Corte di Appello di Napoli, Sezione I Penale, Sentenza 10 ottobre 2002

R E P U B B L I C A   I T A L I A N A

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

L’anno 2002, il giorno 10 del mese di ottobre

La Corte di Appello di Napoli  sez I, composta  dai Signori

1.  Dott. Ferdinando Russo                    Presidente

2.  Dott. Filippo Ingala                           Consigliere

3.  Dott. Claudio D’Isa                           Consigliere relatore

Con l’intervento del Pubblico Ministero in persona del  Sostituto

Procuratore Generale dott. Giancarlo Costagliola

Con l’assistenza del Segretario dott.ssa  Tommasa Sottile

ha pronunciato la seguente

S E N T E N Z A

nella causa penale a carico di

      P. G., n. a Napoli il 20.03.1935

      libero – presente

a seguito di appello, proposto nei suoi confronti dalle costituite p.c.  e dal Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Napoli,  avverso la sentenza emessa in data 21.06.2001 dal Tribunale di Napoli,  in composizione monocratica, con la quale è stato assolto con la formula “perché il fatto non sussiste” dal:

reato p. e p. dagli artt. 81 cpv., 595 co. 1 e 3 c.p., perché, in esecuzione di un medesimo disegno criminoso, offendeva la reputazione di M. T. P. e A. D. S. mediante i dipinti intitolati rispettivamente “La vedova nera” e “Il Papa nero più stronzetto nero” – entrambi esposti nella mostra tenutasi nelle scuderie del Palazzo Reale di Napoli a partire dal 24.05.1999 e riprodotti nel catalogo, sulle magliette e su altri gadgets – nonché mediante il libricino “Racconto di racconti dipinti” scritti da R. C..

In Napoli nel maggio del 1999 – querela del 14 luglio 1999.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Il procedimento trae origine dalle articolate querele presentate dai proff. M. T. P. e A. D. S., docenti dell’Accademia delle Belle Arti di Napoli, che si dolevano del carattere diffamatorio dei dipinti “La vedova allegra” e “Il Papa nero più stronzetto nero”, realizzati da P. G. ed esposti, unitamente ad altri dieci facenti parti del ciclo “La storia del lupo”, anch’essi raffiguranti altri docenti dell’Accademia, nelle scuderie del Palazzo Reale di Napoli nel maggio del 1999 nonché di alcuni passi del libretto “Racconto di racconti dipinti” di R. C., distribuito ai visitatori della mostra.

Il giudice monocratico, dopo aver descritto ed esaminato, in diritto, gli elementi materiali che integrano il reato contestato, con particolare riferimento alle modalità di espressione della diffamazione che può consistere, non solo nel linguaggio parlato, ma anche in segni i quali, attraverso la comunicazione, possono diventare strumento idoneo ad infrangere la norma, e al presupposto fondamentale della  determinatezza della persona offesa, individuabile, indipendentemente dal nominativo,  “in termini di affidabile certezza” dalla stessa prospettazione oggettiva del linguaggio usato”, ha riportato il risultato delle acquisizioni probatorie.

La P. M. T. ha riferito di essersi ritenuta offesa dal quadro perché era stata rappresentata “in maniera grottesca ed insultante”. In particolare quanto alla riferibilità del soggetto del quadro alla sua persona precisava:

- Il titolo del quadro alludeva ad una sua relazione privata con un noto artista morto da una decina di anni;

- L’introduzione alla mostra, riportata nel libretto distribuito gratuitamente,  era di per sé significativo; essa recitava: << L’aquila si era trasformata in lupo cattivo per punire la strega cattiva, che aveva impedito un certo matrimonio tra gatti e il gatto nipote di Benedetto Croce…per distruggere la strega cattiva con i suoi vermi>>; ella si era riconosciuta nella strega cattiva perché era amica di casa Croce oltre che del P. ed effettivamente aveva deciso con quest’ultimo di fare accoppiare la sua gatta con il gatto di Silvia Croce;     

- La donna del quadro era stata dipinta con i capelli rossi ed arricciati proprio come li portava lei in quel periodo, aveva in mano un guinzaglio, e si spiegava nel libricino di C., che “di solito ci tiene un gatto” e la P. ha precisato  che era un suo vezzo condurre con se il proprio gatto.

- La giornalista E. C., in un articolo del Corriere del Mezzogiorno aveva ricondotto i soggetti dei quadri alla sua persona e a quella di altri docenti dell’Accademia.

