Tribunale di Chiavari, in composizione monocratica, Sentenza 13 novembre 2002 - 3 febbraio 2003
Delitti contro la persona - omicidio colposo - decesso per malattia professionale - omessa predisposizione di cautele - nesso di causalità - difetto di prova - insussistenza
Non rispondono del delitto ex art. 589 c.p. - in relazione al decesso per "mesotelioma pleurico" verificatosi a carico di un lavoratore subordinato - i direttori, succedutisi nel tempo alla guida dello stabilimento industriale presso il quale il predetto lavoratore svolgeva la propria prestazione, i quali pure abbiano omesso di predisporre adeguate cautele per eliminare o contenere il rischio di inalazione di polveri d'amianto, allorché difetti prova certa che tale comportamento omissivo si ponga come "condizione contingentemente necessaria" dell'insorgenza della predetta patologia e del conseguente evento morte. (Nel caso di specie il giudicante, sul presupposto che la malattia de qua rientri nel novero dei c.d. "tumori non dosodipendenti" - destinati, cioè, ad insorgere in relazione all'inalazione di una "dose killer" di polveri di amianto, irrilevante essendo la perdurante successiva esposizione alle stesse - ha preso atto che l'impossibilità di far coincidere - sulla base di un giudizio "di alta probabilità logica" o di "elevata credibilità razionale" - il momento dell'insorgenza della patologia con quello in cui almeno uno degli imputati avesse posto in essere la condotta omissiva oggetto di contestazione imponeva l'assoluzione dei medesimi, per carenza di prova circa la ricorrenza del nesso di causalità tra condotta ed evento).
TRIBUNALE
DI CHIAVARI
SENTENZA A
SEGUITO DI DIBATTIMENTO
(Art. 567 C. P. P.)
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REPUBBLICA ITALIANA
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IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale
di CHIAVARI in composizione monocratica
nella persona del dott Stefano Giaime GUIZZI
ha pronunciato la seguente
S E N T E N Z A
nel procedimento
penale
NEI CONFRONTI DI
- O. P. - nato a XXX il XXXX e residente in XXX Via XXX, XXX.
- D. N. M. - nato a XXX il XXX e residente in XXX, XXX - XXX.
- F. R. - nato a XXX il XXX e residente in XXX C.so XXX, XXX
LIBERI CONTUMACI
I M P U T A
T I
In ordine al reato p. e p. dall'art. 589 c.p. perché, in qualità
di direttori dello stabilimento di XXX della XXX - già XXX - l'O. dal
1.1.72 al 31.12.76, il D. N. dal 1.1.77 al 30.9.81, il F. dal 1.10.81 al 31.10.82,
per colpa costituita da negligenza, imprudenza ed imperizia e da violazione
degli art. 19 e 21 del D.P.R. 19.03.56 n. 303, cagionavano la morte di G. G.;
ed invero, benché il G., quale dipendente presso lo stabilimento de quo
per complessivi 37 anni dal 1942 al 30.11.1981 con le mansioni di aggiustatore,
svolgesse la sua attività lavorativa in ambiente con elevante concentrazione
di polvere di amianto, omettevano di adottare provvedimenti atti ad impedire
la formazione delle polveri medesime ovvero a ridurne lo sviluppo e la diffusione
nell'ambiente di lavoro - quali sistemi di aspirazione e raccolta polveri, umidificazione
delle polveri stesse, e così via - ed, inoltre, non facevano eseguire
in luoghi separati le lavorazioni pericolose o insalubri (coibentazione, montaggio,
saldatura) al fine di non esporvi senza necessità i lavoratori addetti
ad altre lavorazioni, talché il G., in conseguenza di ciò, contraeva
l'asbestosi ed il mesotelioma pleurico, malattia che lo conduceva alla morte
in data 19.05.1996 in XXX.
SVOLGIMENTO DEL
PROCESSO
Con decreto
ritualmente notificato - ed emesso anteriormente all'avvento della L. 479/1999,
e dunque ai sensi del previgente testo dell'art. 555 c.p.p. - P. O.,
M. D. N. e R. F. venivano citati a comparire innanzi a questo
Giudice Unico per rispondere del reato di cui in rubrica.
Si svolgevano, all'udienza del 31/5/00, gli adempimenti ex art. 484 c.p.p.,
all'esito dei quali questo giudicante - constatata la mancata comparizione degli
imputati, e dichiaratane la contumacia dopo aver sentito le parti sul punto
- prendeva atto anche dell'avvenuta costituzione quali parti civili degli eredi
di G. G. - S. B., G. G., F. G. e F.
G. - e della loro richiesta di essere autorizzati a citare il "responsabile
civile per il fatto dell'imputato", richiesta in ordine alla quale questo
giudicante provvedeva a norma dell'art. 83 co. 3 c.p.p.
Sempre nel corso della fase degli "atti introduttivi" - ed a norma
dell'art. 491 co. 1 c.p.p. - i difensori degli imputati sollevavano una questione
preliminare tendente a conseguire la restituzione degli atti al Pubblico Ministero,
per aver questi "esercitato l'azione penale con citazione diretta per il
reato p.p. dall'art. 589 per il quale è prevista l'udienza preliminare",
secondo quanto stabilito dalla (sopravvenuta) riforma operata dalla (già
menzionata) L. n. 479 del 16/12/1999.
