Pretura di Chiavari,
Sentenza 12 dicembre 2001 - 9 febbraio 2002

Non è responsabile di omicidio colposo il pediatra che, a fronte di una descrizione telefonica di sintomi "aspecifici" compiuta dalla genitrice della propria paziente, formuli una diagnosi e suggerisca delle terapie che si rivelino, ex post, inadeguate. Non risponde, del pari, del delitto ex art. 589 c.p. il medesimo sanitario che abbia omesso di visitare la paziente, allorché non sia raggiunta prova che il suo tempestivo intervento avrebbe, con elevata probabilità, evitato l'esito letale. (Nel caso di specie il giudice ha, da un lato, escluso - richiamato il principio giurisprudenziale che esige l'esistenza di una condotta gravemente colposa ai fini dell'affermazione della responsabilità per imperizia - la ricorrenza di un errore diagnostico grave nel contegno del sanitario che, a fronte della descrizione di sintomi generici quali il vomito ed il pallore della paziente, non aveva riconosciuto l'esistenza di una polmonite interstiziale a base virale; ha ritenuto, inoltre, il giudicante l'impossibilità di ravvisare un rapporto di derivazione causale tra l'omessa visita della paziente ed il decesso della medesima, considerata la dichiarazione resa dal consulente tecnico del pubblico ministero - il medico-legale che eseguì l'esame autoptico - secondo cui, pur in presenza di un sollecito intervento del pediatra, le probabilità di salvezza della degente "non erano alte").

Sent. N. 635
del 12.12.2001
N. R.G  20439/97
N. R.G.N.R.1306/95

 

SENTENZA A SEGUITO DI DIBATTIMENTO
(Art. 567 C. P. P.)

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REPUBBLICA   ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Pretore di CHIAVARI

Dott. Stefano Giaime GUIZZI

ha pronunciato la seguente

S E N T E N Z A

nel procedimento penale

NEI CONFRONTI DI

C. A. – nato a XXXXXXXXXXX il XXXXXXXXXX e residente a XXXXXXXXXXX Via XXXXXXXXXXXXX

LIBERO PRESENTE

I M P U T A T O

del reato di cui all’art. 589 I° co c.p. perché, il 12.05.95 in Lavagna, per colpa costituita da negligenza imprudenza e imperizia cagionava la morte della piccola X. X. nata il 13.09.92.

In particolare in qualità di medico pediatra, che seguiva, di fatto, sin dalla nascita la piccola X. X. (pur essendo la piccola iscritta formalmente con altro pediatra presso le strutture S.S.N.), essendo stato contattato telefonicamente in data 12.05.95 intorno alle ore 14 circa dalla mamma della piccola X. X., la quale, dopo avergli esposto i sintomi di malattia accusati dalla figlia sin dalle prime ore del mattino (in particolare, conati di vomito e rifiuto del cibo), gli richiedeva una visita domiciliare per formulare diagnosi e terapia, sottovalutava il caso, ometteva di procedere a una tempestiva visita della paziente, suggeriva telefonicamente prescrizioni terapeutiche inadeguate (digiuno sino all’indomani, ad eccezione di somministrazione di acqua, somministrazione di una fiale di “Cortigen” per via intramuscolare in caso di persistenza del vomito) e infine chiedeva di essere informato l’indomani sulle condizioni della paziente, talché, le condizioni della piccola X. X., in difetto di una tempestiva e corretta diagnosi e di un consequenziale tempestiva e adeguato intervento terapeutico, si aggravavano nel corso della giornata e la stessa, ricoverata con urgenza presso l’Ospedale di Lavagna, vi decedeva nella stessa giornata per acuta insufficienza respiratoria in soggetto affetto da polmonite interstiziale diffusa.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con decreto ritualmente notificato A. C. veniva citato a comparire innanzi al Pretore di Chiavari per rispondere del reato di cui in rubrica.

Svoltasi la fase degli atti introduttivi (che si esauriva anteriormente al 2/6/99, ciò che ha comportato – ex art. 219 D.Lvo. 51/98 - la perdurante applicazione delle norme relative al giudizio pretorile), nel corso della stessa si costituivano quali “parti civili” i genitori della piccola X. X., F. X. e M. G. R., nonché i nonni della medesima, P. R. e C. C..

