Tribunale di Padova, in funzione di Giudice dell'esecuzione,
Ordinanza 9 gennaio 2003

TRIBUNALE DI PADOVA
Sezione Penale

N. 279/2002 Giud. Es.

Il Tribunale, riunito in camera di consiglio in persona dei magistrati

dr. Mario Fabiani   -   presidente

dr.ssa Lara Fortuna - giudice 

dr. Vincenzo Sgubbi - giudice rel.

sulla richiesta dell’Avv. Tosello per conto di X, Y, Z, J e K volta ad ottenere la revoca per abolitio criminis della sentenza di applicazione della pena di anni uno e mesi quattro di reclusione pronunciata nei loro confronti dal Tribunale di Padova in data 21.1.1997 (sentenza n. 96/97 R. Sent. nel procedimento 64/97 R.G.);

nonché sulla richiesta di analogo contenuto formulata dal P.M. -per il caso di accoglimento da parte del Tribunale dell’istanza difensiva con riguardo alla quale l’organo dell’accusa si è rimesso alla decisione del collegio- con riferimento al coimputato L;

sentite le parti all’udienza in camera di consiglio del 16.12.2002 ed a scioglimento della riserva ivi assunta;

premesso che:

in data 21.1.1997 gli imputati sopra nominati hanno chiesto ed ottenuto l’applicazione della pena nella misura indicata. Essi erano stati tratti a giudizio per il reato di cui agli artt. 81 cpv., 110, 112 n. 1 c.p., 2621 n. 1 e 2640 c.c., ma nel corso dell’udienza dell’11.11.1996, in ragione dell’intervenuta dichiarazione di insolvenza della società nel cui ambito le condotte addebitate erano state tenute, il Pubblico Ministero aveva modificato l’imputazione che risultò la seguente (v. pagg. 66-67 verbale stenotipico): “del reato p. e p. dagli artt. 110 c.p., 203, 223 co. II n. 1, 219 co. I e II n. 1 R.D. 16.3.1942 n. 267 perché, in concorso tra loro, nelle rispettive qualità assunte nella cooperativa a responsabilità limitata “…”, dichiarata insolvente con sentenza del Tribunale di Padova in data 9.3.1992, relativamente agli esercizi 1986, 1987, 1988 e 1989, esponevano -nei bilanci e nelle altre comunicazioni sociali- fatti non rispondenti al vero sulle condizioni economiche dell’anzidetta società o, comunque, nascondevano in tutto o in parte fatti concernenti le condizioni medesime; fra l’altro quelle scelte antieconomiche e quegli indirizzi operativi (finanziari, finalizzati a creare benefici per le cooperative non socie né collegate) che ne hanno poi determinato la liquidazione coatta amministrativa, diretta conseguenza del depauperamento della cooperativa per l’utilizzazione per scopi illegittimi dei fondi e dei prestiti ricevuti. Con le aggravanti dell’aver commesso più fatti tra quelli indicati nell’art. 223 e dell’aver cagionato un danno di rilevante gravità. Esattamente con riguardo a tale imputazione modificata è stata pronunciata la sentenza, circostanza che si evince chiaramente dalla motivazione (“gli imputati … con il consenso del Pubblico Ministero hanno richiesto l’applicazione della pena … per il reato di cui all’imputazione modificata all’ud. 11.11.96”), ma la nuova imputazione non è stata trasfusa né nell’intestazione della sentenza né nei certificati del casellario giudiziale;

la Difesa ha chiesto in via preliminare che il Tribunale accerti e dichiari che la sentenza si riferisce a tale imputazione modificata e, di conseguenza, che dichiari revocata la sentenza medesima per abolitio criminis della norma di cui all’art. 223 n. 1 l.f., in tal senso dovendosi intendere la scelta del legislatore che ha modificato la norma incriminatrice (d. lgs. 61/2002);  

OSSERVA

1. Chiarito che la sentenza de qua si riferisce ad un’ipotesi di bancarotta impropria per falso in comunicazioni sociali stante la nuova contestazione effettuata all’udienza dell’11.11.1996, il primo problema da affrontare è rappresentato dai rapporti tra la fattispecie contestata allora ai sensi dell’art. 223 II co. n. 1 l.f. e quella oggi costituente il delitto di bancarotta impropria societaria alla luce dell’art. 4 d. lgs. 11.4.2002 n. 61 che ha sostituito il n. 1 di detto articolo con un nuovo n. 1. La nuova norma prevede la responsabilità per bancarotta del soggetto che, commettendo un illecito societario (artt. 2621 cc. e norme successive richiamate dall’art. 223), ha cagionato o concorso a cagionare il dissesto della società.