Rigettata da questo Giudice Unico, con ordinanza pronunciata in udienza, l'eccezione
de qua (palesatasi, vieppiù, priva di fondamento alla luce dei principi
successivamente enunciati sul punto - cfr. Cass. Sez. VI : 4313/00; Cass. Sez.
IV : 6970/01; Cass. 2464/01 - dalla giurisprudenza di legittimità, ed
a mente dei quali deve ritenersi "abnorme il provvedimento con il quale,
sopravvenuta la legge 16 dicembre 1999, n. 479, il giudice del dibattimento
dispone la restituzione degli atti al pubblico ministero rilevando la mancata
celebrazione dell'udienza preliminare, atteso che, in assenza di una disciplina
transitoria, la disciplina dell'esercizio dell'azione penale come riformulata
da detta legge non è applicabile ai decreti di citazione emessi prima
della sua entrata in vigore, con conseguente validità ed efficacia della
citazione diretta effettuata in un momento in cui la necessità dell'udienza
non era ancora stata prevista dalla legge processuale"), si faceva luogo
alla dichiarazione di apertura del dibattimento ed alla decisione sulle istanze
istruttorie delle parti.
Veniva, quindi celebrata l'istruttoria dibattimentale, che si sostanziava nell'escussione
dei testi C. B., S. B., A. D., R. O., P. G. e G. A., tutti indicati, fuorché
l'ultimo (esaminato su richiesta della difesa degli imputati), dal Pubblico
Ministero.
Si procedeva, inoltre, all'esame - ex art. 501 c.p.p. - dei consulenti tecnici
indicati dalle parti, Dr. Silvana MAZZONE (incaricata dalla pubblica accusa),
Prof. Marcello CANALE e Prof. Danilo COTTICA (designati dalla difesa degli imputati).
Veniva, altresì, disposto - ex art. 508 c.p.p. - il licenziamento di
perizia medico-legale, espletata dal Dr. Giovanni CANNAVÒ, all'esito
della cui escussione veniva disposta la lettura della relazione scritta dallo
stesso redatta (secondo la regola enunciata dall'art. 511 co. 3 c.p.p.).
Chiusa l'istruttoria all'udienza del 13/11/02, le parti concludevano come da
corrispondente verbale.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Ritiene questo
Giudice Unico che le risultanze dell'istruttoria dibattimentale impongano l'adozione
di sentenza assolutoria, da pronunciare - ancorché ai sensi della regola
di giudizio ex art. 530 cpv. c.p.p. - secondo la formula "perché
il fatto non sussiste".
Si consideri, infatti, che le emergenze istruttorie - e segnatamente quelle
suggerite dalle indagini medico-legali espletate nel corso del giudizio (oltre
che dalla più accreditata letteratura scientifica sul punto), relative
sia alla natura (mesotelioma pleurico) della malattia all'origine del decesso
di G. G. che alle sue caratteristiche (tumore c.d. non "dosodipendente"
e con prolungato periodo di "latenza") - conducono alla conclusione
processuale costituita dall'impossibilità di stabilire con certezza l'esistenza
di un nesso di derivazione eziologica tra il contegno contestato ai tre imputati
e la morte del G..
L'impossibilità, infatti, di far risalire il momento dell'insorgenza
della patologia, rivelatasi in seguito letale per quel dipendente della società
"XXX", all'epoca in cui (almeno) uno dei tre imputati rivestiva responsabilità
dirigenziali all'interno di tale società - unitamente alla constatazione
che, una volta inalata la c.d. "dose killer" (cioè a dire idonea
ad innescare quel processo patogeno destinato a manifestarsi, solo dopo alcuni
decenni, con tutto il suo corredo sintomatologico), la perdurante esposizione
alle polveri di amianto risulta priva di efficienza (anche solo "concausale")
nello sviluppo del mesotelioma pleurico - impedisce di ravvisare l'esistenza
di un nesso di causalità tra l'evento naturalistico proprio del reato
ex art. 589 c.p. ed il contegno "omissivo" contestato all'O., al D.
N. ed al F..
Siffatte considerazioni - che impongono a questo giudicante la pronuncia di
sentenza assolutoria secondo la formula "perché il fatto non sussiste"
(atteso che la ricorrenza del nesso di causalità costituisce elemento
da apprezzare sotto il profilo della "tipicità" del reato),
esonerandolo invece dalla necessità di compiere la successiva verifica
circa il carattere colposo del comportamento addebitato agli odierni imputati
(per avere costoro omesso di adottare provvedimenti atti ad impedire la formazione
delle polveri di amianto, ovvero a ridurne lo sviluppo e la diffusione, nell'ambiente
in cui il G. svolgeva la propria prestazione lavorativa) - denotano quale
sia la questione, per così pregiudiziale, demandata all'accertamento
di questo giudicante all'esito del presente dibattimento.
Si tratta, infatti, di stabilire - dapprima - se la patologia subita dal G.
(e culminata nel c.d. exitus) trovi origine nell'esposizione del medesimo alla
polveri di amianto, nonché - di seguito - se l'insorgenza (o la successiva
evoluzione) della malattia possa essere addebitata proprio alla inerzia osservata
dagli odierni imputati nell'approntare soluzioni tecniche idonee a garantire
una maggiore salubrità dell'ambiente lavorativo in cui il summenzionato
dipendente della società "XXX" espletava la propria attività
(con mansioni di "aggiustatore").
