Giudice dell'Udienza Preliminare presso il Tribunale di Venezia,
Ordinanza 10 ottobre 2000

Il G.U.P.

Sull’eccezione di inammissibilità delle parti civili

sentite tutte le parti

OSSERVA

le questioni prospettate riguardano tutte le parti civili, sia quelle private che quelle pubbliche, ma concernono aspetti in buona parte diversi per cui è necessario dividere il provvedimento in una prima parte generale ed in altre parti che riguardano i problemi afferenti specificamente alle varie categorie.

Premesse generali

Premesso che quando nel presente provvedimento si parlerà di associazioni ambientaliste ci si riferirà in genere lato sensu anche a Medicina Democratica, la cui natura non è propriamente la stessa, al di là di tutte le disquisizioni teoriche e dottrinali il punto di partenza fondamentale può essere costituito solo dal dato normativo che in tale materia esiste specificamente e, come è noto, è rappresentato da una parte dalla L. 8 luglio 1986 n. 349, istitutiva del Ministero dell’Ambiente, e dall’altra dagli artt. 91 e ss. del codice di procedura penale che hanno precisato i diritti e le facoltà delle associazioni rappresentative degli interessi lesi dal reato contestato, oltre ad altre disposizioni di legge ed alle norme di rilevanza costituzionale che verranno richiamate successivamente.

Un contributo limitato è in grado di fornire in materia la giurisprudenza giacché non vi è affatto uniformità o costanza di orientamento ed ogni decisione trae origine da differenti opinioni sull’argomento.

Orbene, la legislazione in materia di danno ambientale, di cui alla legge n. 349 del 1986, pur avendo ampliato (art. 18) i limiti di legittimazione attiva alla azione di tutela ambientale, precisava che le azioni di risarcimento debbono essere promosse dallo Stato nonché dagli enti territoriali sui quali incidano i beni oggetto del fatto lesivo.

Infatti, la giurisprudenza di legittimità aveva precisato che gli enti territoriali erano legittimati a costituirsi parte civile ai sensi del predetto art. 18 perché il danno ambientale derivante dal reato incide sull'ambiente, come assetto qualificato del territorio, il quale è elemento costitutivo di tali enti e perciò oggetto di un loro diritto di personalità.

Non venivano, invece, ritenuti legittimati a costituirsi parte civile gli enti e le associazioni, ancorché avessero ottenuto il riconoscimento governativo ex art. 13 legge n. 349, quando l'interesse perseguito fosse quello all'ambiente genericamente inteso o comunque un interesse, che, per essere caratterizzato da un mero collegamento ideologico con l'interesse pubblico, restasse un interesse diffuso, come tale non proprio del sodalizio e perciò anche non risarcibile (v. Cass., sez. III, sent. 9727, 15 giugno/28 ottobre 1993, Benericetti).

In effetti, è da precisare che il terzo comma dello stesso art. 18 aveva espressamente previsto che l'azione di risarcimento del danno ambientale, anche se esercitata in sede penale, fosse promossa dallo Stato nonché dagli enti territoriali sui quali incidano i beni oggetto del fatto lesivo.

Le associazioni individuate in base all'articolo 13 della stessa legge, poi, erano autorizzate, dalla disposizione del comma 5, solo ad intervenire nei giudizi per danno ambientale.

E’ per questo che ancora recentemente si è sostenuto che in tema di risarcimento del danno derivante dall'alterazione dell’ambiente, le associazioni deputate alla sua tutela ed i privati cittadini non sono legittimati alla costituzione di parte civile, che è collegata all'azione risarcitoria, spettante esclusivamente allo Stato ed agli enti territoriali, sui quali incidano i beni oggetto del fatto lesivo.

Alle associazioni private è attribuita una facoltà di intervento, con poteri considerati identici - per fictio iuris - a quelli della parte offesa (cfr. Cass., sez. III, sent. 7275, 18 aprile/23 giugno 1994, Galletti ed altri).

Parte della dottrina e della giurisprudenza, al riguardo, ha inteso che fosse stato usato il termine generico di “intervento” in quanto nella legge n. 349 si parlava di qualunque giurisdizione e non solo di quella penale.

Infatti, la S.C. nel 1992 ha sentenziato che non fosse ammissibile una interpretazione restrittiva dell'art. 18, comma quinto, L. 8 luglio 1976, n. 349, che attribuisce a dette associazioni la facoltà di intervenire nei giudizi per danno ambientale, in quanto con la espressione "intervento" il legislatore aveva voluto sintetizzare la facoltà delle associazioni ambientaliste di essere presenti in qualunque tipo (civile, penale e amministrativo) di giudizio per danno ambientale; nel giudizio penale, in cui non sono conosciute forme di litisconsorzio o di intervento ad adiuvandum esclusive del giudizio civile, non vi è strumento processuale diverso dalla costituzione di parte civile per attuare il diritto di intervento (Cass., sez. III, sent. 4487, 17 marzo/11 aprile 1992, Ginatta ed altri; v., però, diff. Cass., sez. VI, sent. 12659, 14 ottobre/17 dicembre 1988, ZORZI; v., anche, Cass., sez. III, sent. 5412, 1 marzo/4 maggio 1988, RV. 178308, HAMPE WILFRIED).