La giurisprudenza di legittimità è stata chiamata a decidere se tra la vecchia e la nuova fattispecie vi sia  un rapporto di successione di leggi incriminatrici regolato dall’art. 2 comma 3 del codice penale ovvero se la nuova norma abbia comportato abolitio criminis della figura delittuosa precedentemente prevista, con la conseguenza, rilevante in questa sede, dell’applicazione dell’art. 2 comma 2 c.p. -che prevede tra l’altro la cessazione dell’esecuzione e degli effetti penali della condanna eventualmente pronunciata sulla base della norma abrogata- e dell’art. 673 c.p.p. che stabilisce in tali casi la revoca della sentenza (sicché la norma processuale invocata ha segnato “un reciso mutamento di tendenza rispetto alle prescrizioni dell’art. 2 comma 2 c.p.  giacché … la decisione viene ad incidere direttamente, cancellandola, sulla sentenza del giudice della cognizione”: Corte cost., sent. n. 96/1996).

La Corte (Sezione V, 8-16 ottobre 2002 n. 34622, Tosetti e altri) ha risposto al quesito richiamando, quali criteri per l’individuazione del rapporto tra vecchia e nuova norma, gli stessi utilizzati dalla Sezioni unite nelle sentenze 25.10.2000 e 13.12.2000 che hanno deciso in materia di successione tra norme penali tributarie: è da chiedersi anzitutto se la norma abrogante sia eterogenea rispetto a quella abrogata, ed in tale caso “si avrà sempre abrogazione retroattiva e nuova incriminazione irretroattiva”; dopodiché, se non vi sia eterogeneità (come nel caso in esame), occorre verificare se la nuova norma sia speciale rispetto alla precedente, perché in tal caso, se la nuova norma si limita a specificare gli elementi della precedente (c.d. specialità per specificazione), la conseguenza sarà l’applicazione della lex mitior ai fatti che rientrino sotto entrambe le fattispecie e l’applicazione della sola norma più recente (con conseguente revoca delle sentenze pronunciate alla luce della vecchia) per i casi rientranti solo nella norma generale abrogata.

Tuttavia, ha aggiunto la Corte, la risposta è diversa nel caso di specialità c.d. per aggiunta, laddove l’alternativa è secca: “o non si ha alcuna abolitio criminis o si ha un’abolitio totale, quando l’elemento aggiuntivo abbia un peso tale da ascrivere alla nuova fattispecie un significato lesivo diverso da quello della fattispecie abrogata”.

Decisiva è dunque la valutazione del “peso” da attribuire all’elemento nuovo previsto dal d. lgs. 61/2002, vale a dire la causazione del dissesto: ebbene, detto elemento è certamente “tale da ascrivere alla nuova fattispecie un significato lesivo del tutto diverso da quello della fattispecie abrogata. In una fattispecie infatti assumeva rilievo la sola idoneità della condotta a rappresentare falsamente le condizioni economiche della società, nell’altra assume rilievo soprattutto la sua idoneità a contribuire al dissesto dell’impresa”. Dunque, la fattispecie prevista dall’art. 223 II co. n. 1 l.f. previgente è stata oggetto di abolitio criminis, secondo il ragionamento esposto che il Tribunale condivide (la medesima conclusione la Corte Suprema ha accolto nelle sentenze 21535/02, 36347/02, 36633/02; la stessa Corte Suprema ha in altre due occasioni affermato invece trattarsi di successione di leggi: v. Sez. I 31828/02 e Sez. V 34621/02. La tesi non persuade questo Tribunale ed è fondata sulla considerazione che il legislatore della novella avrebbe inteso soltanto precisare quanto già ritenuto necessario dalla dottrina sotto il vigore della precedente normativa, cioè la necessità che le false comunicazioni sociali avessero causato il dissesto. Invero, come precisato dalla sentenza che si è più estesamente richiamata, l’elemento causale è solo oggi espressamente previsto quale elemento costitutivo della fattispecie, che va dunque confrontata con quella prevista in precedenza).