Solo ove questi interrogativi ricevano una risposta affermativa si pone, evidentemente,
la necessità di accertare se siano (anche) ravvisabili profili di colpa
(generica o specifica) nel contegno (omissivo) degli imputati.
Ciò premesso, e venendo dunque all'esame - secondo l'ordine logico appena
delineato - delle singole questioni rilevanti ai fini della presente decisione,
occorre preliminarmente osservare che nessun dubbio può sussistere in
ordine alla natura di "malattia professionale" della patologia del
G..
Tale preliminare conclusione - che permette di accertare l'esistenza di una
condizione necessaria (ancorché, come già rilevato, non sufficiente)
per affermare la ricorrenza del nesso causale tra condotta ed evento nella fattispecie
sottoposta al vaglio di questo giudicante - è suggerita dalle risultanze
tratte, oltre che dagli accertamenti "medico-legali" condotti nel
corso del presente dibattimento (e delle indagini preliminari che lo hanno preceduto),
anche dalle deposizioni testimoniali rese dai testi escussi su richiesta del
Pubblico Ministero.
Già dalla relazione scritta - acquisita al fascicolo per il dibattimento
all'esito dell'esame del consulente (a norma dell'art. 501 co. 2 c.p.p.) - redatta
dalla Dr. Silvana MAZZONE (incaricata dalla locale Procura della Repubblica
- ex art. 359 c.p.p. - di espletare un accertamento proprio in relazione alla
"sussistenza del nesso causale tra il decesso di G. G. e la
condotta colposa degli indagati"), è emersa la natura di malattia
professionale della patologia de qua.
Si afferma, infatti, nella suddetta relazione (cfr. pag. 7) che il G.
- subìti, "dopo il pensionamento, avvenuto nel 1984, (…) diversi
ricoveri (ospedalieri) per episodi broncopneumonici e versamento pleurico"
- nel 1995, nuovamente "ricoveratosi presso la divisione di Pneumologia
di Sestri Levante", si vedeva diagnosticare "una malattia tumorale
pleuropolmonare, classificata come "mesotelioma pleurico destro"".
Riferisce, inoltre, l'elaborato scritto che il paziente "dopo la diagnosi
della malattia (…) fu sottoposto ad accertamento presso l'INAIL che riconobbe
al tumore un origine professionale, percentualizzando una invalidità
del 100 % a partire dal 10/5/1995", chiarendo infine che, esattamente un
anno più tardi, egli "veniva ricoverato in condizioni terminali"
presso la già menzionata divisione di pneumologia dell'ospedale sestrese,
"pervenendo all'exitus il giorno 11/5/1996, alle ore 9:45".
Chiarisce, inoltre, il consulente tecnico del Pubblico Ministero che la "tecnopatia
professionale" suddetta "è da inquadrarsi in una pneumoconiosi
evoluta verso una neoplasia", derivante "in genere (…) dall'accumulo
di polvere nel tessuto polmonare e dalle reazioni dei tessuti alla sua presenza"
(cfr. pag. 10 dell'elaborato).
Nel ribadire - nel corso dell'esame svoltosi al cospetto di questo giudicante
- la diagnosi di "mesotelioma pleurico", la Dr. MAZZONE ha precisato,
invece, che "non è dato sapere nel caso di specie se il G.
avesse subito anche una asbestosi", atteso che la diagnosi è stata
compiuta "post mortem".
Sul punto - che assume, come si vedrà, rilievo decisivo ai fini del proscioglimento
degli imputati dalla contestazione elevata a loro carico - si è intrattenuto
nel corso del suo esame anche il consulente tecnico della difesa, Prof. Marcello
CANALE, secondo il quale "la presenza dell'asbestosi deve - addirittura
- escludersi in base alle risultanze dell'esame radiografico, atteso che le
stesse non rivelano la presenza di fibrosi polmonare, caratteristica dell'asbestosi".
Di una (generica) "patologia mesiotelica" - che si ribadisce aver
determinato "il decesso del Signor G." - riferisce, del resto,
anche il perito designato da questo giudicante, Dr. Giovanni CANNAVÒ,
il quale pertanto non conferma la ricorrenza (anche) di un'asbestosi.
Che la patologia riscontrata - e cioè il già menzionato "mesotelioma
pleurico" - abbia, però, presentato "origine professionale"
è conclusione alla quale (anche) il perito d'ufficio perviene constatando
la presenza delle "tre componenti fondamentali" per poter formulare
tale giudizio.
Rileva, difatti, il CANNAVÒ la presenza innanzitutto del c.d. "elemento
causale rappresentato dalla noxa patogena specifica qual è l'amianto",
precisando (cfr. pag. 12 della sua relazione scritta), che le "fibre aghiformi
dell'asbesto" risultano "oncogene per la pleura in quanto hanno un
diametro così piccolo che raggiungono la sierosa".
Non è, tuttavia, soltanto la ricorrenza di tale elemento - che pure induce
il perito a rammentare come "circa il 6-7 % dei lavoratori dell'asbesto
muoiano di mesotelioma" - a suggerire la conclusione della natura di "malattia
professionale" della patologia riscontrata a carico del G., dovendo
essa vieppiù ribadirsi - sempre a dire del CANNAVÒ - alla luce
della simultanea presenza anche degli elementi "circostanziale" (che
"risiede nella esposizione al rischio professionale durante l'esercizio
della lavorazione morbigena") e "consequenziale" (costituito
"dalle manifestazioni cliniche della malattia e dalle sue conseguenze letali").
