Tribunale di Torre Annunziata, Sezione II Penale, in composizione monocratica,
Sentenza 30 ottobre 2000

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con decreto emesso in data 16/9/96, il Pubblico Ministero citava a giudizio, dinanzi all'allora Pretore di Pompei, XXX in ordine al reato in epigrafe indicato.
All'udienza del 25/6/98, la Difesa dell'imputato eccepiva la nullità del decreto di citazione a giudizio per insufficienza dell'indicazione della data del commesso reato, individuata genericamente nel "mese di maggio 1996".
Il Giudicante, accogliendo la censura suesposta, dichiarava la nullità del Decreto e disponeva trasmettersi gli atti al P.M. per l'emissione di un nuovo decreto.
Contro tale ordinanza proponeva ricorso per Cassazione il Pubblico Ministero, lamentando l'erroneità del pronunciamento del Giudice nella parte in cui, non considerando il carattere accessorio dell'indicazione della data rispetto all'esposizione del fatto contestato, aveva considerato l'insufficienza di tale requisito quale causa di nullità del decreto.
Sul gravame proposto si pronunciava la Suprema Corte in data 21/1/99 accogliendo il ricorso del P.M. e, per l'effetto, annullando senza rinvio l'impugnata ordinanza, con trasmissione degli atti alla Pretura circondariale di Torre Annunziata.
A seguito dell'entrata in vigore del D.Lgs. n°51/98, veniva emesso atto rinnovativo della citazione a giudizio per l'odierna udienza dinanzi a questo Giudice monocratico del Tribunale di Torre Annunziata, divenuto ex lege competente alla cognizione del presente procedimento.
All'odierna udienza, nella fase degli atti preliminari, dopo la verifica della regolare costituzione delle parti, si costituiva parte civile, a mezzo del suo procuratore speciale, la sig.ra YYY, indicata nel decreto di citazione come persona offesa dal reato.
Sulla costituzione di parte civile proponeva opposizione la Difesa dell'imputato. L'eccezione veniva rigettata da questo Giudicante con ordinanza dettata a verbale (cui si fa rinvio).
La Difesa del XXX riproponeva la censura di nullità del decreto di citazione per violazione dell'art. 552, comma I lett. c), c.p.p. per genericità dell'esposizione del fatto ascritto all'imputato con riferimento all'indicazione della data del commesso reato.
L'eccezione de qua veniva rigettata con ordinanza di questo Giudice. In proposito, vale solo la pena di aggiungere a quanto ritenuto in quel pronunciamento (cui si fa rinvio) che, ai fini dell'osservanza di quanto richiesto dalla norma surrichiamata, è sufficiente che il fatto sia contestato in modo da consentire la difesa in relazione ad ogni elemento di accusa (cfr. Cass., sez. I, 22/11/94). In tale ambito è sicuramente da condividere l'indirizzo della Corte regolatrice secondo cui la data del commesso reato costituisce solo un elemento accessorio del fatto che non incide sul requisito della enunciazione del medesimo e non può, quindi, determinarne la mancanza o l'incompletezza (Cass., sez. I, 19/10/93). In altri termini, la mancanza della data può influire sull'esercizio della difesa solo quando sia assolutamente impossibile collocare nel tempo l'episodio criminoso contestato. Tale cosa non può dirsi ricorrente nella specie, potendosi ritenere sicuramente sufficiente - ai fini di una piena difesa - la specifica enunciazione del fatto accompagnata dal riferimento al mese ed all'anno in cui lo stesso sarebbe stato commesso.
All'esito, dichiarata l'apertura del dibattimento e letti capi d'imputazione, sulle richieste istruttorie avanzate dalle parti venivano ammessi in conformità i mezzi istruttori.
Si procedeva, dunque, all'escussione dei testi YYY e VM. Veniva, poi, revocata l'ordinanza ammissiva di prova con riferimento agli altri testi richiesti dal Pubblico Ministero ritenuta la superfluità della loro escussione e risultando il processo sufficientemente istruito. Infine l'imputato rendeva spontanee dichiarazioni.
Dichiarata chiusa l'istruttoria dibattimentale e l'utilizzabilità di tutti gli atti contenuti nel fascicolo del dibattimento, il P.M. e la Difesa rassegnavano le rispettive conclusioni riportate in epigrafe.