Esauriti gli incombenti ex artt. 484 e 491 c.p.p., si faceva luogo, di seguito, alla dichiarazione di apertura del dibattimento, di talché – dopo che l’originario titolare dell’ufficio pretorile aveva provveduto a decidere sulle richieste di prova, formulate dalle parti a norma dell’art. 493 c.p.p. – si procedeva all’escussione di taluni dei testi indicati dal Pubblico Ministero.

Essendo mutato, tuttavia, medio tempore il giudice titolare del presente giudizio, i difensori dell’imputato formulavano istanza per la rinnovazione “effettiva” (e non, quindi, mediante semplice “lettura” effettuata a norma dell’art. 511 c.p.p.) degli atti dell’istruttoria dibattimentale.

Accolta tale istanza (in conformità a quanto affermato da Cass. S.U. 1/99), si procedeva all’escussione dei testi indicati dal Pubblico Ministero (L. P., Maurizio VENSI, F. X. e M. G. R.), ed all’esame dei consulenti tecnici Marco SALVI, Massimo LEVRATTI, Vincenzo JASONNI, Roberto MALCONTENTI e Bartolomeo BACIGALUPO (indicati, rispettivamente, i primi due dal Pubblico Ministero e dalla parte civile, gli altri tre dalla difesa dell’imputato).

Svoltosi, infine, l’esame dell’imputato, all’udienza del 12/12/01 le parti concludevano come da corrispondente verbale.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Ritiene questo Pretore che le risultanze istruttorie impongano l’adozione di sentenza assolutoria, da pronunciarsi – ancorché ai sensi della regola di giudizio ex art. 530 cpv. c.p.p. - secondo la formula “perché il fatto non costituisce reato”.

Lo svolgimento dell’istruttoria, infatti, non ha offerto adeguato riscontro all’ipotesi accusatoria, non essendo emersi elementi sufficienti per ritenere provato quel duplice addebito elevato a carico dell’imputato, nel quale è possibile in definitiva compendiare l’articolata (e per certi versi “proteiforme”) contestazione mossa nei suoi confronti.

Giova, invero, evidenziare – preliminarmente – come l’accusa formulata nei riguardi del C. sia quella - da un lato - di aver sottovalutato il caso clinico della piccola X. X., suggerendo (conseguentemente) alla madre della bimba delle prescrizioni terapeutiche rivelatesi inadeguate, nonché – dall’altro - di aver omesso una tempestiva visita della paziente, facendo mancare quel repentino (ed adeguato) intervento che avrebbe costituito (l’ulteriore) causa dell’aggravamento delle condizioni della piccina, sino all’esito fatale costituito dalla sua morte.

Le emergenze dibattimentali, tuttavia, hanno smentito tale assunto, non consentendo di ritenere provata né la “sottovalutazione” da parte del pediatra delle condizioni della bimba (ciò che induce ad escludere che il sanitario sia effettivamente incorso in quell’errore diagnostico suscettibile d’integrare quel profilo di “imperizia”, pure ipotizzato a suo carico dal Pubblico Ministero), né l’idoneità del suo omesso (tempestivo) intervento a cagionare il decesso della paziente.  

La carenza di prova, in altri termini, tanto sul carattere colposo della condotta commissiva osservata dell’imputato, quanto sull’efficienza causale del suo contegno omissivo, impongono la pronuncia di sentenza assolutoria in suo favore.

Ciò premesso, deve osservarsi che nessun dubbio può sussistere, invece, sulla circostanza che fosse proprio il C. – a dispetto di quanto dallo stesso sostenuto - il medico curante di X. X..

La circostanza, infatti, che la piccola fosse stata assegnata dalla competente azienda sanitaria locale ad un altro pediatra appare del tutto irrilevante, sol che si consideri che la bimba risultava, di fatto, affidata alle cure dell’odierno imputato, secondo quanto emerso dalle (conformi) deposizioni rese sul punto dalle testi M. G. R. e L. P..