Il prof. A. D. S., sentito in dibattimento, riferiva di essersi riconosciuto nel quadro per una somiglianza abbastanza obbiettiva e per le dichiarazioni contenute nel libretto di C.. Circa la ragione dell’appellativo di <<Papa nero>>, cioè di una persona che esercita il potere sottobanco, il D. S. spiegava che il P. forse l’aveva attribuito ai suoi interventi presso i proff. B. e G. in favore dello scultore A. P. e del pittore R. L., per far loro ottenere un posto di assistente in Accademia, o al fatto che egli avesse contribuito, con una riunione a casa sua dei docenti dell’Accademia per convincerli a non rieleggere il P. a direttore dell’Accademia.

Sono stati escussi anche le altre persone (D. R., S., C., D. F. etcc), tutti docenti dell’Accademia, che si sono riconosciuti nei dipinti del P.. Alcuni di questi hanno dichiarato di avere agito nei confronti del P. in sede civile.

Altri testi, quali L. V. G., il prof. B., il giornalista M. V. in maniera, quasi univoca, hanno dichiarato di aver individuato, almeno quelli ad essi noti, i personaggi raffigurati nei quadri del ciclo “La storia del lupo”.

In particolare il prof. B. aveva definito i quadri come “ digressioni polemiche, tanto acremente e contingentemente personalistiche”. V’erano, cioè, delle pesanti allusioni a fatti personali e circostanze che permettevano di individuare bene i singoli soggetti delle dodici tavole. Aveva, infatti, riconosciuto la P. e il D. S..

Dopo l’esposizione del risultato probatorio, il primo giudice afferma che la asserita riconoscibilità da parte dei querelanti dei soggetti raffigurati nei quadri si è fondata:

a)      sulla somiglianza dei tratti fisici;

b)      sull’uso di titoli allusivi a situazioni ed eventi individualizzanti nonché la loro rappresentazione attraverso simboli e segni dal chiaro significato;

c)      sulle osservazioni sulla mostra e sui quadri pubblicate in un articolo della C. e le dichiarazioni provenienti dallo stesso P. contenute nel richiamato libretto di C..

Ciò premesso, in motivazione si evidenzia la complessità della operazione di riconoscibilità attraverso il linguaggio pittorico, che non si esaurisce nella mera rappresentazione della realtà.

Si argomenta che la rappresentazione grafica deve possedere un grado di obiettività tale da consentire al lettore dell’opera, riguardato sotto il profilo dell’uomo medio, di identificare l’oggetto, qualora egli avesse modo di vederlo nella sua realtà fenomenica.

Il giudice monocratico, onde verificare in concreto se effettivamente i soggetti dei quadri in contestazione raffigurano i querelanti, si sofferma preliminarmente nel descrivere lo stile pittorico del P., così come desunto dalle dichiarazioni di alcuni testi, esperti nella materia, e, prendendo atto che il linguaggio pittorico del P. è definito espressionistico, surreale, ed i suoi soggetti sono “metamorfosati” , giunge alla conclusione che il suo stile è antinaturalistico, vale a dire non somigliante al dato reale.

Il primo giudice, quindi, supera le osservazioni dei testi che hanno ritenuto somiglianti ai querelanti i soggetti dei quadri di cui alla rubrica, considerando: << Nel quadro “la vedova allegra”…non appare agevole neppure riconoscere la figura ivi riprodotta come femminile….Particolari come le scarpe (di modello femminile) urtano con la presenza di vistosi segni scuri sul labbro superiore, assimilabili a baffi. Nel quadro “il Papa nero più stronzetto nero” le figure sono rappresentate con segni grafici marcati ma sintetici, senza indulgere ad alcun particolare tratto personale riconducibile al prof. D. S. e al di lui figlio, anch’egli docente in passato dell’Accademia>>.

Secondo il Tribunale neppure i titoli dei quadri e alcuni simboli, siccome ritenuti riferibili a fatti privati specifici, valgono ad integrare il requisito della riconoscibilità, si tratta di simbologie astrattamente riferibili ad una pluralità indeterminata di soggetti e situazioni; si afferma che la circostanza che tali segni siano stati ricondotti alle persone dei querelanti è da ascriversi piuttosto ad associazioni ed interazioni logiche, frutto di personali e dirette conoscenze. Si evidenzia che non è un caso che i testi siano docenti dell’Accademia o anche amici delle pp.cc. o, comunque, persone che frequentavano i luoghi della cultura cittadina e l’Accademia e che, quindi, ben conoscevano i protagonisti. In buona sostanza si pone in rilievo il carattere puramente soggettivo del riconoscimento e non oggettivo.