I risultati, del resto, proposti sul punto della perizia medico legale trovano
adeguato riscontro nelle altre emergenze dell'istruttoria dibattimentale, e
segnatamente quelle tratte dalle deposizioni dei testimoni indicati dal Pubblico
Ministero.
Ha riferito, infatti, la funzionaria della "A.S.L. 4 Chiavarese",
la teste C. B. - rendendo delle dichiarazioni de relato che hanno ricevuto adeguato
riscontro (ex art. 195 co. 3 c.p.p.) nelle deposizioni dei colleghi di lavoro
(A. D., R. O. e P. G.) e della moglie (S. B.) del G. - che quest'ultimo "ha
iniziato la sua attività nel 1942 presso lo stabilimento della "XXX"
a XXX, proseguendola fino al 1983".
Nel precisare che il G. ha rivestito "la qualifica (…) di aggiustatore
meccanico" - e che lo stesso ebbe ad operare, sia "nella sala prova
posta all'interno dell'officina" di XXX, che "a bordo di navi, tanto
militari, quanto civili" - la summenzionata teste ha informato il giudicante
in merito all'attività da questi svolta.
La B. ha dichiarato che le prestazioni espletate dal G. - e segnatamente quelle
desinate a svolgersi a bordo delle navi - consistevano "nella riparazione,
nella manutenzione, nello smontaggio di compressori e turbine di riduttori marini
e terrestri, di verricelli ed altri macchinari", richiedendo la realizzazione
- "su tubazioni coibentate in amianto" - d'interventi "di carattere
distruttivo, con conseguente sgretolamento del materiale" ed "esposizione
diretta alle polveri dell'amianto" da parte dei loro esecutori.
Ha, inoltre, la teste reso edotto questo giudicante in merito alla "esposizione
indiretta" subita dal G. (sempre nel corso degli interventi effettuati
sulle navi), riferendo che le prestazioni "consistenti nella coibentazione
dei macchinari - effettuate, non dai lavoratori della "XXX", ma "da
dipendenti della ditta "YYY"" - avvenivano in condizioni di promiscuità
con quelle eseguite dagli aggiustatori meccanici" (e per giunta richiedendo
l'impiego di "materiale a spruzzo", sostituito soltanto a partire
dai primi anni '70 da "rivestimenti di cemento di pronta ed amianto, e
quindi con minore dispersione di polveri").
Non meno foriera di rischi d'inalazione di residui di amianto appare, inoltre,
l'attività svolta dagli aggiustatori meccanici in officina (come descritta,
di nuovo, dalla teste B.).
Ella afferma difatti che il G. si dedicava, in particolare, tra gli altri
interventi - che comprendevano pure la "preparazione di ferodi per la quale
si utilizzavano lastre di amianto" - "anche alla cosiddetta prova
delle turbine, provvedendo alla preparazione di guarnizioni provvisorie per
raffreddare" queste ultime, operazione che "richiedeva il taglio,
la foratura e la trapanatura di lastre in amianto, o per meglio dire del cosiddetto
"capamianto"".
Siffatta ricostruzione dell'esistenza lavorativa del G. ha ricevuto piena conferma
dalle deposizioni rese dai suoi colleghi di lavoro (e segnatamente il DEVOTO
e l'ONETO), i quali hanno altresì riferito in merito all'assenza di qualsiasi
precauzione predisposta dalla "XXX" (almeno alla fine degli anni '80)
per favorire l'eliminazione delle polveri di amianto o almeno contenere il rischio
della loro inalazione.
Ha dichiarato il teste A. D. - operaio presso lo stabilimento di XXX "dal
1965 al 1997", ove ebbe a svolgere "attività quale aggiustatore
meccanico, cioè la stessa qualifica rivestita dal G." - che le prestazioni
espletate in officina comportavano "sempre la movimentazione di polveri"
di amianto (precisando, anzi, che l'ambiente lavorativo "era sempre saturo
di polveri, anche perché qualsiasi tubazione era coibentata in amianto",
richiedendo, del resto, le operazioni demandate agli "aggiustatori meccanici"
proprio la "demolizione" di tali strutture "per accedere alla
parte dei macchinari su quali intervenire"), polveri per la "aspirazione"
delle quali "non vi era alcun sistema", mancando altresì "dispositivi
individuali di protezione" forniti ai lavoratori, tanto che "qualcuno
utilizzava per proteggersi un fazzoletto".
Non meno disagevoli (ed insalubri) risultavano le condizioni lavorative in occasione
delle prestazioni espletate a bordo delle navi, atteso che gli operai - sempre
secondo quanto riferito dal D. - "per procedere alla riparazione degli
involucri in amianto" erano costretti ad interventi improvvisati ("dovevamo
arrangiargi alla bene e meglio", ha dichiarato il teste), sostanziatisi
il più delle volte nel realizzare "una sorta di rattoppo, che veniva
eseguito tagliando e cucendo materassini di amianto", precisando inoltre
che, date le esigue dimensioni della "sala macchina" "il ristagno
delle polveri era evidentemente maggiore" che in officina.
