che è possibile “...formulare la richiesta di cui all'articolo 444 del codice di procedura penale, come modificato dalla presente legge, anche nei processi penali in corso di dibattimento nei quali, alla data di entrata in vigore della presente legge, risulti decorso il termine previsto dall'articolo 446, comma 1, del codice di procedura penale”.
Orbene, la disposizione da ultimo menzionata indica i termini decadenziali per la proposizione dell’istanza di applicazione della pena ai sensi dell’art. 444 c.p.p. esclusivamente con riferimento ai procedimenti per i quali sia prevista l’udienza preliminare, per quelli incardinati con giudizio direttissimo e per quelli introdotti nelle forme del giudizio immediato. Nulla dispone con riferimento al termine per la richiesta di patteggiamento nei giudizi a citazione diretta.
Per questi ultimi, infatti, la previsione è contenuta nell’art. 555 comma II c.p.p., che prevede la possibilità di avanzare la richiesta di giudizio abbreviato o di patteggiamento fino a quando non sia intervenuta la dichiarazione di apertura del dibattimento.
Richiamando quanto sopra osservato circa l’eccezionalità della previsione dell’art. 5 comma I L. n°134/2003 che, “riaprendo” il termine per la proposizione della richiesta di patteggiamento, va interpretata restrittivamente (dal momento che introduce una deroga ad una previsione tassativa della legge ai sensi dell’art. 173 comma I c.p.p.), appare evidente che la rimessione in termini non può analogicamente applicarsi anche ai procedimenti pendenti introdotti da citazione diretta a giudizio per i quali già risulti, come nella specie, già dichiarata l’apertura del dibattimento.
Se, dunque, l’ostacolo normativo non appare superabile in via interpretativa, resta da chiedersi se il riferimento del Legislatore ai soli casi richiamati dall’art. 446 comma I c.p.p. sia frutto di una scelta specifica e se essa appaia ragionevole alla stregua di quelle espresse in casi simili.
Non ignora questo rimettente che la giurisprudenza del Giudice delle leggi ha ormai accolto una nozione del principio di ragionevolezza (sulla quale viene chiamato ad esprimere un giudizio) che è disancorato da quello di uguaglianza di cui all’art. 3 della Costituzione.
Infatti nella relazione annuale del 2001 del Presidente della Corte si è evidenziato che “la giurisprudenza della Corte, in passato, era orientata nel senso di ricondurre il principio di ragionevolezza all'interno della previsione dell'art. 3 della Costituzione che afferma – come noto – il principio di uguaglianza; di modo che la norma irragionevole era costituzionalmente illegittima in quanto apportatrice di irragionevoli discriminazioni. Come conseguenza di siffatta impostazione era necessario, per accertare l'irragionevolezza della norma, che fosse individuato il c.d. tertium comparationis.
Una volta affrancato il principio di ragionevolezza sia dal principio di uguaglianza, sia dalla ricerca del tertium comparationis, la Corte ne ha poi potuto affermare la violazione anche in assenza di una sostanziale disparità di trattamento tra fattispecie omogenee, allorché la norma presenti una intrinseca incoerenza, contraddittorietà od illogicità rispetto al contesto normativo preesistente (sentenza n. 450) o rispetto alla complessiva finalità perseguita dal legislatore (sentenza n. 416).”
Il più recente approdo, di questo Supremo Giudice, è stato, però, nel senso di offrire un chiarimento alla portata di questo tipo di valutazione, evidenziando quali siano comunque i limiti della stessa. Invero nella relazione del 2002 del Presidente si è posto in risalto come “applicando il criterio della ragionevolezza, il giudice delle leggi non può contrastare con una propria diversa valutazione la scelta discrezionale del legislatore: il controllo di costituzionalità dovendosi arrestare alla verifica che, rispetto al fine, il mezzo prescelto non sia palesemente incongruo (sentenza n. 190); ovvero limitarsi alla verifica del «corretto uso del potere normativo» (sentenza nn. 169 e 180), là dove si evidenzia una carenza di causa o ragione della disciplina censurata, che, come tale, implica quindi un vizio della legge, appalesandosi come espressione di un uso distorto della discrezionalità legislativa, siccome fondato sulla irragionevole differenziazione ovvero, a seconda dei casi, sulla irragionevole omologazione delle situazioni poste a raffronto (sentenza n. 171).
Alla luce del principio di eguaglianza, la dichiarazione di illegittimità serve dunque a ripristinare la parità violata ovvero ad eliminare quei trattamenti deteriori rispetto ad altri, che determinano discriminazioni, assolutamente prive di ragionevole giustificazione, nei confronti di alcune categorie di soggetti.”