In ordine, poi, alla parte della contestazione riguardante le diciture riportate nel libretto “Racconto di racconti dipinti” che potrebbero far svanire le incertezze della individuazione pittorica, il giudice monocratico argomenta che  in considerazione delle precisazioni dello stesso P. i personaggi dei suoi quadri <<provengono dal mondo reale, appartengono al vissuto dell’autore, ma sono rappresentati con intensità di segno e colore sì da assumere un aspetto irreale, piegato all’esigenza del pittore di

esprimere le sensazioni di cui le persone reali possono essere state lo spunto e che però sono raffigurate come archetipi umani in forme astratte ed irriconoscibili dal fruitore dell’opera stessa. La forma rappresentata è, cioè, altro da sé, diventa il pretesto per comunicare un sentimento, un giudizio, una sensazione>>.

Quindi, nemmeno le precisazioni del P., contenute nel richiamato libretto, secondo il primo giudice, sono idonee, quali interpretazioni autentiche, ad individualizzare oggettivamente i soggetti dei quadri, in quanto <<una rappresentazione astratta, surreale e, quindi, irriconoscibile, resta tale anche se, aliunde, al di fuori del contesto strettamente figurativo, sia resa individuabile>>.

Comunque, si evidenzia in sentenza, che le dichiarazioni del P. non contengono mai i nomi della P. e del D. S..

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Il Procuratore della Repubblica, con il suo appello, censura proprio quest’ultima parte della motivazione ponendo in rilievo che il primo giudice ha tenuto disgiunti il duplice messaggio attuato attraverso la “figura” (i quadri) e la “parola” (il libretto di accompagnamento alla mostra), di tal che egli non è pervenuto alla decodificazione del linguaggio espressivo dell’artista e, quindi, alla comprensione  del  contenuto diffamatorio della comunicazione.

Ulteriore critica alla sentenza mossa dalla Pubblica Accusa riguarda la conclusione cui perviene il Tribunale di “non riconoscibilità” obiettiva delle persone offese nelle immagini raffigurate nei quadri che contrasta in maniera evidente con le risultanze dell’istruttoria dibattimentale.

Di analogo tenore, sia pure rappresentate in maniera più diffusa e dettagliata, sono le critiche articolate dalla Difesa delle parti civili, che si sofferma:

1)      sulla necessità di valutare il messaggio offensivo in maniera “globale” tenendo conto di tutti gli strumenti utilizzati dall’autore, figurativi e non;

2)      sulla macroscopica contraddizione di fondo della motivazione della sentenza, in ordine alla riconoscibilità delle persone offese, tra i principi generali ai quali si richiama e la valutazione degli elementi di fatto ancorché riportati in sentenza.

All’odierna udienza, presente l’appellato, all’esito della relazione del consigliere a latere, le parti hanno concluso come da verbale.

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MOTIVI DELLA DECISIONE

La sentenza va riformata.

La sentenza, pregevole,  stilisticamente inappuntabile, sebbene affronti, con cura e competenza gli argomenti in diritto che il caso, certamente singolare, sottoposto all’esame della Corte impone, nonché esponga tutte le risultanze fattuali, perfettamente rispondenti al dato probatorio (desunto essenzialmente dalle dichiarazioni testimoniali), pecca di coerenza motivazionale per l’analisi frammentaria degli elementi acquisiti, avendo tenuto disgiunte le varie prospettazioni della condotta, contestata nel capo d’imputazione,  così come evidenziato nei motivi dagli appellanti.

La Corte ben si è resa conto del rischio che si può incorrere nel sottoporre ad esame un’opera d’arte (ed in tale novero devono essere inseriti i dipinti indicati in contestazione, per la indiscussa fama di pittore di cui gode il P.), considerata quale strumento di consumazione del delitto di diffamazione, essendo essa espressione del diritto di libera manifestazione del pensiero, garantito dagli articoli 21 e 33 della Carta Costituzionale, ed, in quanto tale, nella convinzione di molti, protetta da una sorta di esimente per il messaggio in essa contenuto eventualmente lesivo di altri diritti, quale quello all’onore, anch’esso, però, costituzionalmente protetto (artt. 2 e 3).

Ma ciò che preme rilevare è che oggetto dell’accusa non è il dipinto in sé, la cui valenza artistica è indiscussa e tale rimarrà nel tempo indipendentemente dall’occasione che ha spinto l’autore a realizzarlo, ma il comportamento dell’autore stesso che, strumentalizzando la propria creatività, ha inteso, volutamente, denigrare la reputazione di altri.