Analoghe dichiarazioni sono state rese pure dal teste R. O., il quale - oltre
a ribadire che presso i luoghi di lavoro "non vi erano dispositivi di aspirazione
o di protezione" (rispettivamente, "delle" e "dalle"
polveri), atteso che il solo sistema di "eliminazione (…) consisteva
nello spazzarle via" (operando il più delle volte gli spazzini,
oltretutto, ancora alla presenza degli operai) - ha confermato la natura delle
prestazioni espletate dal G..
Anche tale teste ha chiarito che l'attività dallo stesso compiuta "richiedeva
la rottura degli involucri in amianto che racchiudevano i macchinari" oggetto
dell'intervento, ciò che "comportava la dispersione delle polveri
di amianto".
La copiosa presenza delle stesse, del resto, è stata confermata, oltre
che dal teste P. G. anch'egli un collega del G., dalla moglie di quest'ultimo,
S. B..
La teste, infatti, ha affermato - dopo aver rammentato che il proprio marito,
oltre a svolgere attività lavorativa presso lo stabilimento di XXX, ebbe
a compiere numerose trasferte a bordo di navi, avendo "effettuato anche
delle trasferte, a Palermo, Ancona" ed in "Sardegna", oltre quelle
"anche solo giornaliere a Genova e La Spezia" - "si lamentava
del fatto di lavorare nella polvere, che si elevava fino a due metri da terra".
La presenza di tali residui, del resto, è stata vieppiù ribadita
dalla donna, avendo ella informato questo giudicante di aver constatato - lavando
"a mano i suoi indumenti, la sua tuta" da lavoro - che dagli stessi
"usciva della polvere".
Questo ponderoso insieme di elementi vale, dunque, a confermare la valutazione
espressa dal perito dell'ufficio (e prima ancora dal consulente tecnico del
Pubblico Ministero), e cioè che il "mesotelioma pleurico" -
rivelatosi fatale al G. - abbia avuto carattere di "malattia professionale",
trovando pertanto origine nella inalazione sul luogo di lavoro di copiosi quantitativi
di polveri d'amianto, la presenza dei quali non risultava adeguatamente contrastata
dai responsabili della società "XXX", se è vero che
la totale carenza (della quale hanno riferito tutti gli operai escussi nel presente
dibattimento) di qualsiasi dispositivo di protezione individuale o collettivo
ha comportato - si veda sul punto la deposizione della già citata teste
C. B. - la presenza negli "ambienti nei quali operava il G." di "un
range di concentrazione" di polveri "stimabile da 1.000. a 10.000
volte superiore a quello oggi consentito" (in forza di quanto previsto
dal D.M. 6/9/1994 sui c.d. "ambienti interni").
Su tali basi, quindi, è possibile ritenere che la conclusione raggiunta
dal perito d'ufficio (circa la ricorrenza del nesso causale tra la patologia
- mortale - subita dal G. e l'omessa predisposizione di misure idonee
- almeno - a contenere i rischi conseguenti all'inalazione delle polveri d'amianto),
se non possa essere affermata in termini di assoluta certezza, si ponga comunque
come il risultato di una valutazione espressa in termini di "elevata credibilità
razionale", ovvero di "alta probabilità logica" (secondo
quelli che sono - come si vedrà di qui i breve - i postulati osservati
della giurisprudenza di legittimità in tema di accertamento del nesso
di causalità nel reato omissivo "improprio").
Ciò, tuttavia, non basta - nel caso di specie - per poter affermare la
responsabilità degli odierni imputati in relazione al decesso del G.,
a norma dell'art. 589 c.p.
Le peculiari caratteristiche morfologiche della malattia oncologica riscontrata
a carico del G., e segnatamente il suo carattere di tumore non "dosodipendente",
unitamente all'impossibilità di far coincidere il momento della sua insorgenza
con quello in cui (almeno) uno dei tre imputati rivestiva l'ufficio di direzione
dello stabilimento di XXX, costituiscono altrettanti motivi che impediscono
di ritenere l'insorgenza del processo patologico (a lunga latenza), culminato
nell'esplosione della letale neoplasia, quale conseguenza proprio del contegno
omissivo osservato dall'O., o dal D. N., ovvero dal F..
Se si accetta, infatti, la premessa secondo cui il "mesotelioma pluerico"
risulta soggetto al principio della c.d. trigger dose, cioè a dire la
"dose grilletto" o "killer" (quella la cui l'inalazione
innesca il processo di modificazione cellulare destinato ad evolvere nella vera
e propria malattia oncologica, rivelando - dopo non meno di una quindicina d'anni
- le sue manifestazioni tipiche, anche sotto il profilo sintomatologico) deve
da ciò trarsi una precisa conseguenza ai fini ed effetti di cui all'art.
40 cpv. c.p.
Se si muove, invero, dalla premessa sopra indicata, e si riconosce pertanto
che è priva di effetto sullo sviluppo del "mesotelioma pleuriuco"
la successiva esposizione alle polveri di amianto, deve ribadirsi la necessità
d'individuare con estrema precisione il momento dell'insorgenza della predetta
patologia, atteso che soltanto la condotta omissiva riscontrabile in quel preciso
momento (e consistente nella mancata predisposizione di misure atte ad impedire
o contenere la diffusione delle polveri di amianto nell'ambiente di lavoro)
può ritenersi "condizione contingentemente necessaria" della
malattia (e delle sue conseguenze ulteriori).