L'espletata istruttoria dibattimentale ha permesso di ricostruire in punto di fatto la vicenda sottoposta all'esame di questo Giudice, sì da confermare l'ipotesi accusatoria formulata dall'Ufficio del Pubblico Ministero.
Invero, i testi escussi hanno in maniera concorde e credibile ricostruito l'episodio descritto nel capo d'imputazione.
In particolare, la YYY ha dichiarato che nel mese di maggio del 1996, in un giorno che la stessa non è stata in grado di precisare, nel mentre il marito era intento a caricare un pacco sulla sua autovettura, venivano raggiunti dinanzi all'ingresso del palazzo da XXX, proprietario dell'appartamento che all'epoca conducevano in locazione.
La signora YYY ha precisato che i rapporti con il XXX erano molto conflittuali ed il livore tra di loro si era manifestato anche in quella occasione allorquando, a detta del teste, l'imputato alla presenza sua, del marito JJJ e di alcuni operai, si sbottonò i pantaloni mostrando gli organi genitali. Su domanda della Difesa dell'imputato, la teste ha dichiarato che in quell'occasione il XXX non le rivolse gli epiteti "zoccola e puttana", cosa che aveva invece fatto in una precedente occasione.
L'altro teste escusso, V.M. (il quale ha precisato di non essere parente dell'imputato), ha dichiarato che, in quell'occasione, si era recato dinanzi all'abitazione dell'JJJ, per accertare le ragioni del suo ritardo, dal momento che questi - impegnato in lavori di ristrutturazione del suo appartamento - era sempre arrivato in precedenza verso le 8:00 del mattino.
Giunto dinanzi al palazzo dove risiedeva l'JJJ, e rimanendo ad una distanza di tre o quattro metri dall'imputato, aveva modo di sentire i presenti litigare tra loro e di vedere chiaramente in questo contesto il XXX mostrare i genitali dinanzi alla signora YYY, al sopraccitato JJJ, al figlio di questi (tale Costantino) e ad un operaio della ditta di JJJ. Il teste, dichiarandosi disgustato dalla scena, si era subito allontanato.
Il teste V.M: ha affermato di aver sentito le persone presenti indirizzarsi reciprocamente frasi ingiuriose ed, in particolare, di aver sentito l'imputato appellare la YYY con gli epiteti "zoccola e puttana".
Decisamente contrastante con questa esposizione dei fatti è stata, infine, la dichiarazione resa dall'imputato che, oltre ad aver recisamente negato l'addebito, ha aggiunto di aver avuto nei confronti della signora YYY e del marito un atteggiamento quasi paterno.
Orbene, così ricostruiti i fatti, va preliminarmente compiuta un'attenta analisi sulle testimonianze rese al fine di apprezzarne, ancor prima della loro attendibilità oggettiva, la credibilità soggettiva di chi le ha rese.
Tale esigenza si pone, più in particolare, per la teste YYY. Contrariamente a quanto affermato nel decreto di citazione a giudizio, questa non può essere qualificata (per le ragioni che di qui a poco si esporranno) persona offesa dal reato; tuttavia, la valutazione della sua credibilità va comunque condotta con maggiore rigore. Infatti, per le circostanze emerse in dibattimento e per il tenore dell'esposizione dei fatti in sede di testimonianza non può affermarsi che la YYY sia "soggetto indifferente" alla vicenda.
Tale premessa assolutamente non sottende ad una volontà di procedere ad una analisi di sociologia processuale sulla presunta terzietà del teste, ritenendosi che tale tema sia più compiutamente e propriamente trattato in sedi diverse dalla presente sentenza.
Tuttavia, a questo Giudicante è apparso evidente durante l'esame della teste che la stessa, pur a distanza di anni, serbasse nei confronti dell'imputato un risentimento ancora acuto e comunque travalicante l'episodio in questione. In più di una occasione, infatti, è stato necessario richiamare la signora al fine di mantenere l'esposizione dei fatti nell'ambito della vicenda processuale, evitando divagazioni inerenti al pessimo rapporto contrattuale di locazione che la legava al XXX e che ha costituito l'occasione e la causa del fatto delittuoso.
Tuttavia, lo stato di agitazione e la non perfetta focalizzazione di alcuni elementi di contorno non ha impedito alla teste, a parere di questo Giudice, di fornire una ricostruzione attendibile del fatto in contestazione.