Quante opere artistiche pittoriche, riconosciute unanimemente tali, nel passato hanno preso di mira “potenti” dileggiandoli, anche acremente, ma apprezzate per il solo valore artistico, apparendo del tutto marginale, oggi, il sentimento denigratorio che ispirò l’artista.

La Corte si guarda bene dal “criticare” i dipinti, oggetto della contestazione; la critica, intesa come << il complesso delle operazioni e delle indagini eminentemente conoscitive e valutative che conducono, sul fondamento di particolari concezioni estetiche e con diverse metodologie, a riconoscere, chiarire e descrivere i caratteri dell’opera d’arte (Salvatore Battaglia “Grande dizionario della lingua italiana”)>> spetta ad altri apportarla e certamente non nella sede giudiziaria.

Pertanto, è certo che anche l’opera d’arte pittorica, sebbene tale, può essere strumento di denigrazione della reputazione altrui.

Ciò premesso, ribadita la necessità che il soggetto, raffigurato nell’opera, perché si possa ritenere diffamato, sia riconoscibile, si concorda con il giudice monocratico secondo cui il requisito della riconoscibilità di quanto viene raffigurato in un dipinto  va rapportato  necessariamente alla tipologia ed alla peculiarità del mezzo espressivo in concreto usato.

E’ del tutto evidente che, quando la tecnica pittorica è quella “naturalistica” che riporta fedelmente l’immagine reale, l’identificazione dell’oggetto non presenta alcuna difficoltà. In tal caso, affinché l’opera possa acquistare un carattere diffamatorio del  soggetto rappresentato basta che questi sia “conosciuto”, cioè venga identificato immediatamente da chi guarda il quadro per la sua notorietà; anche la riconoscibilità obiettiva, però, è un concetto relativo: sarà assoluta se il soggetto raffigurato è “universalmente” conosciuto, ma l’assolutezza degrada man mano che degrada la notorietà del soggetto.

Quando la tecnica pittorica, invece, come quella utilizzata dal P. ( e sul punto concordano i testi escussi esperti in materia e  si rimanda alla sentenza che – a pagg. 14, 15 e 16 -, con una analisi “professionale” identifica lo stile pittorico dell’imputato) trasfigura fantasiosamente o rende surreali i soggetti rappresentati, l’opera di identificazione diventa più ardua: è necessario operare una interpretazione dei segni, del contesto, delle didascalie e di quant’altro utile che emerga dalla rappresentazione pittorica.

Nel  caso sottoposto al nostro esame, non essendo “universalmente” noti i personaggi raffigurati, la Corte, circa la riconoscibilità di essi, deve basarsi sulle dichiarazioni testimoniali.

Ebbene, tutti i testimoni, incluse le p.l. appellanti, hanno affermato che l’identificazione dei personaggi, raffigurati nei quadri intitolati “La vedova allegra” ed “Il Papa nero + stronzetto nero”, rispettivamente nelle persone di M. T. P. ed A. D. S., non poteva sostenersi in termini di certezza.

Sintomatica appare, sul punto, la deposizione di M. V., laddove, alla specifica domanda del giudice se avesse riconosciuto in maniera certa P. M. T., sua amica da anni, nella donna raffigurata nel dipinto “La vedova allegra”, ha affermato testualmente :”……potrebbe essere, mi pare che ci somigli ……”.

Analoghe dichiarazioni di incertezza sul requisito della riconoscibilità sono state rese dalle altre persone, D. R. C.,  S. A., G. C., F. G. riconosciutesi negli altri  quadri - La Larva, Lo Schifoso, L’idiota che mangia il gelato, All’Avanguardia disgraziata -, facenti parte del ciclo la “Storia del lupo”.

Invero, sebbene gli stessi titoli, o le fattezze somatiche, quantunque trasfigurate,  o alcuni altri particolari potevano condurre, attraverso associazioni ed interazioni logiche, alle persone dei querelanti e degli altri docenti, ritiene la Corte che essi non sono idonei ad integrare il requisito della riconoscibilità,  trattandosi, ed in ciò si concorda con il primo giudice, di simbologie astrattamente riferibili ad una pluralità indeterminata di soggetti e situazioni.

Dunque, i quadri da soli, e, quindi, anche le loro riproduzioni sugli altri “gadgets”  richiamati nel capo d’imputazione, non sono uno strumento di diffamazione, non tanto per il contenuto di per sé obiettivamente denigratorio (è un dato certo che i personaggi sono stati raffigurati in maniera grottesca e con titoli allusivi a dati negativi della  personalità), quanto per la mancanza del requisito della riconoscibilità.

