Tribunale di Palermo, Sezione per il Riesame,
Ordinanza 24 gennaio 2001

TRIBUNALE DI PALERMO

Sezione per il riesame dei provvedimenti

restrittivi della libertà personale

e dei provvedimenti di sequestro

Il Tribunale, sezione unica per il riesame, composto dai signori:

Dott. Giuseppe Rizzo

                                Presidente

Dott. Fabio Taormina

                                    Giudice

Dott. Giovanni Tulumello

                                    Giudice rel. est.

vista l’istanza proposta, ai sensi dell’art.. 309 cod. proc. pen., nell’interesse di  C. G.

 

nato a Palermo

il 29 dicembre 1961

 

avverso l’ordinanza emessa il 3 gennaio 2001 dal Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Palermo, con cui è stata applicata al predetto indagato la misura cautelare della custodia in carcere;

 

uditi all’udienza camerale del 24 gennaio 2001 il giudice relatore, il Pubblico Ministero e il difensore dell’indagato

sciogliendo la riserva assunta all’esito della discussione;

esaminati gli atti ritualmente inviati dall’A.G. procedente;

ritenuta l’ammissibilità del gravame;

ha emesso la seguente

ORDINANZA

Con l’ordinanza impugnata il Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Palermo applicava agli odierni richiedenti la misura cautelare personale della custodia in carcere in presenza di gravi indizi di colpevolezza del delitto di cui agli artt. 110, 416-bis cod. pen., per avere contribuito alle finalità dell’associazione per delinquere di tipo mafioso denominata “Cosa Nostra”, ed in particolare delle famiglie mafiose del mandamento di P. N.

Ritiene il collegio che la verifica -  sul piano della sussistenza a carico degli odierni istanti del requisito del fumus commissi delicti - della prospettazione accusatoria accolta dall’impugnato provvedimento del Giudice per le indagini preliminari debba essere preceduta dalla individuazione dei canoni legali di valutazione del materiale probatorio in atti nella prospettiva della coercizione personale per fini di cautela processuale.

            Sotto tale profilo mette conto rilevare che la differenza fra la valutazione gravemente indiziante richiesta ai fini dell’applicazione di una misura cautelare, e la valenza probatoria dell’indizio, quale probatio minor, sul terreno della dimostrazione processuale della penale responsabilità dell’imputato, è stata oggetto di una ricca elaborazione giurisprudenziale,  nel cui ambito si colloca la sentenza della Corte di Cassazione, 12 agosto - 18 agosto 1993, Alberino  che così ha stabilito:

“L’indizio richiesto dall’art. 273 c.p.p. ai fini dell’adozione di misura cautelare non coincide con quello di cui all’art. 192, comma secondo, stesso codice, che indica i criteri di valutazione della prova logica indiziaria, in quanto la prima di tali disposizioni non richiede anche l’univocità e la convergenza dei dati indizianti, bensì soltanto la gravità di essi. Il concetto di gravità dell’indizio non può identificarsi con quello di sufficienza da cui si distingue sia qualitativamente, sia quantitativamente in quanto postula l’obiettiva precisione dei singoli elementi indizianti che, nel loro complesso, debbono essere, per la loro convergenza, tali da consentire di pervenire a un giudizio che, pur senza raggiungere il grado di certezza richiesto per la condanna, sia di alta probabilità dell’attribuibilità del reato all’indagato”.

            La giurisprudenza ha altresì precisato l’autosufficienza, nella prospettiva del fumus commissi delicti di cui all’art. 273 cod. proc. pen., anche di un solo elemento, purché espressivo di un’alta attribuibilità del fatto all’indagato.

Date le superiori premesse in diritto, mette conto anzitutto precisare che la contestazione mossa nello specifico al C. è quella di aver contribuito alle finalità dell’organizzazione mafiosa attraverso la predeterminazione della scelta del contraente e del  prezzo in relazione alla fornitura del carburante alla societa S.  per il catamarano in servizio fra Palermo e Napoli.

La tesi d’accusa è che all’accordo per le forniture si sia giunti grazie all’intermediazione di esponenti della famiglia mafiosa di P. N., alla quale sarebbe andato parte del maggior profitto in tal modo ricavato, con corrispondente danno per la S. 

Dalle risultanze in atti si ricava che la fornitura in esame, nel periodo consierato, è stata inizialmente oggetto di una disputa concorrenziale, fisiologica in un regime di libero mercato, fra la N. O. CO. (impresa riconducibile a C. G. A. S., padre dell’odierno richiedente), e la C. P. (impresa riconducibile a G. C.).