Che la patologia de qua debba, poi, includersi nel novero dei tumori non "dosodipendenti"
è la conclusione alla quale conducono, tanto le risultanze delle indagini
tecniche espletate dal perito d'ufficio (e ancor prima dallo stesso consulente
tecnico del Pubblico Ministero), quanto le più accreditate fonti della
letteratura medica.
Quanto al primo dei due profili, infatti, si deve constatare che nel corso dell'esame
espletato a norma dell'art. 501 c.p.p. la Dr. Silvana MAZZONE - nel riferire
in ordine "al fatto se dal momento dell'insorgenza del mesotelioma possa
contribuire sul piano causale o concausale la perdurante esposizione alle polveri"
di amianto - ha affermato che "il tumore in questione" presentava
"un carattere così marcatamente maligno che l'influenza sul suo
decorso" della circostanza summenzionata avrebbe potuto aggravare "il
danno funzionale", avendo però "scarsa incidenza sullo sviluppo
della neoplasia".
Considerazioni affini sono state espresse pure dal perito d'ufficio, Dr. Giovanni
CANNAVÒ.
Questi, infatti, nel corso dell'esame dibattimentale - a domanda di questo giudicante
- ha affermato che, "qualora si ravvisi l'insorgenza del periodo d'incubazione
- della malattia - anteriormente al 1975 - tale è la conclusione alla
quale egli ritiene di dover pervenire "con altissima probabilità"
(cfr. pag. 17 della sua relazione scritta) - la eventuale ulteriore esposizione
alle polveri dell'amianto sarebbe priva d'influenza sullo sviluppo della malattia".
Tali rilievi, del resto, coincidono con gli insegnamenti della più accreditata
letteratura medica, se è vero in particolare che, come sostenuto da Irving
SELIKOFF (il maggiore studioso della materia, autore della più ampia
indagine epidemologica sulla stessa, avendo essa investito su scala mondiale
oltre 17.800 individui esposti all'amianto), il mesotelioma può manifestarsi,
oltre che come complicanza dell'asbestosi (ciò che non è risultato
provato nel caso in esame), anche a seguito di inalazioni di quantitativi di
amianto straordinariamente piccoli e/o all'esito di esposizioni di breve (o
addirittura brevissima) durata, di per sé stesse sufficienti ad innescare
l'insorgenza della patologia.
Proprio sulla base, infatti, dell'ampia indagine condotta, il predetto SELIKOFF
ha constatato l'insorgenza della malattia in lavoratori esposti al rischio dell'inalazione
dei corpuscoli dell'asbesto per periodi circoscritti (mesi o persino settimane)
della loro esistenza professionale, ovvero in soggetti destinati ad operare
in ambienti di vita caratterizzati da concentrazioni di polveri di gran lunga
inferiori a quelle riscontrate suoi luoghi di lavoro (è il caso, tanto
dei familiari di lavoratori dell'amianto vittime dell'inquinamento domestico
provocato dagli abiti recanti residui delle polveri suddette, quanto degli abitanti
in aree geografiche inquinate in ragione della particolare conformazione geologica
del terreno ove le prime risultano localizzate).
L'assenza, del resto, di una correlazione tra quantità di amianto inalata
e la comparsa del mesoteliama (e, dunque, il carattere di patologia non "dosodipendente"
che lo connota) è conclusione, vieppiù, ribadita dal predetto
scienziato anche sulla base di un altro dato emerso dall'analisi condotta.
In virtù dei conteggi, infatti, delle fibre presenti nel tessuto polmonare
dei pazienti esaminati, si è constatato che, mentre nei soggetti affetti
da asbestosi si rivelavano concentrazioni di fibre superiori 100 o 1.000 volte
rispetto ai soggetti non esposti alle polveri di amianto, nei degenti per mesotelioma
è stata invece constatata l'esistenza di concentrazioni molto basse,
non di rado persino coincidenti con quelle riscontrate nei soggetti non esposti
ad un rischio specifico.
In base, dunque, a questo insieme di dati il SELIKOFF, già alla fine
degli anni '70 del secolo appena trascorso, concludeva che, una volta inalata
la c.d. trigger dose (letteralmente dose "grilletto") sono irrilevanti
ulteriori esposizioni ai residui volatili dell'asbesto.
Egli, difatti, osservava che "una certa dose innescante il processo - patogeno
- è richiesta ma, quando questa è stata introdotta ulteriori dosaggi
non hanno influenza nella comparsa del tumore" (cfr. I. SELIKOFF, "Asbestos
and Disease", New York, 1978).
Dato atto, pertanto, dell'importanza decisiva rivestita dall'individuazione
dell'esatto momento dell'insorgenza del mesotelioma pleurico del quale il G.
è stato vittima, occorre a questo punto constatare che le risultanze
dell'istruttoria dibattimentale non hanno permesso di stabilire se esso coincida
con quello in cui taluno degli imputati era chiamato a rivestire funzioni direttive
al vertice dello stabilimento ove quel dipendente svolgeva la propria attività
lavorativa.
Già il consulente tecnico della pubblica accusa (la più volte
menzionata Dr. Silvana MAZZONE) ha dichiarato a questo giudicante di non poter
"riferire nulla di preciso circa il momento d'insorgenza del mesotelioma",
limitandosi a confermare che "i tempi di latenza della malattia" sono
indicati nella "letteratura medica" anche della durata di alcuni "decenni"
(ribadendo quanto dichiarato nella relazione scritta redatta a norma dell'art.