2. Il caso sottoposto all’esame del Tribunale presenta tuttavia una peculiarità: nel capo d’imputazione redatto nel 1996 si diceva già espressamente che la condotta ascritta agli imputati aveva determinato la liquidazione coatta amministrativa, diretta conseguenza del depauperamento della cooperativa per l’utilizzazione per scopi illegittimi dei fondi e dei prestiti ricevuti. Dunque, l’accusa conteneva già il riferimento alla causazione del dissesto richiesta dalla norma incriminatrice attuale (pacifico essendo che il dissesto, rectius insolvenza della società cooperativa, a prescindere dal momento della sua dichiarazione, è presupposto per l’avvio della procedura di liquidazione coatta amministrativa: cfr. artt. 2540 c.c., 195, 202, 203 l.f.).

Tale circostanza è tuttavia irrilevante ai fini che interessano.

Infatti il confronto che il giudice deve fare per verificare se si verta in un caso di abolitio criminis o meno deve avvenire, come ha affermato la Suprema Corte in premessa al ragionamento riepilogato poco sopra, tra fattispecie astratte, a nulla rilevando la constatazione “che, pur dopo l’abrogazione della norma penale che lo prevedeva, un determinato fatto concreto risulta comunque ancora punibile”. Proprio sulla base del raffronto tra fattispecie astratte i Giudici di legittimità hanno concluso nel senso che si è visto.

Una diversa soluzione si risolverebbe in un’applicazione retroattiva di una legge penale incriminatrice, opzione vietata dall’art. 2 I co. c.p. e prima ancora dal principio costituzionale di legalità (art. 25 co. II Cost.): basta osservare infatti che nel caso in esame non soltanto è mancato un accertamento circa il rapporto di causalità tra falso in bilancio e insolvenza, ma che, se pure detto accertamento vi fosse stato, non avrebbe rivestito alcun rilievo ai fini della condanna, per la quale sarebbe stata sufficiente la verifica della falsità (e del dolo). Né gli si può attribuire tale peso oggi, a posteriori, perché si applicherebbe alla fattispecie concreta commessa nel 1992 una norma incriminatrice nuova entrata in vigore nel 2002.

3. La giurisprudenza di legittimità che, in fase di cognizione, ha esaminato il rapporto tra le norme penali societarie e fallimentari succedutesi nel tempo si è posta anche il problema dell’astratta persistente configurabilità di un illecito societario pur dopo l’abrogazione della “vecchia” fattispecie di bancarotta impropria. In un caso come quello che si esamina, dunque, e sempre beninteso sulla base di un raffronto tra fattispecie astratte, sarebbe configurabile comunque il reato  di cui all’art. 2621 c.c..

Invero, in ordine al rapporto tra l’art. 2621 c.c. vigente all’epoca dei fatti e l’art. 2621 c.c. novellato dal d. lgs. 61/2002 la Suprema Corte ha concluso, diversamente da quanto accaduto con riguardo alla bancarotta, per la sussistenza di un fenomeno di successione di leggi, con la conseguenza che troverà applicazione, ai sensi dell’art. 2 comma 3 c.p., la legge in concreto più favorevole tra quella precedente e quella attuale, ma che non può parlarsi di abolitio criminis.