Preliminarmente, per sgombrare il campo da possibili imprecisioni, mette conto rilevare che il contributo concorsuale ascritto a carico di G. C. non discende dal suo diretto ruolo imprenditoriale, essendo egli amministratore della N. s.r.l., società risultata estranea alle forniture in questione.

Peraltro, al di là del rilevato dato formale, è emerso inequivocabilmente come egli fosse di fatto cointeressato alla N. O. Co., riconducibile formalmente al padre, dal momento che, come meglio si chiarirà in seguito, si è personalmente e direttamente interessato perché la N. O. Co. si aggiudicasse la fornitura di carburante.

  In data 23 giugno 2000 A. S. D. S., consulente della S. competente per il settore tecnico, dopo aver ripercorso analiticamente le vicende relative alla fornitura del carburante per il catamarano, dichiarava che la concorrenza fra le due imprese (la N. O. Co. e la C. P.) si era per un certo periodo manifestata in forma di offerte al ribasso.

Successivamente, si verificò un mutamento delle condizioni di mercato: il carburante veniva fornito dalla C. P., attraverso una bettolina di proprietà della N., con un significativo rialzo del prezzo della fornitura.

Nel periodo in questione si collocano due risultanze investigativo di particolare interesse, se poste in relazione di inferenza logica con quanto dichiarato da S. D. S. circa il mutamento delle condizioni di mercato.

Il 1° aprile 1999 viene intercettato un colloqui fra i due esponenti della famiglia mafiosa di P. N. G. B. e V. B. (padre del primo).

            In tale colloquio, che contiene espliciti riferimenti a “C.”, si parla chiaramente della concorrenza fra le due ditte per la fornitura del carburante, ed allo stato attuale della questione, che imponendo alle ditte delle offerte al ribasso impedisce di ricavare un utile da versare alla famiglia mafiosa (“dice si stanno ammazzando....certo a lui ci viene allo scendere, perché lui, a te soldi, a me soldi non me ne da nessuno e lui già nel ribasso quelli glieli considera e ce li leva, minchia. E. vero cretino è? Ma vero non è arrivato...........”).

In un successivo passo dello stesso colloquio viene esplicitamente teorizzato il ruolo arbitrale di “Cosa Nostra”, la cui funzione è quella di “far discutere” i due imprenditori concorrenti  allo scopo di lucrare dal maggior prezzo della fornitura un profitto illecito (“tu devi fare solo la parte di quello che  anzi la deve fare più caro il prodotto, così se la prende quello più mercato, ma più mercato che deve uscire pure il (inc.) nostro, siccome lui non, non è che sanno discutere, non sanno discutere, non sanno discutere (....) devo intervenire io”).

Il 7 aprile 1999, dunque pochi giorni il colloquio ora esaminato, alle ore 18.28 è stata intercettata una conversazione telefonica intercorsa fra l’utenza 0335/XXXXXXX, intestata a C. G. (fratello di G., odierno richiedente) con recapito fattura presso la N. s.r.l. (società di G., odierno richiedente), e l’utenza 0335/XXXXXXX, intestata ed in uso a G. B.     

I due interlocutori, “M.” (che all’evidenza non può che essere G. B., dal momento che usa il telefono intestato al predetto) e “G.”            (che assai verosimilmente è G. C., dal momento che utilizza l’utenza intestata al fratello G. e pagata dalla N. s.r.l. di G. C.), si accordano circa una riunione cui devono partecipare all’interno dell’area portuale insieme ad un certo C.

Orbene, una valutazione unitaria delle superiori risultanze conduce alla conclusione che quest’ultima riunione è quella in cui i C. (G. e suo padre) e C. G. hanno stabilito l’intesa monopolistica, mediata da G. B. per conto della famiglia mafiosa di “Cosa Nostra”, da cui è in fatto scaturito un danno per la S. ed un contributo all’organizzazione mafiosa, garante dell’intesa medesima.

Del resto, è altamente sintomatico che da una fase di offerte al ribasso si sia passati ad una fase di fornitura in regime di monopolio curata dai due unici concorrenti: la ricostruzione in fatto della tesi d’accusa trova dunque negli atti significativi riscontri, anche se la sommarietà della cognizione tipica della fase cautelare non ha allo stato consentito di approfondire temi di indagine che, nella prospettiva ricostruttiva accolta, possono arrecare ulteriori contributi conoscitivi.

Un reale elemento di alterazione e distorsione delle condizioni strutturali del mercato è risultato infatti essere costituito dalla applicazione differita dell’ordinanza della Capitaneria di Porto relativa alle modalità di rifornimento, comunicata alla S. dall’agente P. B. due anni dopo l’emissione dell’ordinanza medesima: come si ricava anche dalla dichiarazioni rese da A. S. D. S., è stato questo tipo di mutamento strutturale che ha posto le precondizioni per il superamento della precedente situazione di effettiva concorrenza, che si giocava anche ul terreno della maggiore o minore onerosità delle modalità del rifornimento del carburante (mediante autobotti ovvero direttamente presso i depositi)  

Occorre tenere conto che neppure gli indagati negli interrogatori resi al Giudice per le indagini preliminari hanno negato - nella loro materialità -  i rilevati contatti, sia pur imputandoli ad improbabili causali.