Dunque, alla stregua di quanto affermato dalla Corte Costituzionale la limitazione operata dal Legislatore con l’art. 5 comma I ai soli procedimenti pendenti di cui alle categorie richiamate dall’art. 446 comma I c.p.p. (laddove non la si voglia invece considerare frutto di un‘ennesima dimenticanza) appare affetta da irragionevolezza sia perché intrinsecamente contraddittoria, sia perché immotivatamente distonica rispetto a previsioni normative pregresse intervenute con analoga finalità deflattiva, sia infine perché introduttiva di evidenti e non giustificate disparità di trattamento tra posizioni omogenee.
Innanzitutto se si vuole ritenere- come pure il dato letterale della disposizione sembrerebbe prima facie suggerire attraverso il richiamo alla “richiesta di cui all’articolo 444 del codice di procedura penale, come modificato dalla presente legge,” – che il Legislatore abbia inteso consentire la riapertura dei termini di proposizione della richiesta di patteggiamento ai soli procedimenti per i quali originariamente questo tipo di definizione non era ipotizzabile (in virtù dell’originario tetto di due anni di perna detentiva fissato dall’art. 444 c.p.p.), detta opzione ermeneutica appare contraddetta dall’ulteriore inciso del comma I dell’art. 5 L. n°134/2003, che esplicitamente allarga la previsione anche ai casi in cui “...sia stata già presentata tale richiesta, ma vi sia stato il dissenso da parte del pubblico ministero o la richiesta sia stata rigettata da parte del giudice e sempre che la nuova richiesta non costituisca mera riproposizione della precedente”.
Appare, infatti, evidente che il richiamo del Legislatore è operato anche a quei procedimenti per i quali era ab initio ipotizzabile una definizione del procedimento nelle forme di cui all’art. 444 c.p.p. e che non siano stati definiti in questa forma per una delle ragioni sopra citate. Al riguardo va, peraltro, evidenziato che non è possibile ipotizzare che il dissenso del Pubblico Ministero od il rigetto del Giudice siano intervenuti su richieste avanzate, nel primo caso, dall’imputato e, nel secondo, concordate dalle parti, per l’applicazione di una pena che superasse i due anni di pena detentiva. In tal evenienza (peraltro difficilmente ipotizzabile) il provvedimento richiesto dal P.M. o pronunciato dal Giudice sarebbe stato quello di una declaratoria d’inammissibilità (e non un dissenso o la pronuncia di rigetto).
Inoltre non è nemmeno sostenibile che il Legislatore abbia introdotto quest’inciso solo per far richiamo ai casi in cui la formazione del consenso da parte del Pubblico Ministero o la pronuncia della sentenza di cui all’art. 445 c.p.p. da parte del Giudice non siano intervenuti sol perché la pena richiesta dall’imputato, limitata ai due anni di detenzione, non sia stata ritenuta stricto sensu congrua.
Invero, il dissenso del Pubblico Ministero od il rigetto del Giudice in un’ipotesi del genere avrebbero ben potuto appuntarsi, ad esempio, sulla richiesta subordinazione della istanza di definizione alla concessione del beneficio della sospensione condizionale della pena. In tal caso nessun ostacolo normativo si opporrebbe all’applicazione anche ad un’ipotesi di tal fatta (laddove, ad esempio, questa richiesta venga rimossa nella nuova formulazione dell’istanza) della riapertura del termine per la proposizione della richiesta di applicazione della pena.
Se, dunque, non può dubitarsi della riferibilità della previsione dell’art. 5 comma I della L. n°134/2003 anche ai procedimenti aventi ad oggetto reati che avrebbero potuto essere definiti con richiesta di patteggiamento anche alla stregua dell’originaria previsione dell’art. 444 c.p.p. (o per i quali la richiesta, pur avanzata, non è stata accolta) appare illogica la scelta di restringere detta facoltà solo ad alcune categorie di procedimenti.
A sostenerla non concorre nemmeno la considerazione in ordine alla maggiore pericolosità sociale dei reati oggetto delle categorie di procedimenti richiamati dall’art. 446 comma I c.p.p..
Invero, questa spiegazione non varrebbe a giustificare l’esclusione dalla previsione della norma censurata per reati quali, ad esempio, quelli previsti dagli artt. 624 e 625 c.p., 648 c.p. e 349 capoverso del codice penale, tutti richiamati dall’art. 550 c.p.p. e puniti con sanzioni particolarmente elevate.