A tale conclusione i Giudici di legittimità sono giunti sulla base dell’applicazione rigorosa dei criteri già esaminati sopra: il falso in bilancio è cioè fattispecie generale rispetto alla bancarotta impropria e speciale rispetto alla fattispecie penale societaria abrogata. Tra il nuovo e il vecchio art. 2621 c.c. v’è, rispetto al “nucleo comune” rappresentato dalla condotta di falsità ideologica, un semplice rapporto di “specialità per specificazione, derivante dall’introduzione dei limiti quantitativi di rilevanza penale in relazione all’entità dei dati economici falsamente rappresentati” (Cass. Sez. V 8-16 ottobre 2002 cit.), e dunque non può affermarsi che sussista abolitio criminis. Del resto, la comparazione delle due formulazioni dell’art. 2621 c.c. (abrogata ed attuale) ha sempre sinora condotto la Suprema Corte al medesimo risultato, giacché i Giudici hanno ravvisato nelle due norme identità di interesse tutelato, identità di soggetti attivi, identità di elemento soggettivo (la giurisprudenza di legittimità è già ricca e costante sul punto: v. sentenze nn. 21532/02, 23449/02, 26641/02, 34615/02, 34621/02, 36329/02. 36347/02, 36633/02, 31828/02). Alle stesse conclusioni deve giungersi esaminando la più autorevole dottrina, che ha messo in evidenza come per aversi abolitio criminis debba ravvisarsi l’eliminazione del giudizio di disvalore dato dall’ordinamento alla fattispecie astratta, non essendo invece rilevanti a tale fine tutte le modificazioni normative (procedibilità a querela anziché d’ufficio, introduzione di cause di non punibilità, come nel caso di cui ci si occupa; irrilevante è la questione attinente all’elemento soggettivo, posto che l’avverbio “fraudolentemente” di cui all’abrogata norma già veniva interpretato come qualificante l’elemento soggettivo) che non incidono sul giudizio di liceità penale.

Infine le osservazioni dei Supremi Giudici trovano conforto nella Relazione governativa ala bozza di decreto legislativo per l’attuazione dell’art. 11 l. 366/2001, nella quale a proposito dell’art. 2621 c.c. si dice, con riferimento all’interesse tutelato, che la fattispecie “continuerà a salvaguardare quella fiducia che deve poter essere riposta da parte dei destinatari nella veridicità dei bilanci o delle comunicazioni della impresa organizzata in forma societaria”.

Sulla base di tali considerazioni la Corte di Cassazione nella richiamata sentenza n. 34622/2002 (si trattava di un ricorso avverso sentenza della Corte d’Appello di Torino di condanna per il delitto di bancarotta impropria societaria previsto dal previgente art. 223 II co. n. 1 l.f.) ha operato una modificazione dell’originaria imputazione ed ha ravvisato sussistente il reato previsto dal novellato art. 2621 c.c., dichiarandolo peraltro estinto in applicazione dei più favorevoli termini prescrizionali.

4. Peraltro, tale conclusione è preclusa in questa sede. Ciò che è consentito al giudice della cognizione non è invece possibile al giudice dell’esecuzione: “la norma dell’art. 673 c.p.p. … non consente affatto al giudice dell’esecuzione di modificare l’originaria imputazione o di accertare il fatto in modo difforme da quello ritenuto dalla sentenza passata in giudicato” (Cass. a Sezioni unite, 27.6-17.7.2001 n. 19). Una diversa conclusione “sarebbe all’evidenza incompatibile col sistema del processo esecutivo, sia pure giurisdizionalizzato, perché lo trasformerebbe in una replica anomala del processo di cognizione; e sarebbe comunque incostituzionale per eccesso di delega, posto che le direttive n. 96 e 97 dell’art. 2 della legge 16 febbraio 1987 n. 81 riconoscono al giudice dell’esecuzione un potere di rivalutare il fatto solo per la disciplina del concorso formale e della continuazione di reati” (Sezioni unite da ultimo cit.).

Di fronte al fenomeno della successione di leggi nel tempo, in definitiva, il processo di cognizione conosce istituti che consentono di “rimediare” ad una contestazione superata dall’introduzione di nuove norme nell’ordinamento (artt. 516 e ss. c.p.p. quanto ai poteri del Pubblico Ministero, art. 521 c.p.p. quanto ai poteri del Giudice).

