Tribunale di S. Angelo dei Lombardi, in composizione monocratica,
Ordinanza 21 novembre 2001
N.1/2000
R.G.Dib.
N. 671/1996 R.G.N.R.
TRIBUNALE DI S. ANGELO DEI LOMBARDI
Il Tribunale penale di S. Angelo dei Lombardi in composizione monocratica, dott. Ferdinando Lignola, decidendo nel processo in corso nei confronti di P. P. A., S. D. e D. L. P.
OSSERVA
P. P. A., S. D. e D. L. P. sono imputati nel presente processo per il delitto di estorsione continuata ed aggravata, per aver causato alle persone offese un danno di rilevante gravità.
All’udienza del 28 maggio 2001 veniva chiamato a rendere testimonianza il teste del Pubblico Ministero M.llo Cicchella, il quale riferiva dichiarazioni da lui ricevute e regolarmente verbalizzate nel corso delle indagini preliminari da parte di persone informate sui fatti citate in dibattimento come testimoni.
La Difesa degli imputati P. e DI L. eccepiva il divieto per gli ufficiali e gli agenti di polizia giudiziaria di testimoniare sul contenuto delle dichiarazioni acquisite da testimoni con le modalità di cui agli artt. 351 e 357, comma 2, lett. a) e b), ai sensi dell’art. 195, comma 4, c.p.p., così come riformulato dalla legge n. 63/2001.
Il Pubblico Ministero replicava chiedendo il rigetto dell’eccezione, sul presupposto che la norma invocata limitasse il divieto alle sole ipotesi in cui dichiarazioni fossero state assunte dalla polizia giudiziaria ai sensi degli artt. 351 e 357, comma 2, lett. a) e b), e quindi nell’ambito di attività d’indagine di iniziativa della polizia giudiziaria, facendo salve, negli altri casi, le disposizioni dei commi 1, 2 e 3 dello stesso art. 195 c.p.p..
Il Tribunale rigettava l’eccezione difensiva, in base ad una interpretazione letterale della norma, ritenendo ammissibile la deposizione del testimone di polizia giudiziaria in ordine a dichiarazioni acquisite nel corso di attività d’indagine delegata, alla luce del chiaro dato letterale dell’art. 195, comma 4, c.p.p. riformulato, che espressamente limita il divieto ai casi di cui agli artt. 351 e 357, comma 2, lett. a) e b) c.p.p..
Secondo l’interpretazione accolta, infatti, il divieto di testimoniare della polizia giudiziaria va limitato ai soli casi in cui le dichiarazioni siano state assunte dalla stessa di propria iniziativa, non potendosi esso estendere a tutte le dichiarazioni ricevute in corso di indagine di cui si sia avuta comunque verbalizzazione. Diversamente opinando, del resto, dovrebbe ammettersi la testimonianza indiretta della polizia giudiziaria solo nell’ipotesi in cui le dichiarazioni ricevute non siano state verbalizzate affatto, oppure qualora siano state percepite dall’organo di polizia giudiziaria del tutto occasionalmente.
È stato contrariamente sostenuto che proprio dal punto di vista letterale il rinvio alle modalità di cui agli artt. 351 e 357, comma 2, lettere a e b, come contenuto nell’art. 195 comma 4 c.p.p. riformulato, rappresenta un richiamo delle "modalità di documentazione" delle dichiarazioni: da ciò deriverebbe un divieto di deporre in tutti i casi in cui l’ufficiale o l’agente di polizia giudiziaria abbia documentato in apposito verbale le dichiarazioni ricevute.
A giudizio del Tribunale, oltre al chiaro dato letterale (la norma richiama il solo comma 2, lett. a) e b) dell’art. 371 c.p.p. e non l’intero articolo, che pure disciplina la documentazione dell’attività di polizia giudiziaria), l’interpretazione restrittiva del divieto è imposta dai principi generali, come interpretazione costituzionalmente orientata: dovrebbe infatti seriamente dubitarsi della legittimità costituzionale del divieto estensivamente interpretato, per violazione del principio di ragionevolezza, eguaglianza e pari dignità sociale dei cittadini dinanzi alla legge (art. 3 Cost.), poiché verrebbe a riproporsi quella discriminazione tra appartenente alla polizia giudiziaria ed altri cittadini chiamati a testimoniare, già ritenuta dal Giudice delle leggi irrazionale, a meno di ritenere che i primi siano in sé inattendibili o comunque meno attendibili degli altri (cfr. sent. 24 del 1992 della Corte costituzionale).