Non giustifica, infine, questa differenza di trattamento nemmeno la considerazione del tempo trascorso dal momento in cui è scaduto il termine riconosciuto all’imputato per l’esercizio della sua facoltà di richiedere il patteggiamento.
Se, invero, questa distinzione potrebbe con qualche significatività richiamarsi con riferimento ai termini stabiliti per i procedimenti provenienti da udienza preliminare e quelli da giudizio immediato, lo stesso non potrebbe sostenersi per quelli fissati all’esito della convalida nel giudizio direttissimo nei quali, pure, il termine decadenziale è quello dell’apertura del dibattimento.
Né, sempre con riferimento a questi ultimi, potrebbe osservarsi che, in tal caso, detta fase viene ad instaurarsi immediatamente o, al più, dopo cinque o dieci giorni (a seconda della competenza monocratica o collegiale) dalla contestazione del fatto, restringendosi così i tempi entro i quali l’imputato può valutare di richiedere il patteggiamento. Di contro, nell’ipotesi di procedimenti a citazione diretta, l’imputato potrebbe fruire del più ampio termine di 60 giorni (cui si andrebbe ad aggiungere quello cagionato dai rinvii del dibattimento in fase preliminare) per poter compire questa scelta.
Analogamente potrebbe opinarsi, però, pure nei casi (non infrequenti) di procedimenti che vedano protrarsi in più sedute l’udienza preliminare e nei quali solo in fase di conclusioni l’imputato manifesti la volontà di richiedere l’applicazione della pena ai sensi dell’art. 444 c.p.p..
Orbene, accanto a ragioni che fanno apparire non giustificata la disparità di trattamento cagionata dalla ristretta previsione dell’art. 5 comma I della L. n°134/2003 si pongono ulteriori censure di illegittimità costituzionale della norma sotto il profilo della sua irragionevolezza, ora intesa come “illogicità rispetto al contesto normativo preesistente o rispetto alla complessiva finalità perseguita dal legislatore.”
Sotto tale profilo può farsi riferimento ad altri due precedenti interventi normativi con cui il Legislatore, nel porre la disciplina transitoria per l’entrata in vigore di modifiche processuali, ha colto l’occasione per realizzare anche una funzione deflattiva delle pendenze giudiziarie.
Un primo evidente esempio è quello rappresentato dall’art. 224 del D.Lgs. 19/2/1998 n° 51. Questa disposizione, senza porre alcuna distinzione in base alle varie tipologie di procedimento, aveva previsto la riapertura dei termini per la proposizione della richiesta di cui all’art. 444 c.p.p. purché la stessa venisse formulata nella prima udienza successiva alla data di efficacia del decreto.
Analogamente l’art. 223 del medesimo testo normativo aveva consentito di formulare la richiesta di rito abbreviato per tutte le tipologie di procedimenti a condizione che non fosse iniziata l’istruzione dibattimentale.
Il secondo esempio è offerto dalla previsione dell’art. 4ter del D.L. 7/4/2000 n° 82 convertito con modifiche nella L. 5/6/2000 n°144.
Questa disposizione prevedeva la possibilità per l’imputato di richiedere la definizione del procedimento nelle forme del rito abbreviato modificato dal D. Lgs. n°479/99 per tutti i procedimenti per i quali, pur essendo scaduto il termine per la proposizione della richiesta, non fosse intervenuto l’inizio dell’istruzione dibattimentale.
Anche questa disposizione transitoria si applicava senza alcun dubbio anche ai procedimenti con citazione diretta a giudizio.
D’altra parte anche per questo tipo di procedimenti la previsione di una riapertura dei termini per la proposizione della richiesta di giudizio abbreviato era effetto necessariamente discendente da un’apposita previsione normativa, dal momento che in mancanza di essa per i procedimenti già pendenti sarebbe stata applicabile, per il principio tempus regit actum, soltanto la regola processuale fissata dal previgente art. 556 del codice di procedura penale, a mente del quale la richiesta di rito abbreviato (come pure quella di patteggiamento) andava formulata entro il termine di quindici giorni dal ricevimento della notificazione del decreto di citazione a giudizio.
Come appare evidente, il pregresso orientamento del Legislatore nell’introdurre discipline transitorie a disposizioni che intervenissero a modificare anche la disciplina dei riti alternativi è stato sempre nel senso di non inserire diversificazioni sul piano del “tipo” di procedimento, bensì soltanto distinzioni giustificate in ragione della fase del procedimento (come peraltro è nello spirito di ogni normativa di tipo transitorio).