E così, con riferimento al caso di specie, se la questione fosse sorta nella fase della cognizione, una volta ritenuta abrogata -per le considerazioni prima esposte- la preesistente norma incriminatrice della bancarotta per illecito societario (e conseguentemente inapplicabile, per il divieto posto dall’art. 2 I e II co. c.p., la disciplina sanzionatoria sopravvenuta, pur in presenza di un adeguamento dell’imputazione contestata al fine di far rientrare in essa il nuovo elemento della causazione del dissesto), sarebbe stato tuttavia possibile pervenire ad una declaratoria di colpevolezza in ordine al delitto di cui all’art. 2621 del codice civile per il quale non vi è stata abolitio criminis bensì semplice successione di norme penali incriminatrici, sempre che ne fossero configurabili gli elementi costitutivi e questi fossero stati regolarmente contestati, eventualmente in forma integrativa e con applicazione, beninteso, della disciplina più favorevole tra le due normative.

A questa soluzione non può invece pervenirsi nella presente fase dell’esecuzione in quanto la presenza di un giudicato per il più grave delitto fallimentare è di ostacolo ad un intervento di modifica dell’imputazione (in quella meno grave di cui all’art. 2621 c.c., del quale sarebbero configurabili gli elementi costitutivi) o, tantomeno, di adeguamento della pena irrogata.

Una volta ritenuto pertanto che l’art. 4 del d. lgs. 11.4.2002 n. 61 ha abrogato l’art. 223 co. II n. 1 l.f., sostituendolo con una diversa formulazione incriminatrice, non resta che disporre la revoca della sentenza definitivamente pronunziata sulla base della previgente normativa, in applicazione della regola fissata dagli articoli 2 comma secondo del c.p. e 673 del c.p.p.

Tenuto conto infine che l’intestazione della sentenza che si revoca contiene l’erroneo riferimento al delitto di cui agli articoli 81 cpv., 112 n. 1 c.p., 2621 e 2640 c.c., senza considerare la modifica dell’imputazione effettuata nell’udienza dell’11.11.1996, devono essere adottate dal Tribunale con la presente ordinanza, ex art. 130 c.p.p., le necessarie disposizioni correttive come da dispositivo.

P.Q.M.

visti gli artt. 2 cpv. c.p., 130, 665,673, 687, 690 c.p.p., 1 e ss. d. lgs. 61/2002

dispone  la correzione dell’errore materiale contenuto nell’intestazione della sentenza emessa nei confronti di X, Y, Z, J, K e L in data 21.1.1997 – irr. 21.2.1997 (24.2.1998 per K), nella quale il capo d’imputazione sub B deve leggersi e intendersi il seguente: “del reato p. e p. dagli artt. 110 c.p., 203, 223 co. II n. 1, 219 co. I e II n. 1 R.D. 16.3.1942 n. 267 perché, in concorso tra loro, nelle rispettive qualità assunte nella cooperativa a responsabilità limitata “VENETA MAIS”, dichiarata insolvente con sentenza del Tribunale di Padova in data 9.3.1992, relativamente agli esercizi 1986, 1987, 1988 e 1989, esponevano -nei bilanci e nelle altre comunicazioni sociali- fatti non rispondenti al vero sulle condizioni economiche dell’anzidetta società o, comunque, nascondevano in tutto o in parte fatti concernenti le condizioni medesime; fra l’altro quelle scelte antieconomiche e quegli indirizzi operativi (finanziari, finalizzati a creare benefici per le cooperative non socie né collegate) che ne hanno poi determinato la liquidazione coatta amministrativa, diretta conseguenza del depauperamento della cooperativa per l’utilizzazione per scopi illegittimi dei fondi e dei prestiti ricevuti. Con le aggravanti dell’aver commesso più fatti tra quelli indicati nell’art. 223 e dell’aver cagionato un danno di rilevante gravità”;

dispone che tale correzione sia annotata sull’originale dell’atto;

revoca la sentenza predetta, dichiara che il fatto non è previsto dalla legge come reato ed ordina l’eliminazione della relativa iscrizione dal certificato del Casellario giudiziale;

manda la Cancelleria per la comunicazione al P.M. e per la notifica della presente ordinanza a e al Difensore Avv. Franco Tosello del Foro di Padova nonché per gli incombenti di cui agli artt. 130 c.p.p.,  193 disp. att. c.p.p.;

Padova, 9 gennaio 2003.

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