Andrebbero poi riproposte le censure di legittimità costituzionale della norma, per violazione dell'art. 24, primo e secondo comma, e 111 della Costituzione, per il pregiudizio dei diritti di difesa della parte civile, della stessa parità tra accusa e difesa nel dibattimento, se non addirittura dell’effettivo e concreto esercizio della giurisdizione penale … considerato che gli appartenenti alla polizia giudiziaria, proprio per il loro dovere di ricevere informazioni utili all'accertamento del reato e all'individuazione dei responsabili, sono normalmente, e per così dire funzionalmente, i testi dell'accusa, pubblica e privata (cfr. ordinanza Tribunale di Roma del 26 febbraio 1991, r.o. n. 290 del 1991, e sent. 24 del 1992 della Corte costituzionale). Illegittimità, si badi bene, che riguarderebbe anche il caso di sommarie informazioni assunte di iniziativa dalle persone che possono riferire circostanze utili ai fini delle indagini (art. 351 c.p.p.), e di ricezione di denunce querele ed istanze (art. 357 comma 2 lett. a c.p.p.), e peraltro già posta all’attenzione della Corte costituzionale (cfr. ord. Tribunale di Siracusa 12 giugno 2001), ma che in questa sede non appare rilevante, avendo il Pubblico Ministero esibito la delega in base alla quale il teste CICCHELLA provvide ad escutere le persone offese (cfr. verbale del 5.7.2001, pagina 6).
La Difesa, in seguito al rigetto dell’eccezione, chiedeva breve termine per depositare una memoria al fine di eccepire l’illegittimità costituzionale della norma, così come interpretata dal Tribunale.
All’odierno dibattimento il Difensore eccepiva l’illegittimità costituzionale dell’art. 195, comma 4, c.p.p. per violazione degli articoli 3 e 111, comma 4, della Costituzione, riportandosi alla memoria depositata. Il Difensore dell’imputato S. si associava.
Sotto il primo profilo la norma si esporrebbe a censura per violazione del canone della ragionevolezza, prestandosi ad un facile aggiramento attraverso un uso surrettizio della delega di indagine, e restando così in definitiva la sua applicazione soggetta soltanto a canoni temporali, in ragione della tempestività di intervento della delega di indagine.
Sotto il secondo profilo la norma si porrebbe in diretto contrasto con il principio del contraddittorio nella formazione della prova, consentendo attraverso la testimonianza indiretta di eludere il divieto di utilizzazione degli atti formatisi nella fase delle indagini preliminari.
Il Pubblico Ministero chiedeva il rigetto della questione per manifesta infondatezza, riportandosi alle osservazioni già svolte. La parte civile si rimetteva alla decisione del Tribunale.
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La questione come sopra prospettata è rilevante in questo processo, poiché il Pubblico Ministero non ha inteso rinunciare alle domande rivolte all’ufficiale di polizia giudiziaria in ordine a dichiarazioni da lui ricevute, e regolarmente verbalizzate nel corso delle indagini preliminari, da parte di persone informate sui fatti, citate in dibattimento come testimoni. Appare evidente dunque la rilevanza della questione nel presente giudizio, attenendo la stessa alle modalità ed all’estensione delle testimonianze degli ufficiali e degli agenti di polizia giudiziaria citati dalle parti nel presente procedimento.
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La questione va però dichiarata manifestamente infondata per le ragioni che seguono.
In relazione all’art. 111 della Costituzione, infatti, se è vero che la ratio del divieto di testimoniare risiede nell’evitare che attraverso la testimonianza indiretta sia aggirata la regola che consente di utilizzare le dichiarazioni rese dai soggetti indicati negli artt. 351 e 357 c.p.p. ai soli fini della credibilità del teste escusso in sede dibattimentale, attraverso il meccanismo delle contestazioni, è anche vero che appare del tutto ragionevole la limitazione del divieto di testimoniare alle sole attività della polizia giudiziaria cd. di iniziativa, laddove si consideri la maggiore garanzia delle attività delegate rappresentate dall’intervento del magistrato inquirente attraverso la delega. In questo ultimo caso, del resto, la ratio del divieto è comunque salvaguardata dall’applicabilità della disciplina della testimonianza indiretta, che consente sempre la citazione della fonte diretta, a pena di inutilizzabilità della dichiarazione de relato, garantendo altresì il rispetto del diritto dell’imputato di interrogare e fare interrogare le persone che rendono dichiarazioni a suo carico, come sancito nell’art. 111, comma 2, Cost..