La dichiarazione effettuata, a riguardo, dalla madre della bimba - secondo la quale, seppur “formalmente il medico di X. fosse il dottor A.”, la piccola “era seguita in realtà dal dottor C.” (già pediatra di T., l’altra figlia della R.) - è stata confermata anche dall’altra testimone.

La P. difatti, dopo essersi qualificata quale amica di famiglia dei coniugi X.-R. ed aver riferito di avere sovente accompagnato “dopo la nascita di X. (…) la Signora X. alle visite” mediche (atteso che la donna, nel portarsi in automobile presso lo studio del pediatra “non poteva badare ad entrambe” le sue figlie), ha riferito di essersi recata con la sua amica “dal dottor C. dieci o quindici volte all’incirca”.

Riconosciuto pertanto nell’odierno imputato il medico curante della bimba deceduta, nessun dubbio, del pari, può sussistere in ordine al fatto (pure negato dal C. nel corso dell’esame ex art. 503 c.p.p.) che il pediatra sia stato contattato telefonicamente in occasione degli avvenimenti che condussero alla morte della piccola.

Pienamente attendibile appare, sul punto, la testimonianza di M. G. R., la quale – oltre a riferire di aver cercato “di contattare telefonicamente il Dottor C., ma invano”, e ciò “già dalla mattina” di quel giorno fatale in cui la figlia sarebbe deceduta – ha soggiunto che “a casa (del pediatra) vi era la segreteria telefonica, mentre presso lo studio medico non rispondeva nessuno”, concludendo la propria deposizione dichiarando di essere riuscita “soltanto verso le 14:00, 14:15 circa (…) a contattare il medico”.

La ricostruzione dei fatti, tuttavia, offerta dalla madre della piccola paziente nel corso della deposizione testimoniale (e con essa le risultanze dell’esame ex art. 501 c.p.p. dei consulenti tecnici di parte), nell’evidenziare, in particolare, che la stessa ebbe a riferire al sanitario una sintomatologia delle condizioni in cui versava la figlia, assolutamente “aspecifica”, suggerisce la conclusione che nessuna “sottovalutazione” del caso clinico della bimba vi fu da parte del medico curante (ciò che porta ad escludere che possa essere mosso nei suoi confronti alcun addebito in termini di colpa circa le prescrizioni terapeutiche suggerite alla donna, risultando le quindi le stesse nient’affatto “inadeguate”, secondo quella che è stata – invece - la prospettazione accusatoria).

La R. ha dichiarato a questo Pretore di aver “chiesto al Dottor C. di venire a casa”, in quanto “preoccupata” da quello che ha definito come il “modo strano” con cui la figlia “aveva vomitato” (la teste, infatti, ha premesso – sempre nel riferire l’accaduto a questo giudicante – che la bimba, insonne lungo tutto l’arco della nottata anteriore al giorno del suo decesso, cominciò “a vomitare dalle otto – del mattino – in poi”, e ciò “più volte”, tanto da costringere la genitrice a “cambiarle gli indumenti da capo a piedi” ed “a somministrarle un cucchiaino di «Peridon»”).

La teste ha, inoltre, riferito di aver comunicato al pediatra che la piccola X. “era bianca”, precisando però al suo interlocutore che la stessa – almeno nel momento in cui si svolgeva il colloquio telefonico – “sembrava normale”.

La R., infine, ha affermato, sia di aver domandato al C. delucidazioni circa il trattamento fino a quel momento da lei praticato a beneficio della bimba (chiedendogli in particolare se avesse “fatto bene a somministrarle il «Peridon»”), sia di avere “descritto i sintomi di quella mattina, e dunque in particolare il fatto che la stessa aveva vomitato più volte e che aveva più volte richiesto dell’acqua da bere”, riferendogli inoltre circa l’assenza di febbre (“mia figlia in quel momento non aveva la febbre”, ella ha dichiarato), precisando conclusivamente a questo giudicante – quanto al proprio stato d’animo nel corso della colloquio con il pediatra – di essersi sentita “divisa in due”, essendo “da un lato in ansia ed agitata per quanto era accaduto”, ma dall’altro “tranquillizzata” per il fatto di vedere la propria “figlia, si molto bianca, ma tuttavia in condizioni che sembravano normali”.