Ma questa è stata, comunque, possibile effettuarla, “in termini di affidabile certezza”, contrariamente a quanto sostenuto dal Tribunale, grazie alle esplicazioni riferite nel corso di un’intervista concessa dal P. G. al giornalista R. C. e da questi riportata nel richiamato opuscolo.

Le frasi virgolettate nel libretto fanno specifico riferimento alle parole del P., pertanto, circa la loro paternità non v’è alcun dubbio, non risultando che vi sia stata alcuna smentita da parte dell’appellato e non potendosi, secondo un criterio di ragionevolezza, ritenere la sua non consapevolezza della distribuzione dell’opuscolo de quo, essendo fatto notorio che i depliant e ogni altro scritto di presentazione di una mostra di quadri sono concordati con l’artista, che, di certo, non ne viene a conoscenza il giorno stesso della inaugurazione.

La virgolettatura, per altro, spiega la ratio dell’archiviazione del procedimento penale intentato anche a carico del C., quale autore del libretto, nei cui confronti si è proceduto a parte.

E’ proprio con le spiegazioni, contenute nel libretto, di quanto raffigurato nei dipinti che si giunge, sebbene non vengano volutamente mai fatti i nomi della P. e del D. S., ad una chiara riconoscibilità di costoro.

Il D. R. - alcuni passi della sua deposizione sono stati riportati in sentenza - ha testualmente affermato che: ”…le dichiarazioni successive alla mostra avevano suffragato certi riferimenti alle persone”, ed ancora: “….all’immagine c’era stato un seguito dovuto alle dichiarazioni, anche abbastanza esplicite, fatte dal P., per cui i riferimenti venivano quasi come conseguenza……..”

Troppo frettolosamente in sentenza si è liquidata la portata interpretativa del libretto, forse, per non correre quel rischio cui si è fatto riferimento all’inizio di questa parte della motivazione, il giudice di primo grado, dovendo qualificare i dipinti come volgari veicoli di denigrazione della reputazione altrui, ha avuto il timore di metterne in discussione la valenza artistica.

Quando il P. riferisce (pag. 40 del libretto) al C. che “alla Vedova – che in effetti non è vedova, ritiene di esserlo di un pittore morto, ma ha marito per i fatti suoi – ho messo in mano un guinzaglio inutile, visto che non c’è attaccato alcun gatto. Di solito ci tiene un gatto. Avendo preferito l’ambiguità, ai miei occhi deve star sola, perfino senza gatto”,  ha  disvelato apertamente il significato dei segni pittorici e del titolo del dipinto “La Vedova allegra” rendendo riconoscibile il personaggio. Nell’ambiente dell’Accademia (come riferito dalla stessa p.l. e da altri testimoni) era notorio il legame extraconiugale della P. con un pittore, poi deceduto, e del suo vezzo di condurre a guinzaglio un gatto, con tali precisazioni il P. spiega il perché del titolo del quadro ed il perché della collocazione di quattro candele accese (simboleggianti la vedovanza) e della raffigurazione del personaggio femminile con un guinzaglio in mano senza alcun animale. Ed, a questo punto, quasi come in un circolo vizioso, alcune fattezze somatiche (capelli ricci e rossi) della donna raffigurata nel quadro,   comuni anche ad altre donne, alla luce dei chiarimenti del libretto, richiamano la figura della P. M.; costei ha affermato che in quel periodo portava i capelli ricci e rossi.

Altrettanto può evidenziarsi per quanto riguarda il quadro “Il Papa Nero + stronzetto Nero”,  P. ha riferito nell’intervista : “Papa nero e Stronzetto nero sono padre e figlio, due rappresentanti delle famiglie che dicevo. Il padre insegnava quando io ero allievo, al tempo del direttore G. B.; ci diceva d’avere all’Accademia la stessa funzione che aveva il capo dei Gesuiti nella Chiesa….se Lui era Papa Nero, allora il figlio di quelli che parlano di cellula e di partito, è uno Stronzetto dello stesso colore”.

Non è stato difficile per chi conosce l’ambiente dell’Accademia identificare con le coordinate indicate dal P. nel “Papa Nero”, raffigurato nel quadro, il D. S. A. e nello “Stronzetto” il figlio, anch’egli professore all’Accademia per un certo periodo, che per la sua attività sindacale (criticata e disprezzata dal P. stigmatizzata nel quadro con le parole “la cellula del cazzo”) all’interno di essa era ben conosciuto.