Problema diverso è quello del valore delle dichiarazioni de relato rese dagli agenti ed ufficiali di polizia giudiziaria, in caso di contrasto con quelle rese direttamente in sede dibattimentale dal teste di riferimento, questione che però in questa sede appare irrilevante.
Come già osservato dalla Consulta nella sentenza n. 24 del 1992, poiché anche per l’ufficiale e l’agente di polizia giudiziaria vale la disciplina applicabile ai testimoni de relato, contenuta nei primi tre commi dell’art. 195 c.p.p., con la possibilità delle parti e quindi del Difensore dell’imputato di chiedere, e l’obbligo del giudice di disporre, la testimonianza della fonte diretta e, nel caso di irripetibilità, di produrre il verbale delle dichiarazioni, con tale disciplina viene garantito sia il rispetto del metodo orale, sia il diritto di difesa dell’imputato e poiché l’escussione del teste di polizia giudiziaria avviene attraverso l’esame ed il controesame dibattimentale, non risulta in alcun modo menomato il principio del contraddittorio e della parità delle parti introdotti dalla nuova formulazione dell’art. 111 Cost..
In secondo luogo non può nemmeno dirsi violato il diritto dell’imputato di interrogare o fare interrogare davanti al giudice le persone che rendono dichiarazioni a suo carico, previsto dall’art. 111, comma 2, Cost., atteso quanto già osservato con riferimento alla previsione generale per cui il giudice è tenuto a disporre la citazione del testimone diretto su richiesta di parte, a pena di inutilizzabilità della testimonianza indiretta.
Con specifico riferimento alla supposta violazione dell’art. 3 della Costituzione, poi, appare del tutto ragionevole la differenziazione tra l’ipotesi in cui l’ufficiale di polizia giudiziaria abbia assunto sommarie informazioni testimoniali di propria iniziativa e quella in cui invece abbia acquisito dichiarazioni testimoniali su delega del Pubblico Ministero, facendosi divieto nel primo caso, diversamente dal secondo, di testimoniare sul contenuto delle dichiarazioni stesse.
In dottrina è stato evidenziato come la limitazione del divieto alle sole attività di iniziativa della PG sia del tutto coerente con la norma in tema di incompatibilità a testimoniare di coloro che nel medesimo procedimento svolgano oppure abbiano svolto funzioni di Giudice, Pubblico Ministero o loro ausiliario (art. 197 lettera d) c.p.p.): quando opera su delega del magistrato inquirente, infatti, la polizia non è propriamente qualificabile come ausiliaria dell’autorità giudiziaria.
Il Tribunale ritiene poi del tutto infondata la censura della Difesa secondo cui la norma permetterebbe al Pubblico Ministero, attraverso la decisione di delegare o meno l’atto investigativo, di consentire indirettamente la testimonianza sul contenuto dello stesso all’ufficiale o agente di polizia giudiziaria.
Come più volte affermato dalla Corte costituzionale, il Pubblico Ministero è al pari del giudice, soggetto soltanto alla legge e si qualifica come "un magistrato appartenente all'ordine giudiziario collocato come tale in posizione di istituzionale indipendenza rispetto ad ogni altro potere", che "non fa valere interessi particolari ma agisce esclusivamente a tutela dell'interesse generale all'osservanza della legge" (sentenze nn. 190 del 1970, 96 del 1975, 88 del 1991 della Corte costituzionale).
A presidio dell'indipendenza del Pubblico Ministero è il principio di obbligatorietà dell'azione penale; in particolare il principio di legalità (art. 25, secondo comma), che rende doverosa la repressione delle condotte violatrici della legge penale, abbisogna, per la sua concretizzazione, della legalità nel procedere; e questa, in un sistema come il nostro, fondato sul principio di eguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge (in particolare, alla legge penale), non può essere salvaguardata che attraverso l'obbligatorietà dell'azione penale.