Tale orientamento, tuttavia, va rilevato che appare fin troppo legato a schematizzazioni dottrinali e non prevede proprio la possibilità che il legislatore è libero di introdurre nel sistema processuale nuove forme di partecipazione diverse da quelle caratteristiche del codice di rito previgente.

In particolare, la situazione ha subito un decisivo chiarimento (non già alcuna modifica) con l’introduzione delle predette norme del codice di procedura penale del 1988 che trovano la loro legittimazione nella direttiva nr. 39 della Legge Delega.

Infatti, tale direttiva ha attribuito agli enti ed alle associazioni cui sono riconosciute finalità di tutela degli interessi lesi gli stessi poteri spettanti nel processo all’offeso dal reato, con la precisazione che costui non fosse costituito parte civile.

E la stessa direttiva, tra l’altro, ha prescritto che il legislatore delegato prevedesse particolari forme di intervento di tali enti ed associazioni nel giudizio.

E’ evidente come il legislatore non ignorasse affatto la precedente normativa sul danno ambientale ed, anzi, abbia voluto adeguarsi ad essa disciplinando più dettagliatamente poteri e facoltà di dette associazioni utilizzando la stessa terminologia e, cioè, non già la possibilità di costituirsi parti civili bensì la sola possibilità di “intervento”, così come conseguentemente stabilito dall’art. 93 del codice di rito.

E che sia prevista solo questa forma particolare di “intervento” è confermato oltre ogni dubbio dall’art. 505 dello stesso codice di rito.

Al riguardo, oltretutto si noti la notevole e sintomatica differenza terminologica con l’art. 109 bis del decreto-legge 18 giugno 1986, n. 282 (cioè della stessa epoca della legge n. 349), recante misure urgenti in materia di prevenzione e repressione delle sofisticazioni alimentari con cui è stato espressamente previsto che: ”Le associazioni dei produttori, le associazioni dei consumatori e le altre associazioni interessate possono costituirsi parte civile, indipendentemente dalle prove di danno immediato e diretto, nei procedimenti penali per le infrazioni al presente decreto e sue successive modificazioni ed integrazioni".

La differenza con il termine “intervento”, utilizzato in altra legge ad appena un mese di distanza, è talmente manifesta da non meritare commenti.

Oltretutto, successive ed anche recenti disposizioni di legge attribuiscono esplicitamente ad alcune associazioni in specifiche materie la possibilità di costituirsi parte civile: la qual cosa conferma che non tutte le associazioni genericamente hanno tale legittimazione ma solo quelle per le quali sia espressamente prevista tale possibilità da una norma.

A parere di questo giudice, poi, è ancor più significativo il fatto che nel progetto inizialmente presentato alla Camera dei Deputati era appunto prevista la possibilità di costituzione di parte civile che, poi, è stata eliminata.

Inoltre, nella Relazione Ministeriale al progetto preliminare ed al testo definitivo del codice di procedura si legge testualmente a proposito di questi enti ed associazioni che “ vi è una loro sfera di azione processuale che...tende a realizzare, mediante forme di «adesione» all’attività del P.M. ovvero di «controllo» su di essa, una sorta di contributo all’esercizio ed al proseguimento dell’azione penale”.

E tanto implicitamente conferma come è stato considerato dal legislatore il loro ruolo.

In particolare, le associazioni ambientali

E’ doveroso precisare, innanzitutto, che talora si sostiene che il danno conseguente da reato è connotato da presupposti differenti da quello dal fatto illecito semplicemente civilistico: tale tesi è direttamente smentita dalle norme processuali laddove (art. 75 c.p.p.) è previsto che l’azione civile proposta davanti al giudice civile possa essere trasferita nel processo penale ovvero (art. 539 c.p.p.) che il giudice penale possa pronunciare condanna generica per il danno e rimettere le parti davanti al giudice civile.

Ne risulta evidente, quindi, la uniformità in materia dei due tipi di giurisdizione.

Eppure, la legge n. 349 non ha affatto attribuito una legittimazione attorea prevedendo espressamente al comma 4 che: ”Le associazioni di cui al precedente articolo 13 e i cittadini, al fine di sollecitare l'esercizio dell'azione da parte dei soggetti legittimati, possono denunciare i fatti lesivi di beni ambientali dei quali siano a conoscenza”.