Appare, dunque, evidente – alla luce delle risultanze istruttorie testé indicate - che la madre della piccola X. ebbe ad insistere, nel corso del colloquio telefonico con il C., su aspetti del quadro clinico della figlia (l’agitazione notturna, il vomito, il pallore, la febbre mattutina e la sopravvenuta – ma solo apparente – “normalità”) che ben difficilmente avrebbero potuto consentire al pediatra - stante anche il silenzio su di un sintomo che (come si vedrà più avanti) avrebbe potuto rivelarsi decisivo per una corretta diagnosi, e cioè quello della dispnea - di individuare quell’affezione respiratoria che costituì la causa del decesso della bimba, essendo la sua morte avvenuta (circa quattro ore dopo il colloquio con il medico) in ragione di polmonite interstiziale diffusa su – verosimile – base virale.

A fronte, invero, di così scarni e (soprattutto) generici dati, forniti dalla madre della piccola paziente, ben difficilmente avrebbero potuto essere diverse da quelle formulate, sia la diagnosi proposta dal C. (la R. ha riferito che il medesimo ebbe a fornirle “delle rassicurazioni”, dicendole esservi “in giro un virus per il quale non vi era motivo di allarmarsi”), che le prescrizioni dallo stesso impartite (“egli mi disse – ha riferito nuovamente la summenzionata testimone – di non dare da bere a mia figlia, se non somministrarle tre cucchiaini d’acqua ogni quarantacinque minuti”, nonché di “far digiunare la piccola X.”, dandole soltanto “del tè e dei biscottini”).

Come hanno, infatti, confermato anche le risultanze desumibili dall’esame dei consulenti tecnici di parte, soltanto una visita diretta della paziente, atteso il carattere particolarmente insidioso della patologia che colpì la piccola X. X. (ed il suo decorso singolarmente celere), avrebbe potuto consentire al pediatra di formulare una corretta diagnosi e di stabilire un’adeguata terapia, essendo evidente che il limitato (ed impreciso) quadro delle condizioni della bimba, fornito dalla genitrice, non avrebbe potuto permettere al medico di riconoscere la ricorrenza di una (così grave) affezione respiratoria. 

Per meglio illustrare le ragioni che hanno persuaso questo giudicante della necessità di accogliere siffatta conclusione, occorre riassumere quali siano state le emergenze degli esami condotti a norma dell’art. 501 c.p.p.

I consulenti di parte sono stati sostanzialmente concordi nell’individuare la causa della morte della piccola X. in una polmonite interstiziale diffusa con (probabile) origine virale.

Il Dott. Marco SALVI - il medico legale che eseguì l’esame autoptico e gli ulteriori conseguenti accertamenti sul corpo della piccola X. (escusso da questo giudicante su richiesta del Pubblico Ministero) – ha dichiarato che fu possibile formulare un’ipotesi sull’eziologia del decesso, non in base alle risultanze della sola sezione cadaverica (essendo emersi “un ispessimento pleurico della cavità toracica sinistra”, nonché un “versamento toracico siero-ematico”, cioè a dire segni di carattere “aspecifico”), bensì all’esito dell’analisi microscopica condotta “su frammenti degli organi prelevati”.

Il consulente della pubblica accusa ha, infatti, riferito che – eseguito tale ulteriore accertamento – “il quadro isto-morfologico polmonare evidenziava la presenza di una polmonite interstiziale diffusa”, atteso che “a livello subpleurico si rilevavano ampie aree atelettasiche, cioè a dire collassate, ed inoltre a livello interstiziale si rilevava la presenza di una pneumopatia dell’interstizio, cioè a dire ispessimento dei setti tra un alveolo polmonare e l’altro, ciò che era dovuto alla congestione ematica dei vasi presenti (…), sia alla fuoriuscita (…) di linfociti ” (cfr. verbale d’udienza del 24/5/00).