Invero, se si valuta l’obiettivo tenore delle conversazioni intercettate, e lo si pone in relazione di inferenza logica con le altalenanti vicende della fornitura di carburante siccome documentate dal responsabile della S., si rileva una perfetta rispondenza fattuale nel passaggio dal regime concorrenziale a quello monopolisti, con aggravio dei costi, in corrispondenza della determinazione “arbitrale” del B. immediatamente seguita dalla riunione con i due imprenditori.

A fronti di tali chiare ed univoche risultanze appare del tutto forzata l’affermazione difensiva per cui G. C. avrebbe avuto contatti con il B. perché entrambi genitori di ragazzi frequentanti il medesimo istituto scolastico: basta leggere il tenore della conversazione del 7 aprile 1999 per comprendere che i due stanno parlando dell’organizzazione dell’incontro con tale “C.”, nome che corrisponde a quello dell’imprenditore concorrente.

I fatti come sopra descritti  si sostanziano, dunque, in una intesa monopolistica fra due imprenditori, la cui rilevanza penale è costituita dal carattere trilaterale dell’accordo, che a differenza delle normali intese anticoncorrenziali si caratterizza per la presenza di un terzo soggetto, l’organizzazione mafiosa, con funzioni di garanzia della stabilità del patto (grazie alla forza di intimidazione sul territorio), esercitate naturalmente a titolo oneroso, vale a dire dietro contribuzione alle finalità dell’organizzazione medesima (altrimenti impedita dai ridotti margini di guadagno dovuti ai ribassi imposti agli imprenditori dal regime concorrenziale).

Come dimostrano le esaminate risultanze, G. C. ha aderito a questo patto, adoperandosi per organizzare l’incontro con C. G. e con G. B., ed operando dunque per conto dell’impresa formalmente riconducibile al padre.

Può dirsi, quindi, che appaiono perfettamente soddisfatte le condizioni che la giurisprudenza di merito e legittimità pone in tema di verifica dell’elemento di cui all’art. 273 cod. proc. pen., ritenendo il collegio che sussistano  allo stato degli atti i gravi indizi di colpevolezza a carico dell’istante, desumibili  dalle risultanze delle indagini di polizia giudiziaria, laddove si consideri l’univocità della condotta tenuta dagli indagati.

            In punto di diritto può  e deve rilevarsi che il grado di compenetrazione mafiosa delle condotte agevolatrici può venire in rilievo, sotto molteplici angoli visuali, attraverso i quali, può dirsi, l’ordinamento giuridico “gradua” la riconducibilità di un comportamento  ad una fattispecie associativa: l’art. 7 del d.l. 152/91 e la figura del concorso esterno nel delitto di cui all’art. 416-bis cod. pen. sono le altre “facce” del delitto associativo previsto dalla disposizione incriminatrice da ultimo citata.

            Spesso ci si è interrogati, in dottrina ed in giurisprudenza, sui rapporti tra dette figure al fine di delimitarsene reciprocamente l’ambito applicativo.

            Già la  sentenza delle SS.UU. 5 ottobre 1994, Demitry, nel censurare la tesi per cui la pretesa inammissibilità del concorso esterno si argomenterebbe dall’esistenza nel sistema della disposizione di cui all’art. 7 d.l. cit., nel senso che sarebbe stato superfluo emanare tale disposizione qualora l’ordinamento avesse consentito la possibilità di ipotizzare il concorso eventuale dell’estraneo nel reato di associazione per delinquere di tipo mafioso,  precisava che altro è l’ambito di operatività della figura del concorso esterno ed altro quello dell’aggravante in esame, nel senso che il contributo dell’extraneus che agevola le finalità non essenziali dell’associazione va qualificato come semplice delitto aggravato, mentre se tale contributo attiene  a settori ed attività di vitale importanza per l’associazione stessa, “e l’esterno sa di questo ‘valore’ del suo contributo e lo presta con questa consapevolezza, anche se per suoi fini personali, cioè anche senza dolo specifico, è da escludere che ci si trovi dinanzi ad un semplice esecutore di un delitto meritevole soltanto di un aggravamento di pena, ché quel contributo, anche in questo caso, altro non è che l’azione atipica che consente la realizzazione dell’azione tipica, che contribuisce in altri termini, alla stabilità del vincolo associativo e al perseguimento degli scopi dell’associazione”.