Perciò, il vaglio di credibilità sulla stessa condotto ha tenuto sì conto degli aspetti suesposti (i quali, se esasperati, avrebbero sicuramente inficiato anche il contenuto della testimonianza), ma l'esito cui si è giunti è stato quello della affermazione di credibilità della teste, quanto meno rispetto al nucleo fondamentale della vicenda, nonostante la stessa sia risultata un personaggio conflittualmente orientato vero l'imputato.
Del resto, la ricostruzione dell'episodio offerta dalla YYY ha trovato piena rispondenza nell'esposizione fatta dall'altro teste V.M..
Questi ha dichiarato di conoscere l'imputato e di considerarlo un amico ed una brava persona. Ciò contribuisce a manifestare un atteggiamento di serenità del teste nei confronti del XXX che fa da necessario "contraltare" allo stato d'animo della YYY e che ha rappresentato per questo Giudice indispensabile punto di riferimento per il conseguente giudizio sull'attendibilità oggettiva delle dichiarazioni della prima teste.
Il teste ha confermato di aver visto la medesima scena descritta dalla YYY e, cioè, l'imputato che - sbottonatosi i pantaloni - mostrava in pubblico i suoi organi genitali.
Questa unica circostanza rileva ai fini della configurabilità del sostrato materiale del reato contestato. Il contesto nel quale il comportamento dell'imputato s'inquadra non appare particolarmente significativo atteso che, non incidendo sulla sua consapevolezza della condotta posta in essere, non esclude il dolo necessario a determinarne la punibilità.
Infatti il delitto di atti osceni in luogo pubblico o aperto al pubblico è un reato di pericolo presunto per la cui realizzazione è, peraltro, sufficiente l'astratta visibilità degli atti medesimi da parte di terzi non consenzienti (in tal senso, da ultimo Cass., sez. III, 3/6/99).
In tal senso, non appare condivisibile l'assunto difensivo secondo cui il detto comportamento avrebbe avuto esclusivamente significato ingiurioso, inserendosi quale ulteriore "sottolineatura" nel contesto degli epiteti offensivi rivolti ai coniugi JJJ ed alla signora YYY, in particolare.
Invero, l'eventuale finalità offensiva del gesto osceno compiuto dall'imputato non assorbe la condotta materiale dallo stesso tenuta, ben potendo le due fattispecie di reato (quella di cui all'art. 527 e quella dell'art. 594 c.p.) concorrere sul piano formale. In altri termini, il dolo dell'ingiuria nella specie non esaurisce la consapevolezza dell'imputato che è cosciente comunque di compiere contestualmente anche un atto che (per la sua oggettività, per il luogo in cui viene compiuto e per la presenza di altre persone) è idoneo ad offendere anche il comune pudore sessuale.
Tuttavia, nel caso che ci occupa la mancanza di una querela per ingiuria proveniente dalla signora YYY (che solo in tale ambito poteva assumere la veste di persona offesa) ha indotto il Pubblico Ministero a non esercitare l'azione penale nei confronti dell'imputato anche per il reato di cui all'art. 594 c.p..
Nel caso che ci occupa nemmeno potrebbe considerarsi configurabile un reato complesso (che avrebbe comportato l'applicabilità dell'art. 131 c.p.) bensì un concorso formale di reati.
In ogni caso, l'unica fattispecie per la quale il giudizio è stato promosso è quella prevista e punita dall'art. 527 c.p..
Nessun dubbio si pone, poi, sull'esatto inquadramento della fattispecie anche rispetto all'art. 726 c.p.. Sul punto appare particolarmente indicativo quanto opinato dalla suprema Corte in una situazione praticamente analoga al caso presente :"L'esibizione in pubblico degli organi genitali, in particolare se accompagnata da grida e palpamenti che sottolineano il gesto, integra gli estremi del delitto di atti osceni, di cui all'art. 527 c.p., e non della contravvenzione di atti contrari alla pubblica decenza, di cui all'art. 726 stesso codice" (Cass., sez. III, 22/5/84).
La ricostruzione assolutamente coincidente del fatto da parte dei due testimoni non appare superabile, infine, dalla protesta d'innocenza dell'imputato che ha negato in radice l'episodio, sottolineando un poco credibile rapporto di familiarità con i suoi ex inquilini.