Conforme è stata la valutazione compiuta (tra le altre) dal consulente tecnico della difesa, Prof. Vincenzo JASONNI, il quale ha dichiarato che “l’autopsia dimostra che i polmoni” della bimba non erano “normali”, e ciò “anche all’aspetto macroscopico”, apparendo “soprattutto il polmone di sinistra (…) più compatto”, e cioè “non spugnoso e morbido come quello normale”, segno questo “di un esteso processo infiammatorio” (cfr. pag. 8 delle trascrizioni dell’esame compiuto all’udienza del 26/9/01).

Questi dati - unitamente al fatto che il tessuto polmonare “al taglio ed alla spremitura” ha rivelato la fuoriuscita di “schiuma mista a muco”, emergendo inoltre dall’esame istologico la presenza di un “enfisema compensatorio” conseguente al fatto che “vastissime zone” dell’organo respiratorio presentavano “una pneumopatia diffusa dell’interstizio” – ha portato anche il summenzionato consulente a confermare, pure in ragione dalla presenza di “linfociti” (connotato, questo, “tipico delle forme virali” delle polmonite), l’ipotesi formulata dal medico legale che eseguì l’esame autoptico sul cadavere di X. X., e cioè l’individuazione della causa del decesso in una polmonite interstiziale diffusa a (verosimile) base virale.

Sostanzialmente concordanti sono state, inoltre, le valutazioni dei consulenti di parte in relazione al decorso della patologia, caratterizzato da una “evoluzione assai rapida” secondo la stima fattane del SALVI (cfr. pagina 12 della relazione, acquisita ex art. 501 co. 2 c.p.p.), ovvero “quasi fulminante”, in base a quanto riferito dallo JASONNI, che ne trae in particolare conferma dall’assenza nella paziente di “una sintomatologia di tipo respiratorio”, mancando “la descrizione di episodi di tosse, neanche durante il vomito”.

Orbene, la valutazione di questo insieme di dati, ed in particolare di quello da ultimo indicato - e cioè il carattere “assolutamente atipico” (come lo ha definito lo JASONNI) dell’“esordio clinico” della patologia, atteso che l’assenza di dispnea rivela che lo stesso “non è stato a carico delle vie respiratorie – induce a ritenere esente da colpa il C. in relazione all’addebito elevato a suo carico sotto il profilo della “sottovalutazione” delle condizioni in cui versava la paziente.

Se è vero, infatti, che nelle polmoniti interstiziali a rapido decorso – quale si è accertato essere quella in esame – neppure l’esame radiografico è sempre rivelatore della presenza del morbo, atteso che “la lastra del torace” può anche dare solo qualche lievissimo reperto” (così il Prof. JASONNI, ma non diversamente anche il Dott. SALVI, secondo cui – cfr. pag. 18 delle trascrizioni relative all’esame del 26/9/01 – “è vero che, fino all’ultimo, la radiografia del torace può essere scarsamente significativa”), deve escludersi che l’odierno imputato potesse riconoscere la presenza di una così grave patologia alle vie respiratorie in base alla descrizione di sintomi assolutamente “aspecifici”, e più consoni evidentemente ad una comune affezione all’apparato gastrointestinale, quali quelli riferitigli dalla madre della piccola X..

Nessun addebito in termini di colpa, dunque, può essere mosso al C. in relazione a tale profilo del suo contegno, e ciò anche in adesione a quell’opzione ermeneutica - espressa da una cospicua parte della giurisprudenza di merito e di legittimità (alla quale anche questo Pretore reputa di dover aderire) - che ritiene indispensabile, nell’apprezzare le valutazioni diagnostiche e le scelte terapeutiche compiute dal sanitario, attribuire rilevanza penale unicamente a quelle che siano espressione di una “colpa grave”.