            Nel caso de quo, è di palese evidenza – per quanto argomentato – che il C., per perseguire un maggiore utile imprenditoriale, si è consapevolmente rivolto alla funzione mediatrice di “Cosa Nostra”: e dalle esaminate risultanze si ricava che quel “deve uscire pure il nostro” affermato dal B. nel colloquio del 1° aprile 1999 non è rimasta una aspirazione, ma si è effettivamente tradotto in un aumento del prezzo della fornitura, il che lascia ritenere altamente probabile che il maggior costo patito dalla S. sia servito proprio a finanziare “Cosa Nostra”, con la necessaria mediazione degli imprenditori coinvolti fra i quali - secondo il titolo concorsuale sopra specificato - l’odierno richiedente G. C.. 

            In questo senso l’odierno indagato ha contribuito al controllo del territorio e delle attività economiche esercitato da “Cosa Nostra”, mettendo la propria funzione imprenditoriale al servizio dell’organizzazione mediante l’adesione all’intesa monopolistica, strumento rivelatosi necessario perché una attività economica come la fornitura di carburante nel porto di Palermo potesse - come tutte le attività economiche soggette al controllo territoriale di “Cosa Nostra” - produrre una parte di utili da destinare all’associazione mafiosa.

            In tal modo l’intesa anti-concorrenziale, priva in sè di rilevanza penale, diviene strumento ed oggetto del contributo concorsuale atipico che l’imprenditore extraneus all’organizzazione criminale arreca agli interessi strategici di quest’ultima.

         E’ appena il caso di precisare, poi, che la giurisprudenza ha tracciato con chiarezza e lucidità i contorni del concorso esterno dell’imprenditore nel reato di associazione per delinquere di tipo mafioso, rilevando come il criterio discretivo fra la figura dell’imprenditore che consapevolmente coopera con le finalità dell’associazione e quello che risulta invece vittima della forza intimidatrice del vicolo associativo risiede nella “ineluttabile coartazione” di cui, nel secondo caso, il soggetto sia stato vittima (Cass., sez. I, 5 gennaio 1999, P.M. in proc. Cabib).

            L’applicazione del richiamato criterio al caso di specie impone di escludere, alla stregua delle risultanze in atti, un possibile ruolo passivo del C. nella vicenda, ed in particolare che lo stesso possa essere stato vittima di una coartazione ineluttabile. 

         Del tutto dirimente appare, sotto il profilo dei pericula libertatis, la presunzione legale di pericolosità sociale, in relazione al titolo di reato, e la conseguente regola di valutazione legale di adeguatezza e proporzionalità della misura cautelare in atto, di cui al terzo comma dell’art. 275 c.p.p.,  che nel caso all’esame di questo collegio non può essere vinta, non essendovi in atti “elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari” (Cass., sez. I, 19 maggio - 29 luglio 1993, Rizza).

            In proposito va richiamato il costante orientamento giurisprudenziale che afferma la necessità di una rigorosa dimostrazione della  sussistenza  di  elementi  atti  a superare la presunzione  di  pericolosita` nei  delitti  di  stampo mafioso (Cass., sez. I, 8 febbraio 1995, Bonventre,  m.  201598; Cass., sez. II, c.c. 7 marzo-3 luglio 1997, p.m.. in proc. Capoluongo).

            Come si evince dagli atti allegati a sostegno della richiesta del Pubblico Ministero, l’organizzazione mafiosa cui appartiene l’odierno indagato ha continuato ad operare fino all’attualità con i metodi tipici del sodalizio associativo sopra qualificato, attuando un controllo del territorio ed una cura dei propri interessi illeciti attraverso gli strumenti della violenza, dell’intimidazione e della fuga dei propri associati (per sottrarsi alle investigazioni ed alle sanzioni penali) senza soluzione di continuità, il che attribuisce un carattere di particolare concretezza ed attualità al giudizio prognostico formulato.

         Le surriferite considerazioni determinano pertanto la conferma del provvedimento impugnato.

            Segue di diritto la condanna al pagamento delle spese del presente procedimento.

P.Q.M.

 

Visti gli artt. 127, 273, 274, 275, 280, 309 cod. proc. pen.;

conferma l’ordinanza in epigrafe indicata;

condanna l’istante al pagamento delle spese della presente fase del procedimento;

manda alla cancelleria per gli adempimenti di rito, e per la comunicazione di cui all’art. 94, comma 1-ter, disp. att. cod. proc. pen.

Così deciso in Palermo, nella camera di consiglio del 24 gennaio 2001

Il Giudice estensore                                                                   Il Presidente

[torna alla primapagina]