In altri termini il principio di obbligatorietà è punto di convergenza di un complesso di principi basilari del sistema costituzionale, talché il suo venir meno ne altererebbe l'assetto complessivo. Di conseguenza l'introduzione del nuovo modello processuale non lo ha scalfito, ne avrebbe potuto scalfirlo. Qui, anzi, l'esigenza di garantire l'indipendenza del P.M. è accentuata dalla concentrazione in capo a lui della potestà investigativa, radicalmente sottratta al giudice (sent. 88 del 1991 della Corte costituzionale).
Va però ricordato che il ruolo del P.M. non è quello di mero accusatore, ma pur sempre di organo di giustizia: egli è bensì parte, ma parte pubblica, che ha perciò il dovere di compiere ogni attività necessaria ai fini delle determinazioni inerenti all'esercizio dell'azione penale (sentt. 190 del 1991 e 97 del 1997 della Corte costituzionale).
Come titolare diretto ed esclusivo dell'attività d'indagine finalizzata all'esercizio (obbligatorio) dell'azione penale, ai sensi dell'art. 112 della Costituzione, il Pubblico Ministero rappresenta un potere dello Stato, avendo la competenza a dichiarare definitivamente la volontà del potere giudiziario cui appartiene (sentenze nn. 462, 463 e 464 del 1993 e 420 del 1995 della Corte costituzionale) e dunque la legittimazione a sollevare conflitti di attribuzione a norma dell’art. 37 della legge n. 87 del 1953.
Dunque, anche se il processo penale italiano è strutturato come tendenzialmente accusatorio e, nella fase dibattimentale, come vero e proprio processo di parti operanti sul medesimo piano, non si può ignorare che il Pubblico Ministero non fa valere interessi particolari ma agisce esclusivamente a tutela dell'interesse generale all'osservanza della legge (tra le tante, cfr. sent. 88 del 1991 e 111 del 1993 della Corte costituzionale), diversamente dal Difensore, il cui ruolo è quello di tutelare i diritti e gli interessi della persona, assicurando la conoscenza delle leggi e contribuendo in tal modo all'attuazione dell'ordinamento per i fini della giustizia avendo quale obbligo principale quello di difendere gli interessi della parte assistita nel miglior modo possibile nei limiti del mandato e nell'osservanza della legge e dei principi deontologici (cfr. codice deontologico forense, preambolo ed articolo 36).
Se questa è la posizione istituzionale del Pubblico Ministero ed il suo ruolo all’interno del procedimento penale, il timore di un uso surrettizio del potere di delegare alla polizia giudiziaria l’attività investigativa (realizzando così un "facile aggiramento" al divieto di utilizzazione atti investigativi; cfr. pag. 2 della memoria depositata dalla Difesa ed odierne deduzioni orali del Difensore) risulta del tutto inconciliabile con gli elementari principi di un moderno Stato di diritto.
Concludendo, allora, non sembra censurabile la norma nella parte in cui permette al Pubblico Ministero, attraverso la decisione di delegare o meno l’atto, di consentire indirettamente la testimonianza sul contenuto dello stesso all’ufficiale o agente di polizia giudiziaria, rientrando la scelta della delega nella piena prerogativa - costituzionalmente rilevante - dell’organo dell’accusa, e non certo dipendente da mere evenienze cronologiche e non comportando la deposizione de relato alcuna lesione del principio costituzionale del contraddittorio nella formazione della prova.
La questione di legittimità costituzionale dell’art. 195, comma 4, c.p.p. va rigettata, risultando manifestamente infondata.
P.Q.M.
Vista la legge 11.3.1953 n. 87,
ritenuta la rilevanza nel presente processo,
dichiara manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 195, comma 4, c.p.p., nell’attuale formulazione introdotta dalla legge n. 63/2001, nella parte in cui disciplina il divieto dell’ufficiale o dell’agente di polizia giudiziaria di riferire sulle dichiarazioni acquisite dai testimoni con le modalità di cui agli artt. 351 e 357 comma 2 lett. a), per contrasto con gli artt. 111 e 3 della Costituzione, per i motivi di cui in motivazione ed ordina procedersi oltre.
S. Angelo dei Lombardi, udienza del 21 novembre 2001
Il
Giudice monocratico
Dott. Ferdinando LIGNOLA