Del tutto incongrua è la motivazione della sentenza quando, pur dando atto che i personaggi dei quadri possano essere ricondotti alle persone dei querelanti, afferma che essi, comunque, non sono oggettivamente riconoscibili in quanto tale operazione era facilitata solo a chi conosceva “l’ambiente dell’Accademia” (V. sentenza a pag. 18), cioè a quella sparuta minoranza di <<persone che frequentavano “i luoghi della cultura” cittadina (la giornalista C.) e l’Accademia (la pittrice V. G.) e che, quindi, ben conoscevano i protagonisti>>, in definitiva il carattere esclusivamente soggettivo del riconoscimento, operato da tali persone, per il giudice monocratico escludeva la portata diffusiva della diffamazione, dimenticando, però, che per la sussistenza del delitto basta che il messaggio diffamatorio giunga a due persone.

In definitiva il binomio “dipinto-libretto”, unicum inscindibile, rappresenta lo strumento attraverso cui è stata diffamata la reputazione dei querelanti.

Ciò posto, è necessario, ora, verificare la effettiva  valenza diffamatoria di quanto rappresentato dal suddetto binomio, argomento non trattato dal giudice monocratico avendo egli assolto l’imputato con la formula “il fatto non sussiste” per la mancanza del requisito della  riconoscibilità.

I personaggi dei dipinti trasfigurati in maniera grottesca con l’esaltazione caricaturale di alcuni caratteri fisici  di per sé hanno una forza espressiva oggettivamente denigratoria, tant’è che lo stesso P., con la  richiamata intervista, nell’illustrare i quadri del ciclo “La storia del lupo”,  ha definito i personaggi raffigurati come “repellenti”, cioè, attribuisce al loro aspetto fisico la ripugnanza, caratteristica negativa di chiara portata offensiva.

E’ indubbio, poi,  che, nel sottolineare una relazione extraconiugale della P. M. T. ed attribuendole l’appellativo di Vedova allegra, ha voluto denigrarne la  reputazione definendola, in buona sostanza, donna di facili costumi.

Quanto alla diffamazione della reputazione del D. S., rimane  concretizzata dall’avere il P. rimarcato il ruolo di chi esercita il potere nascostamente, dall’aver fatto riferimento ad un presunto atto di nepotismo in favore del figlio, definito “stronzetto”, cioè materia di scarto che nulla vale,   e di conseguenza generato dalla stessa materia di cui è fatto il padre.

Per quanto riguarda l’elemento psicologico del delitto in esame, è sufficiente il dolo generico e, cioè, la consapevolezza di ledere l’onore o la reputazione di un altro soggetto.

Per il caso che ci occupa, attesa la intrinseca connotazione diffamatoria del binomio “dipinto e  libretto” (quest’ultimo quale solo strumento di riconoscibilità), che non è potuta sfuggire all’imputato, nessuna particolare indagine sulla ricorrenza o meno dell’elemento soggettivo del reato si presenterebbe necessaria, ma vi è, però, di più.

Il teste Massimiliano Vairo ha riferito che, incontrato il P. in tipografia ove stava curando la stampa della “brochure” di presentazione della mostra e, presa visione delle fotografie dei quadri in essa riportati, gli manifestò il suo disappunto per quelli relativi al ciclo “La storia del Lupo” evidenziandogli che  in essi si potevano riconoscere alcuni personaggi noti nell’ambiente dell’Accademia, e gli consigliò da amico di non esporli, o comunque, di  fare una dichiarazione preventiva in cui dire che chi volesse riconoscersi in questi personaggi raffigurati si sbaglierebbe.

Nel riferire che il P. declinò il suo consiglio, il Vairo ha ulteriormente affermato: “…Il carattere di P. è noto, è un artista fiero, grintoso, sprezzante, evidentemente non ritenne, perché li considerava – forse a ragione - …dei pezzi di pittura di una certa validità, al di là di quelle connessioni o riconoscimenti che si potrebbero vedere e non vedere…”

Dunque, l’imputato pur essendo a conoscenza della portata diffamatoria dei quadri e della possibile riconoscibilità dei personaggi raffigurati li espose, e, per fugare ogni dubbio o equivoco sulla loro identificazione, si prestò a concedere quell’intervista chiarificatrice.

Nel corso dell’arringa difensiva si è posto in risalto il ruolo svolto dal P. nella direzione dell’Accademia, del  suo impegno a farle riacquistare quella dignità culturale persa nel tempo quale centro di cultura della città e della Regione e delle sue battaglie nei confronti dei falsi artisti, dei raccomandati, del sindacalismo da strapazzo e così via. Lo stesso imputato, nel corso delle sue dichiarazioni in dibattimento,  ha rivendicato questa sua funzione anche di fustigatore di invetarerate abitudini, che nulla hanno a che vedere con l’arte, di favoritismi, di beghe, invidie ed altro.