Conclusivamente, il XXX va ritenuto responsabile per il reato ascrittogli, avendo l'istruttoria dimostrato che lo stesso ha compiuto un atto oggettivamente osceno (qual è quello di mostrare in pubblico i propri organi genitali) di averlo fatto in un luogo aperto al pubblico (qual è lo spazio antistante ad un palazzo, esposto al passaggio di un numero indeterminato di persone) e di averlo fatto consapevolmente (cioè, percependo chiaramente il contesto ambientale e la presenza di terze persone).
Per quanto attiene al trattamento sanzionatorio può essere sicuramente concesso all'imputato il beneficio delle circostanze attenuanti generiche data la sua assoluta incensuratezza.
Per questi motivi, valutati tutti i criteri di cui all'art. 133 c.p. stimasi equo irrogare la pena di mesi due di reclusione (p.b.: mesi tre di reclusione, ridotta per le circostanze di cui all'art. 62bis c.p. alla pena inflitta).
Sono poste a carico dell'imputato le spese processuali.
Può essere, altresì, concesso il richiesto beneficio della sospensione condizionale della pena non ostandovi ragioni di ordine oggettivo e soggettivo ed essendo presumibile che il XXX si asterrà in futuro dal commettere altri reati.
Per le stesse ragioni può essere disposta la non menzione della condanna nei certificati del casellario giudiziario.
La costituzione di parte civile impone, a questo punto, la pronuncia del Giudice in ordine alla domanda di risarcimento dei danni materiali e morali che la YYY assume di aver subito per effetto della condotta illecita dell'imputato.
Va preliminarmente osservato che il reato in parola, in forza di quanto precisato dall'art. 529 c.p., offende il pudore, cioè quel sentimento che induce alla riservatezza in tutto ciò che attiene alle manifestazioni della vita sessuale.
Come condivisibilmente osserva attenta dottrina, il pudore, pur costituendo un bene individuale, è protetto dal legislatore in quanto comune ai singoli e, quindi, come bene della collettività. Conseguentemente, va ritenuto che soggetto passivo e, perciò, persona offesa dal delitto, sia la società e non la singola persona alla cui presenza l'atto osceno è compiuto.
Tuttavia, la carenza della qualità di persona offesa non esclude in nuce la possibilità di costituzione di parte civile.
Difatti, l'art. 74 c.p.p. individua quali legittimati all'esercizio dell'azione civile nel processo penale il danneggiato dal reato o i suoi successori universali.
Il danneggiato dal reato è soggetto non necessariamente coincidente con la persona offesa.
Dunque, danneggiato può definirsi la persona fisica o giuridica che, in conseguenza del reato, ha subito un danno patrimoniale o non patrimoniale risarcibile.
Le condizioni prescritte dal codice di rito (cfr art. 77 c.p.p.) in relazione alla legittimazione processuale sono, poi, le stesse richieste per la partecipazione al processo civile, e cioè (per quel che ci occupa) il libero esercizio dei diritti per i quali si agisce.
Orbene, la valutazione sull'ammissibilità della costituzione della parte civile va effettuata alla stessa stregua di quella che si compie sull'atto di citazione e, cioè, sulla base della prospettazione della propria legittimazione sostanziale fatta dall'attore.
Una volta ritenuta, pertanto, la sufficienza dell'indicazione dei requisiti della domanda (causa petendi e petitum), il successivo vaglio sulla sussistenza nel merito dei presupposti del diritto che si assume leso dal reato non può che essere differito al momento del giudizio.