La diversa “scelta” operata dal Legislatore con l’art. 5 comma I della L. n°134/2003 si pone, invece, immotivatamente in contrasto con i richiamati precedenti senza avere a fondamento alcuna giustificazione che faccia da sostegno a questo diverso indirizzo.
Del resto la norma censurata, nell’interpretazione resa doverosa dalla sua lettera, si pone in contrasto con le stesse finalità deflattive che (parallelamente a quelle transitorie) mira a realizzare, lasciando fuori dalla sua previsione gran parte dei procedimenti pendenti per i quali (più che per quelli richiamati dall’art. 446 comma I c.p.p.) sarebbe prevedibile un ripensamento dell’imputato a favore di una definizione anticipata del procedimento a suo carico.
Accanto alla argomentata violazione dell’art. 3 della Costituzione, ad opinione di questo rimettente, l’art. 5 comma I si pone in contrasto con l’art. 24 della Costituzione dal momento che limita illegittimamente l’estensione del diritto di difesa, assicurato, dalla norma ora citata, in ogni stato e grado del procedimento.
Invero, è evidente che in presenza di un intervento legislativo che consente di recuperare alle scelte difensive quei meccanismi di definizione del giudizio in una forma alternativa al dibattimento e che assicurano all’imputato un trattamento sanzionatorio più mite (sopratutto quando l’istruttoria dibattimentale già svolta fa apparire più probabile l’irrogazione della pena) risulterebbe un sicuro vulnus all’esercizio della propria difesa l’esclusione dalla possibilità di accesso al patteggiamento in questa fase, sopratutto alla luce dell’assoluta mancanza di ragioni a sostegno di essa.
Peraltro l’opposto indirizzo giurisprudenziale (che pur si registra in questi giorni) tendente a restringere l’ambito di applicazione della disciplina transitoria ai soli casi consentiti dalla lettera della norma di cui all’art. 5 comma I della L. n°134/2001 finirebbe per far ricadere proprio sugli autori di reati cd. minori gli effetti di una (sia pur poco condivisibile) legislazione premiale della quale, invece, senza alcun dubbio potranno fruire coloro che sono stati tratti a giudizio per rispondere di ben più preoccupanti delitti.
Infine, l’art. 5 sembra porsi in contrasto con l’art. 111 comma II, ultima parte, della Costituzione che stabilisce il principio di ragionevole durata del processo.
Invero proprio la Corte Costituzionale ha, di recente ribadito (sentenza 19- 23/5/2003 n° 169) che, rispetto al dibattimento, la definizione del processo con riti alternativi consente comunque un sensibile risparmio di tempo e di risorse (sentenza n. 115 del 2001), in coerenza con il principio enunciato dall’art. 111, secondo comma, ultimo periodo, Cost..
Detta affermazione (sia pur resa con riferimento specifico alla possibilità riproposizione innanzi al giudice del dibattimento di una richiesta di giudizio abbreviato subordinata ad integrazione probatoria che sia stata rigettata dal giudice dell’udienza preliminare) appare comunque espressione del principio che fa da fondamento alla previsione della richiamata norma costituzionale alla cui stregua va valorizzato qualsiasi (legittimo) meccanismo di riduzione della durata dei processi.
Per tutte le esposte ragioni la questione di legittimità costituzionale dell’art. 5 commi I e II della Legge 12 giugno 2003 n° 134, pubblicata sulla G.U. del 14 giugno 2003 n° 136 appare non manifestamente infondata.
P.Q.M.
Vista la legge Cost. 9 febbraio 1948, n. 1 e l'art. 23 della Legge 11 marzo 1953 n. 87;
ritenuta rilevante ai fini del presente giudizio e non manifestamente infondata e la questione di legittimità costituzionale dell’art. 5, commi 1 e 2, della legge 12 giugno 2003, n. 134 per contrasto con gli artt. 3, 24 e 111, comma II ultimo periodo, della Costituzione nei limiti e nei termini di cui in motivazione;
sospende il giudizio in corso;
ordina l’immediata trasmissione degli atti alla Corte Costituzionale;
letto l’art. 159 c.p. dichiara sospeso il termine di prescrizione dei reati;
dispone che la presente ordinanza sia notificata, a cura della Cancelleria, alle Parti in causa ed al Pubblico Ministero nonché al Presidente del Consiglio dei Ministri e comunicata ai Presidenti delle due Camere del Parlamento.
Così deciso in Gragnano, il 09/07/2003
IL GIUDICE
dott. Nicola Russo