Non si tratta, infatti, soltanto di salvaguardare – aderendo a tale interpretazione - il principio dell’unità dell’ordinamento giuridico (che comunque per evitare discrasie consiglia, nella valutazione della responsabilità penale per prestazione d’opera professionale, di attenersi al medesimo criterio enunciato dall’art. 2236 c.c.), quanto piuttosto di prendere atto della necessità che nell’apprezzamento della colpa per imperizia (e dunque fondata sulla violazione delle c.d. leges artis), anche per evitare di interferire in scelte connotate da profili dotati spesso di elevata discrezionalità (e dunque di non intralciare oltre misura lo svolgimento di attività che, seppur intrinsecamente pericolose, risultano autorizzate giacché socialmente utili), venga dato rilievo unicamente a comportamenti gravemente colposi.

Di qui, pertanto, l’esigenza di sanzionare i (soli) casi di eventi pregiudizievoli (o addirittura letali) a carico dei pazienti derivanti da inescusabilità degli errori del medico o da ignoranza dei principi elementari attinenti all’esercizio dell’attività sanitaria (cfr. Cass. Sez. I : 11024/98; Cass. Sez. I : 11695/94; Cass. Sez. IV : 9410/87; nonché – tra le pronunce delle corti di merito Cort. App. Bari: 26/1/94; Trib. Roma: 30/4/1987 e soprattutto Trib. Roma: 6/4/84 che ravvisa responsabilità del medico nel caso in cui non percepisca un quadro clinico la cui gravità sia “facilmente riconoscibile”).

Un’evenienza siffatta non appare ipotizzabile nel caso di specie, non potendosi ravvisare un profilo di colpa grave nella (pretesa) “sottovalutazione” di sintomi descritti come “aspecifici”, ciò di cui, del resto, si è mostrato consapevole lo stesso consulente della pubblica accusa, il quale - non a caso - ha insistito nel sottolineare come la formulazione di una corretta diagnosi (e di un’adeguata terapia) sarebbe stata probabilmente possibile in virtù di una visita domiciliare della paziente, atteso che il medico “avrebbe ad esempio potuto rilevare una cianosi delle labbra, ovvero la presenza di una respirazione compiuta utilizzando muscoli accessori del torace, ovvero – e sempre ipoteticamente – una dilatazione delle pinne nasali”.

Appare, dunque, evidente – alla luce delle considerazioni da ultimo sviluppate - che il punto cruciale della valutazione del contegno osservato dal C. (o meglio della sua rilevanza penale, ai sensi ed agli effetti dell’art. 589 c.p.) sia rappresentato dalla necessità di apprezzare l’incidenza che la scelta effettuata dal pediatra, di non recarsi presso l’abitazione dei coniugi X.-R. (a dispetto dell’espressa richiesta di quest’ultima di una visita domiciliare della propria bambina) ha avuto rispetto alla verificazione del decesso della piccola X..

Ritiene a riguardo questo giudicante che, pur trattandosi nel caso di specie di dover valutare l’efficienza eziologica di una comportamento “omissivo”, si debba rifuggire dalla tentazione di ricorrere ad un modello di ricostruzione del nesso causale “alternativo” rispetto a quello utilizzato con riferimento alla condotte “commissive”, e cioè imperniato sull’impiego di un metodo di valutazione dei fatti (puramente) “ipotetico”, e non propriamente “controfattuale”.

Appare, per contro, indispensabile mantenere un approccio unitario nell’accertamento del nesso di causalità, al fine di evitare la “deriva” verso impostazioni concettuali (“un lungo viaggio verso il nulla”, secondo un arguta definizione dottrinaria) che - oscillando tra la tendenza a ritenere sufficienti valutazioni di “mera possibilità” (incompatibili con il rigore scientifico che deve connotare siffatto accertamento), e quella invece incline a valorizzare il criterio del c.d. “aumento del rischio” (che risulta, non solo privo di vero contenuto euristico, ma oltretutto più consono all’accertamento della c.d. “causalità psichica”, e cioè di quel nesso di derivazione tra colpa ed evento che, consentendo di ritenere quest’ultimo concretizzazione del rischio che l’osservanza della regola cautelare trasgredita mirava a scongiurare, permette di riconoscere la ricorrenza dell’elemento non materiale, ma soggettivo del reato) - finiscono con l’assecondare quel fenomeno di “volatilizzazione” del rapporto causale che è stato denunciato da parte della migliore dottrina.