359 c.p.p., ove si affermava testualmente che "la comparsa della neoplasia"
si verifica "dopo un certo lasso di tempo, variabile caso per caso",
comunque "dell'ordine di alcuni decenni", ma non superiore a quaranta
anni).
Sulla base di simili risultanze, pertanto, l'assoluzione di ognuno dei tre imputati
dalla contestazione elevata a loro carico dovrebbe imporsi - in mancanza di
prova certa in ordine all'efficienza causale del contegno omissivo di ciascuno
di essi rispetto alla produzione dell'evento costituito dalla morte del G.
- alla stregua dell'art. 530 cpv. c.p.p.
Né, d'altra parte, è valsa a dissipare tale situazione d'incertezza
la perizia disposta nel corso del presente dibattimento, ed espletata dal Dr.
CANNAVÒ.
Questi, infatti, pur muovendo dalla premessa secondo cui "l'insorgenza
della malattia non è databile con assoluta certezza", ritiene che
la stessa possa "essere fatta risalire con altissima probabilità
- senza, però, chiarire alla stregua di quale criterio egli pervenga
a tale conclusione - al periodo antecedente al 1975", salvo tuttavia aggiungere
(in ciò rivelando che la valutazione espressa non risulta scevra da profili
di dubbio) che tale momento potrebbe essere collocato "verosimilmente in
periodi ancora più lontani anche di 10-15 anni".
Già su tali basi, quindi, dovrebbe riconoscersi l'indifferenza - rispetto
al decesso del G. - del contegno contestato al D. N. ed al F., atteso che costoro
hanno rivestito la qualità di direttori dello stabilimento della "XXX"
di XXX in un'epoca (rispettivamente, il primo, dal 1/1/1977 al 30/9/1981, il
secondo invece dal 1/10/1981 al 31/10/1982), sicuramente posteriore a quel 1975,
indicato dal perito come data non prima della quale sarebbe insorta la patologia
subita dal lavoratore.
Le conclusioni del Dr. CANNAVÒ, d'altra parte, non appaiono idonee a
giustificare l'affermazione della penale responsabilità neppure nei riguardi
dell'O. (quantunque il medesimo abbia rivestito dal 1/1/1972 al 31/12/1976 la
summenzionata qualità di direttore dello stabilimento di XXX).
Il perito d'ufficio, infatti, "tenuto conto che l'esposizione all'amianto
ebbe inizio con l'unica attività espletata dal G. nel corso della
sua lunga carriera lavorativa (trentacinque anni consecutivi) cominciata nel
1946", sottolinea che "non si può escludere che la patologia
asbestosica si sia insediata già dopo i primi dieci anni di esposizione
al rischio" (cfr. pag. 16 della sua relazione scritta).
Sussiste, quindi, nelle stesse conclusioni rassegnate dal perito dell'ufficio,
una situazione di dubbio circa l'individuazione del momento d'insorgenza della
malattia de qua, giacché il CANNAVÒ formula - pur collocando tale
evento in epoca anteriore al 1975 - due ipotesi diverse (e cioè che l'insorgenza
della patologia possa risalire a dieci anni dopo la data di assunzione del G.
presso la "XXX", ovvero che tale evenienza possa collocarsi dieci
o quindici anni prima del 1975), nessuna delle quali permette di collocare l'inizio
della patologia all'interno del periodo in cui l'O. rivestiva responsabilità
direttive al vertice dello stabilimento di XXX.
Questa situazione d'incertezza, peraltro, si presenta del tutto incompatibile
con quel rigore che deve caratterizzare l'accertamento del nesso di causalità
anche con riferimento alla fattispecie di reato oggetto del presente giudizio.
Ritiene, infatti, questo giudicante che, pur trattandosi nel caso di specie
di dover valutare l'efficienza eziologica di una comportamento "omissivo",
si debba rifuggire dalla tentazione di ricorrere ad un modello di ricostruzione
del nesso causale "alternativo" rispetto a quello utilizzato con riferimento
alla condotte "commissive", e cioè imperniato sull'impiego
di un metodo di valutazione dei fatti (puramente) "ipotetico", e non
propriamente "controfattuale".
La circostanza, invero, che il primo capoverso dell'art. 40 c.p. sancisca la
regola secondo cui "non impedire un evento, che si ha l'obbligo d'impedire,
equivale a cagionarlo", non consente di ritenere che - con riferimento
ai reati "commissivi mediante omissione" - l'accertamento della ricorrenza
del nesso di causalità tra condotta ed evento possa essere, per così
dire, "surrogato" dalla verifica della sussistenza di un suo semplice
"equivalente".
Appare, per contro, indispensabile mantenere un approccio sostanzialmente unitario
nell'accertamento del nesso di causalità, al fine di evitare la "deriva"
verso impostazioni concettuali ("un lungo viaggio verso il nulla",
secondo un arguta definizione dottrinaria) che appaiono dibattersi tra due opposte
(ed entrambe non accettabili) tendenze.