Tutto ciò, in maniera  per altro malcelata, è stato addotto per invocare, ammessa e concessa la capacità offensiva del contenuto dei quadri, un diritto di critica, di denuncia.

Se così fosse, il diritto di critica, di denuncia o meglio di cronaca, che integra l’esimente di cui all’art. 51 c.p., deve essere esercitato con il rigoroso rispetto di quei limiti che rappresentano ad un tempo il contenuto e l’ambito di esercizio del diritto stesso. Tali limiti sono costituiti: a) dalla verità del fatto: b) dalla pertinenza, ossia dall’oggettivo interesse che i fatti rivestono nell’opinione pubblica: c) dalla correttezza con cui gli stessi vengono riferiti, essendo estraneo all’interesse sociale che giustifica la discriminante di cui all’art. 51 c.p. ogni inutile eccesso ed ogni aggressione dell’interesse morale della persona.

Dunque, è necessario un interesse sociale sotteso all’operazione di critica che si svolge per contribuire, in questo caso, alla crescita culturale della società.

Orbene, tornando alla vicenda che ci occupa, il P. nell’intervista chiarisce il motivo che lo ha indotto a dipingere i noti personaggi dei quadri del ciclo “La storia del lupo”: << Questa storia è nata con la mia defenestrazione dall’Accademia. Il Lavoro mi aveva fatto dimenticare tante cose che tornano alla memoria all’improvviso, tutte insieme, nel momento della rabbia. Una volta, durante una riunione di professori, avevo sentito uno di questi che diceva “bisogna riunire la cellula”.La cellula di che ? avevo pensato, l’Accademia non è una sezione di partito, non è nemmeno un posto di lavoro, è un luogo di sogni, di poesia e né i sogni né la poesia hanno qualcosa a che fare con le cellule….Per un tempo immemorabile..l’abitudine accademica fu quella di fare entrare nei ruoli degli insegnanti figli o nipoti di professori e non artisti di valore…Mi ricordai dei servilismi, delle gelosie, delle trame. E mi venne una gran voglia di liberarmi del peso, fin lì sopportato, di un ambiente meschino>>.

Pur volendo ritenere che tutto quanto denunciato rivesta un interesse sociale non si riesce, però, a capire come  tale messaggio possa emergere dai  quadri in questione. Ciò che rimane è la denigrazione di due persone, e sussiste il fondato sospetto che il P. si sia voluto vendicare di esse (e degli altri dieci personaggi dei quadri) per non averlo appoggiato nella elezione alla carica di direttore dell’Accademia. Operazione certamente non moralmente edificante.

Il Procuratore Generale di udienza, nel chiedere la conferma della sentenza, ha prospettato l’esercizio da parte del P. di un diritto di “satira”, l’artista, evidenziando grottescamente le debolezze dei personaggi raffigurati nei suoi quadri,  avrebbe  voluto ironizzare sui loro comportamenti.

Orbene, non tralasciando di considerare che lo stesso P. ha affermato che “ la caricatura, l’aggressione scherzevole o la satira sono completamente estranee alla mia aspirazione, alla mia sensibilità…..”, per poter invocare il diritto di satira, equiparabile all’esimente dell’esercizio del diritto di cronaca o di critica, è necessario che la persona messa alla berlina sia pubblica, è la notorietà, infatti, che giustifica la metafora caricaturale che mira all’ironia ed al sarcasmo. Come tale essa non è soggetta agli schemi razionali della verifica critica, purché attraverso la metafora, pure paradossale, sia comunque riconoscibile, se non un fatto o comportamento storico, l’opinione almeno presunta della persona pubblica, secondo le sue convinzioni altrimenti espresse, che per sé devono essere di interesse sociale.

Dal tenore delle dichiarazioni rese dall’imputato in dibattimento (Come si può immaginare di censurare la fantasia di una persona, di un pittore?…rivendico l’incoercibile diritto di dare immagine alle idee e alle emozioni, così come si sono formate in momenti della mia storia interiore artistica…………Vi chiedo, perciò di lasciare stare i miei quadri.) emerge, invece, la consapevole arroganza di non poter essere “toccato” per avere egli utilizzato uno strumento, “la manifestazione artistica”, che è al di sopra di tutto e di tutti; egli si sentiva al riparo da qualsiasi azione esterna, chiunque sarebbe stato tacciato di oscurantismo se avesse osato mettere in discussione un’opera d’arte. In maniera subdola ha lasciato nel dubbio la riconoscibilità dei personaggi, si è premurato, però, di permetterne l’identificazione con l’intervista, così facendo egli ha condizionato il visitatore della mostra, il fruitore dell’arte, condizionandolo gli ha impedito di giungere ad una libera interpretazione dei quadri, tradendo, in tal modo, quello che egli stesso ha affermato circa la libertà di leggere ed interpretare soggettivamente nell’opera d’arte i sentimenti, le sensazioni, i sogni, gli incubi, le emozioni dell’artista.