Pertanto, i soggetti legittimati all’azione civile sono altri.

Al comma 5, inoltre, è stabilito che: ”Le associazioni individuate in base all'articolo 13 della presente legge possono intervenire nei giudizi per danno ambientale (e ricorrere in sede di giurisdizione amministrativa per l'annullamento di atti illegittimi)”.

Come si vede, si parla sempre di intervento ma non già di legittimazione all’azione.

Considerato, dunque, che si tratta pur sempre di una questione civile inserita nel processo penale tutta la citata normativa richiama praticamente quello che in procedura civile si definisce intervento adesivo, cioè l’intervento volontario nella causa da parte del terzo il quale, pur non avendo autonoma legittimazione ad agire, abbia tuttavia interesse alla vittoria di una delle parti in causa, come previsto dal secondo comma dell’art. 105 del codice di procedura civile.

Comunque, senza dover ripetere in questa sede la nota differenziazione fra parte offesa e danneggiato, l’art. 91 c.p.p. prescrivendo che le associazioni in questione possano esercitare i diritti e le facoltà attribuiti alle persone offese dal reato ha indotto taluno a ritenere che queste associazioni possano costituirsi parti civili sul presupposto che ai sensi dell’art. 74 dello stesso codice è legittimato all’azione civile il soggetto al quale il reato ha recato danno.

Ciò in quanto il danno ambientale presenta una triplice dimensione: 1. personale (quale lesione del diritto fondamentale dell'ambiente di ogni uomo); 2. sociale (quale lesione del diritto fondamentale dell'ambiente nelle formazioni sociali in cui si sviluppa la personalità umana ai sensi dell’art. 2 Cost., al riguardo si citano le sentenze della Corte Costituzionale n. 210 e 641 del 1987); 3. pubblica (quale lesione del diritto-dovere pubblico delle istituzioni centrali e periferiche con specifiche competenze ambientali).

In questo contesto persone, gruppi, associazioni (oltre gli enti territoriali) non fanno valere un generico interesse diffuso, ma dei diritti ed agiscono in forza di una autonoma legittimazione (v. Cass., sez. III, sent. 439, 10 novembre 1993/19 gennaio 1994, Mattiuzzi).

Ed anzi, in tale prospettiva, è stato deciso che in tema di tutela ambientale, possono costituirsi parte civile gli enti e le associazioni, anche se non abbiano ottenuto il riconoscimento governativo (ex art. 13 legge 8 luglio 1986, n. 349), quando l'interesse diffuso, da essi perseguito, sia volto alla salvaguardia di una situazione storicamente circostanziata, la quale sia stata fatta propria, come scopo specifico, del sodalizio.

Ogni pregiudizio a questa finalità, che esprime l'affectio societatis, comporta un danno non patrimoniale per la frustrazione e l'afflizione degli associati.

La costituzione di parte civile sarebbe dunque possibile, quando, dall'offesa all'interesse, derivi in modo diretto ed immediato una lesione del diritto di personalità del sodalizio, con riferimento allo scopo ed ai suoi componenti (Cass., sez. III, sent. 10956, 29 settembre/13 novembre 1992, Serlenga ed altri).

Quest’ultima decisione appare, comunque, discutibile soprattutto per quanto concerne l’affermazione del mancato riconoscimento governativo.

D’altra parte, questo giudice non ignora che secondo una corrente giurisprudenziale l’art. 13 della L. 8 luglio 1986 n. 349 avrebbe concesso un, pressoché indiscriminato, riconoscimento alle associazioni di cui si discute (v. Cass., sez. V, sent. 2361, 12 gennaio/5 marzo 1996, Amendola ed altri a proposito di “Italia Nostra”).

Tali decisioni non tengono conto, però, del fatto che la suddetta legge aveva posto dei limiti ben precisi per l’esplicito riconoscimento statale ed, infatti, venne, poi, emanato un apposito Decreto Ministeriale in data 20 febbraio 1987 con cui sono state individuate le associazioni di protezione ambientale ai sensi dell'art. 13 della stessa legge, fra le quali proprio alcune di quelle presenti in questa sede.

Ma più in generale la considerazione dell’autonomia di queste associazioni alla costituzione di parte civile quali portatrici di un danno non appare condivisibile.

Tralasciamo, in quanto non fondate su alcun principio giuridico riconosciuto ovvero su alcuna norma, le teoriche che si richiamano del tutto genericamente anche in altri settori al criterio della “localizzazione territoriale” ovvero che affermano che sia quelle ambientaliste che in genere tutte le associazioni abbiano acquisito un diritto al risarcimento quando il fatto lede l’interesse assunto dall'ente come proprio scopo di esistenza (al riguardo, appare veramente eccessiva una sentenza della Pretura di Verona, in data 24 giugno 1992, imp. Chiappin, che ha riconosciuto la legittimazione a costituirsi parte civile, nell'ipotesi di giudizio per maltrattamenti di animali, persino alla Lega nazionale per la difesa del cane).