Tanto osservato, a parere di questo Giudicante è fuorviante l'opinione, spesso ricorrente, secondo cui alla condanna per un reato segua de plano anche l'accoglimento della domanda di risarcimento proposta dalla parte civile. Ciò per due ordini di ragioni. La prima è di carattere logico letterale: l'art. 538 c.p.p. nello stabilire che, quando pronuncia sentenza di condanna, il giudice decide sulla domanda per le restituzioni e il risarcimento del danno proposta a norma degli artt. 74 e ss., evidenzia come intento del legislatore sia stato quello di svincolare i due momenti valutativi della responsabilità penale e della responsabilità civile. In altri termini, viene imposta al Giudice la ricerca di un fondamento autonomo alla pronuncia (di accoglimento o di rigetto) sulla domanda di risarcimento, fondamento che non necessariamente può e deve essere quello che ha condotto ad ascrivere all'imputato - convenuto la responsabilità per il reato. Ciò sembra essere confermato anche dalla lettera del comma secondo dell'art. 538 c.p.p. in cui (ponendo come supposto che sia stata pronunciata sentenza penale di condanna) si pone solo in termini di eventualità anche la pronuncia di condanna al risarcimento del danno :"se pronuncia condanna dell'imputato al risarcimento del danno". Ancora, particolarmente significativa appare la lettera dell'art. 541 c.p.p. in cui si ribadisce, da un lato, lo "scardinamento" tra sentenza di condanna penale e sentenza di condanna civile, mentre si costruisce in termini di diretta consequenzialità, dall'altro, il rigetto della domanda di risarcimento rispetto all'assoluzione dell'imputato. Il primo comma, infatti, parla di "sentenza che accoglie la domanda di restituzione o di risarcimento del danno" e non di sentenza penale di condanna, mentre il secondo comma accomuna negli effetti "la sentenza che rigetta la domanda di cui al comma 1 (cioè quella di risarcimento)" con quella che "assolve l'imputato per cause diverse dal difetto di imputabilità". Dunque, e conclusivamente, da un lato, quest'ultima disposizione evidenzia come il rigetto della domanda di risarcimento possa anche intervenire in costanza di una condanna dell'imputato in sede penale e, dall'altro, chiarisce che al contrario il rigetto della domanda civilistica segue sempre all'assoluzione nel merito dell'imputato.
La seconda ragione è, invece, di ordine squisitamente valutativo.
In proposito, va richiamato che il danno lamentato dalla parte civile consisterebbe in quello materiale e morale derivante dalla commissione degli atti osceni da parte del XXX nei propri confronti.
A tal proposito, la prima "voce" di danno presuppone, per poter essere riconosciuta, la sussistenza di una lesione che si ponga quale conseguenza immediata e diretta del fatto dannoso o che, pur essendo mediata ed indiretta, rappresenti un effetto regolare dell'illecito.
A tal riguardo, la condotta del XXX è stata, per stesso riconoscimento della YYY, rivolta ai presenti e non a lei direttamente e, in ogni caso, non ha determinato alcun danno valutabile in termini economici alla parte civile.
Diversamente si sarebbe potuto opinare laddove la parte civile avesse, ad esempio, dimostrato che in conseguenza del fatto illecito avesse, per l'eccessivo stato di agitazione, dovuto far ricorso a cure mediche a pagamento.
Per quanto attiene, poi, al preteso danno morale, anche questo non appare provato. Invero il cd. pretium doloris è affidato al prudente apprezzamento del Giudice solo per ciò che attiene al quantum della sua liquidazione e non anche per la prova della sua sussistenza, il cui onere ricade sempre sulla "parte attrice".
Dalla deposizione della teste YYY, il patema d'animo che la stessa mostrava di aver subito non risultava in realtà ricollegabile all'episodio oggetto del presente processo, bensì all'esacerbazione dei rapporti tra inquilino e proprietario che, pur costituendo anche la causa della condotta del XXX, travalica la stessa e si pone a fonte autonoma della sofferenza lamentata.
Dunque, se un danno morale v'è stato esso è comunque riconducibile ad un rapporto non dedotto né deducibile nell'ambito di questo processo penale e, pertanto, non apprezzabile in questa sede.
Pertanto la domanda di risarcimento proposta dalla costituita parte civile va rigettata.
Non essendovi stata da parte dell'imputato alcuna richiesta in ordine alle sue eventuali spese processuali connesse all'esercizio nei suoi confronti dell'azione civile di danno, il Giudice è esentato dal relativo pronunciamento, sì come stabilito dall'art. 541, comma II, c.p.p..

P.Q.M.

Letti gli artt. 533 e 535 c.p.p., dichiara XXX responsabile del reato ascrittogli e, concesse le circostanze attenuanti generiche, lo condanna alla pena di mesi due di reclusione oltre al pagamento delle spese processuali. Pena sospesa e non menzione.
Letto l'art. 538 c.p.p. rigetta la domanda di risarcimento proposta dalla parte civile.

Torre Annunziata 30/10/2000

IL GIUDICE
dott. Nicola Russo

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