La pretesa, infatti, di sostituire il nesso causale con un suo "equivalente"
oscilla tra la tentazione di ritenere sufficienti - con riferimento ai reati
omissivi - valutazioni di "mera possibilità" (incompatibili
però con il rigore scientifico che deve connotare la verifica dell'efficienza
eziologica di ogni contegno penalmente rilevante), e quella invece incline a
valorizzare il criterio del c.d. "aumento del rischio" (il quale,
peraltro, risulta non soltanto privo di vero contenuto euristico, ma oltretutto
più consono all'accertamento della c.d. "causalità psichica",
e cioè di quel nesso di derivazione tra colpa ed evento che - consentendo
di ritenere quest'ultimo concretizzazione del rischio che l'osservanza della
regola cautelare trasgredita mirava a scongiurare - permette di riconoscere
la ricorrenza di un elemento la cui rilevanza è da apprezzare, non sul
piano della tipicità del reato, ma su quello della colpevolezza).
Trattasi di tendenze, ambedue quelle descritte, che finiscono soltanto con l'assecondare
quel fenomeno di "volatilizzazione" del rapporto causale che è
stato denunciato - in tema di reati omissivi - da parte della migliore dottrina,
e che appare - per contro - decisamente necessario contrastare, prive di pregio
rivelandosi le argomentazioni tradizionalmente addotte a sostegno della (pretesa)
esigenza di ricostruire l'efficienza eziologica della condotta dell'imputato
secondo modelli differenziati in relazione alla natura del reato.
Premesso, infatti, (come è stato acutamente osservato) che soltanto la
fedeltà ad una (arcaica) concezione "antropomorfica" della
causalità può portare a limitare l'impiego del "giudizio
controffattuale" unicamente ai comportamenti "commissivi" (e
ciò sul presupposto che essi esclusivamente implichino l'operare di forze
naturali o energie materiali), si deve invece riconoscere che qualunque sia
la morfologia di una condotta umana si è comunque in presenza di un "processo"
("dinamico", se la stessa risulti di carattere "commissivo",
"statico", se di tipo invece "omissivo") idoneo a produrre
una modificazione della realtà, l'efficienza eziologia del quale dovrà
essere quindi sempre apprezzata alla stregua della teoria della condicio sine
qua non, corretta secondo il metodo della "sussunzione sotto leggi scientifiche"
(siano esse, non solo universali, ma anche semplicemente statistiche).
Ne consegue, pertanto, che per ravvisare l'esistenza del nesso causale tra una
condotta omissiva ed un determinato evento è sempre necessario - secondo
i postulati della teoria della "causalità scientifica" - formulare
un giudizio di "elevata credibilità razionale" ovvero di "alta
probabilità logica" che porti ad individuare nella prima una "condizione
contingentemente necessaria" del secondo (cfr. per un applicazione di tale
principio - proprio per con riferimento al tema della responsabilità
ex art. 589 c.p. per decesso da mesotelioma pleurico - Cass. Sez. VI: 25/9/01;
Imp. "Covilli").
L'orientamento testé descritto, del resto, ha ricevuto di recente piena
conferma da parte delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione (cfr. Cass.
S.U. : 30328/02), avendo il Supremo Collegio ribadito - enunciando tale affermazione
con riferimento al tema specifico dell'attività medico-chirurgica, ma
con principio estensibile ad ogni contegno omissivo - che "la persistente
fedeltà della prevalente scienza giuridica penalistica al classico paradigma
condizionalistico (…) non solo appare coerente con l'assetto normativo
dell'ordinamento positivo, ma rappresenta altresì un momento irrinunciabile
di garanzia per l'individuazione della responsabilità nelle fattispecie
orientate verso la produzione di un evento lesivo".
Ancor più esplicitamente la citata sentenza, pur dando "atto della
peculiarità concettuale dell'omissione", osserva che "lo statuto
logico del rapporto di causalità rimane sempre quello "condizionale
controffattuale", la cui formula dovrà rispondere al quesito se,
mentalmente eliminato il mancato compimento dell'azione doverosa e sostituita
alla componente statica un ipotetico processo dinamico corrispondente al comportamento
doveroso, supposto come realizzato, il singolo evento hic et nunc verificatosi,
sarebbe o no venuto meno, mediante un enunciato esplicativo coperto dal sapere
scientifico del tempo" (cfr. Cass. S.U. : 30328/02).
Orbene, poiché nel caso di specie - per i motivi già ampiamente
illustrati (e cioè il carattere non "dosodipendente" del tumore
riscontrato a carico del G., e l'impossibilità di individuare con certezza
il momento della sua insorgenza in un arco di tempo che comprenda quello in
cui, almeno uno degli imputati, abbia assunto responsabilità di direzione
dello stabilimento in cui egli ebbe a svolgere la sua attività lavorativa)
- non sussiste la possibilità di riconoscere la condotta omissiva dell'O.,
del D. N. o del F. quale condicio sine qua non dell'evento morte di quel dipendente
della "XXX", appare necessario concludere per il proscioglimento degli
imputati, secondo la formula "perché il fatto non sussiste".
L'estrema complessità della motivazione - anche in ragione delle delicate
questioni, non solo giuridiche, ma anche di carattere medico-legale che questo
giudicante è stato chiamato ad affrontare - giustificano la decisione
del medesimo di riservarsi il termine massimo (ex art. 544 co. 3 c.p.p.) per
il deposito della presente sentenza.
Tutto ciò premesso e considerato,
P. Q. M.
Il Giudice,
visto l'art. 530 cpv c.p.p.
ASSOLVE
O. P., D. N. M. e F. R. dal reato a loro ascritto perché il fatto non sussiste.
Giorni 90 per il deposito della sentenza.
Chiavari, 13.11.2002
Il Giudice
Dr. Stefano Giaime GUIZZI