Premesso, infatti, (come è stato acutamente osservato) che soltanto la fedeltà ad una (arcaica) concezione “antropomorfica” della causalità può portare a limitare l’impiego del “giudizio controffattuale” unicamente ai comportamenti “commissivi” (e ciò sul presupposto che essi esclusivamente implichino l’operare di forze naturali o energie materiali), si deve invece riconoscere che qualunque sia la morfologia di una condotta umana si è comunque in presenza di un “processo” (“dinamico”, se la stessa risulti di carattere “commissivo”, “statico”, se di tipo invece “omissivo”) idoneo a produrre una modificazione della realtà, l’efficienza eziologia del quale dovrà essere quindi sempre apprezzata alla stregua della teoria della condicio sine qua non, corretta secondo il metodo della “sussunzione sotto leggi scientifiche” (siano esse, non solo universali, ma anche statistiche).

Ne consegue pertanto che, se per ravvisare l’esistenza del nesso causale tra un dato comportamento omissivo ed un determinato evento è necessario – secondo i postulati della teoria della “causalità scientifica” -   formulare un giudizio di “elevata credibilità razionale” ovvero di “alta probabilità logica”, merita senz’altro condivisione quell’indirizzo seguito dalla più recente giurisprudenza di legittimità secondo cui “in tema di responsabilità medica, il rapporto di causalità deve essere accertato avvalendosi di una legge di copertura, scientifica o statistica, che consenta di ritenere che la condotta omissiva, con una probabilità vicina alla  certezza,  sia stata causa di un determinato evento” (cfr. Cass. Sez. IV : 14006/01, ma si vedano pure Cass. Sez. IV : 1126/00 e Cass. Sez. IV : 10437/93, nella quale in particolare si ribadisce la necessità “che l’esistenza del nesso causale venga riscontrata con sufficiente grado di certezza, se non assoluta, … almeno con un grado tale da fondare su basi solide un’affermazione di responsabilità, non essendo sufficiente a tal fine un giudizio di mera verosimiglianza”).

Alla luce, pertanto, di tali principi deve escludersi che sia stata provata l’esistenza di qualsiasi nesso di derivazione eziologica tra la “omessa tempestiva visita della paziente” (secondo l’ipotesi accusatoria) ed il decesso della medesima, e ciò alla luce delle stesse risultanze dell’esame del consulente tecnico del pubblico ministero.

Il Dott. SALVI, infatti, dopo aver premesso (cfr. pag. 16 e 17 della trascrizione dell’esame effettuato in data 26/9/01) che l’affezione respiratoria dalla quale fu colpita X. X. rientra tra le “patologie gravate da un’alta mortalità”, e che la stessa risultava, nel caso di specie, “in uno stato ormai avanzato”, ha soggiunto che per una bimba “di tre anni, con una polmonite ormai avanzata a quel livello – come da quel medesimo consulente rilevato in sede di esame autoptico – le probabilità di salvarsi non sono alte”, e ciò pur in presenza di una sollecita visita del medico curante.

Di fronte, pertanto, ad una simile constatazione, irrilevante appare ai fini dell’affermazione della responsabilità penale del C. – ed in difetto di prova che un suo pronto intervento avrebbe, quantomeno, offerto “serie ed apprezzabili possibilità di successo” (cfr. Cass. Sez. IV : 8148/90; Cass. Sez. IV : 11484/90) – la (invero lapalissiana) constatazione del SALVI che quella di cui fu vittima la piccola X. “è sicuramente una patologia con un alta mortalità”, che “diventa del 100 % se lasciata a se stessa”.

Tutto ciò premesso e considerato (e rilevato che la particolare complessità delle questioni trattate nella presente sentenza ha richiesto il ricorso ad un termine di sessanta giorni, ex art. 544 co. 3 c.p.p., per la stesura della sua motivazione),

P. Q. M.

Il Pretore,

visto l’art. 530 co II° c.p.p.

ASSOLVE

C. A. dal reato a lui ascritto perché il fatto non costituisce reato.

Giorni 60 per il deposito.

Chiavari, 12.12.2001

Il Pretore
Dr. Stefano Giaime GUIZZI

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