Di certo non si può affermare che quell’aquila, uccello nobile,  in cui il P. si era identificato (V. pag. 39 del libretto di C.) sia volata in alto.

A prescindere, comunque, dalle considerazioni svolte in ordine alla insussistenza  dell’esimente basata sul diritto di cronaca, critica o satira, ritiene la Corte che questa non entra in gioco non ravvisandosi l’aggravante del mezzo della stampa, come contestata.

La Corte ben sa che per la nozione di stampa occorre rifarsi all’art. 1 della L. 8 febbraio 1948 n. 47, per il quale <<sono considerate stampe o stampati tutte le riproduzioni tipografiche e comunque ottenute con mezzi meccanici o fisico-chimici, in qualsiasi modo destinate alla pubblicazione>>, siano esse periodiche o meno, autorizzate o clandestine, e che, pertanto, anche il libretto di C. rientra nel novero di tale nozione, epperò, nel caso trattato, il libretto, disgiunto dai quadri, non ha di per sé valenza diffamatoria, è destinato, unicamente, a consentire l’identificazione dei personaggi dei quadri stessi e, di conseguenza, inidoneo a diffondere da solo un messaggio denigratorio della reputazione dei querelanti.

Dunque, il P. G. va dichiarato responsabile del delitto ascrittogli e, considerati tutti i criteri imposti dall’art. 133 c.p. nella quantificazione della pena, si reputa equo condannarlo alla sola pena pecuniaria che va determinata in € 750,00 di multa.

Sussistono le condizioni per concedere i benefici di legge.

Va accolta la domanda delle costituite parti civili alla condanna dell’appellato al risarcimento in loro favore dei danni civili.

Quanto alla loro liquidazione vi si può provvedere in questa sede tenuto conto che nel reato di diffamazione il danno cagionato alla persona offesa, non essendo patrimoniale e non avendo funzione reintegrativa, non può essere quantificato se non con una valutazione equitativa, rispettando l’esigenza di una ragionevole correlazione tra gravità del danno ed ammontare dell’indennizzo; ed in tale reato la gravità non può che essere rapportata all’entità del discredito causato dalla diffamazione (V. Cass. Aez. V, sentenza 25 febbraio – 8 aprile 1999 n. 4399 – Pres. Badia).

E’ indubbio che il discredito ricevuto dalla P. e dal D. S., anche considerando che la vicenda venne richiamata dagli organi di stampa locali, è stato circoscritto all’ambiente dell’Accademia e della cultura cittadina ed in considerazione di tale correlazione tra gravità del fatto ed ammontare dell’indennizzo, si reputa equo determinarlo in € 12.500,00 per ognuna delle parti lese.

Segue la condanna al pagamento delle spese processuali del doppio grado di giudizio nonché di quelle sostenute dalle parti civili che si liquidano come da dispositivo.

P.Q.M.

Visto l’art. 605 c.p.p., in riforma della sentenza emessa dal Tribunale di Napoli in data 21 giugno 2001, in composizione monocratico, appellata dal Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Napoli, e dalle costituite parti civili P. M. T. e D. S. A. nei confronti di P. G., dichiara il medesimo responsabile del reato di cui all’art. 595, 1° comma c.p., così modificata la rubrica, e lo condanna alla pena di € 750,00 di multa.

Condanna l’imputato al risarcimento dei danni civili in favore delle costituite p.c. che liquida in € 12.500,00 per ognuna di esse.

Condanna, altresì, l’imputato al pagamento delle spese processuali del doppio grado e di quelle sostenute dalle costituite parti civili che si liquidano in complessivi € 50,00, oltre agli onorari di avvocato che si liquidano in € 5.000,00, più IVA e CPA, come per legge, per entrambi i gradi.

Assegna il termine di giorni 60 per il deposito della sentenza.

Napoli 10 ottobre 2002.

Il Consigliere estensore                         Il Presidente

f.to   Dott. Claudio D’Isa              f.to dott. Ferdinando Russo

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