In questa sede, poi, non si ritiene di accedere sic et simpliciter a quella giurisprudenza che, ormai tralaticiamente, fino a tempi recenti, non fa altro che ripetere che occorre accertare se l'interesse che l'ente o l'associazione pretende azionare rientri in un collegamento concreto ed effettivo col circostanziato ambito di incidenza del sodalizio, di tal che questo sia legittimato all'azione risarcitoria anche in sede penale (v., ad esempio, recentemente Cass., sez. III, sent. 8699, 9 luglio/26 settembre 1996 ovvero sez. V, sent. 2361, 12 gennaio/5 marzo 1996) senza addurre esaurienti motivazioni al riguardo.

In realtà, assolutamente più aderenti alla realtà, da tutti i punti di vista, sono quelle decisioni (cfr. Cass., sez. III, sent. 3503, 2 febbraio/6 aprile 1996, RUSSO) che precisano che sussiste un diritto in subiecta materia che può essere individuato con riferimento a quello all'ambiente salubre, che costituisce oggetto dell'interesse precipuo dell'associazione ambientalista.

Infatti la lesione di un bene collettivo impone una diversa tecnica di tutela attraverso quei soggetti, che rappresentano i fruitori del bene e non possono essere limitati a quelli pubblici, in quanto gli stessi possono essere individuati quali responsabili di attentati al diritto soggettivo all'ambiente salubre tutelato.

In tal modo il predetto diritto assoluto, la sua dimensione collettiva ed il richiamo ai diversi modi in cui si esplica la persona comportano il riconoscimento sul piano processuale della legittimazione ad agire di quelle associazioni rappresentative dell'interesse protetto.

A sostegno si indicano alcune decisioni delle Sezioni Unite della S.C. (9 marzo 1979 n. 1463; 6 ottobre 1979 n. 5172; 17 ottobre 1988 n. 5626) che in materia ambientale avevano già in passato riconosciuto oltre alla titolarità di interessi diffusi, da parte di collettività unitariamente considerate, anche la titolarità di interessi individuali che hanno consistenza di veri e propri diritti soggettivi.

Peraltro, la deduzione che tali decisioni si riferissero anche alle associazioni rappresentative dell’interesse protetto appare troppo estesa dal momento che, come si è detto, quelle sentenze da una parte menzionavano collettività unitariamente considerate e dall’altra diritti soggettivi individuali.

In realtà, per rafforzare l’argomentazione, sono stati anche indicati dei riconoscimenti legislativi attribuiti alle associazioni ambientaliste dalle leggi n. 142 e 241 del 1990.

Anche tale assunto, però, non ha fondamento.

La legge n. 142 dell’8 giugno 1990, riguardante l’ordinamento delle autonomie locali, prescrive agli artt. 6 e 7 la partecipazione popolare, l’azione popolare nonché il diritto di accesso agli atti amministrativi ed il diritto d’informazione dei cittadini.

In tale ambito è prescritta dall’art. 6 la valorizzazione di libere forme associative i cui rapporti con l’ente pubblico, tuttavia, sono previsti con modalità stabilite dallo statuto dello stesso ente pubblico.

Quindi, non solo non vi è cenno espresso di associazioni ambientali ma si deve cominciare a riflettere sul fatto che solo veri e propri atti normativi pubblici, in questo caso secondari, possono attribuire alle associazioni determinate facoltà.

E che non si tratti di veri e propri diritti soggettivi attribuiti alle associazioni è confermato dall’art. 8 che prevede l’azione davanti al giudice amministrativo mentre nulla è detto in ordine alla giurisdizione ordinaria.

La legge n. 241 del 7 agosto 1990, concernente la c.d. “Trasparenza degli atti amministrativi”, poi, stabilisce nell’art. 9 che: “Qualunque soggetto, portatore di interessi pubblici o privati, nonché i portatori di interessi diffusi costituiti in associazioni o comitati, cui possa derivare un pregiudizio dal provvedimento, hanno facoltà di intervenire nel procedimento.

E’ da osservare come anche in questo caso si tratti di procedimento amministrativo tanto più che l’ultimo comma dell’art. 11 riserva le controversie alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.

E si deve notare, altresì, che in alcune norme di tale legge si richiamano esplicitamente solo le amministrazioni pubbliche come preposte alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale e della salute dei cittadini.

Non vi è cenno alcuno a diritti di associazioni private.

Non si può non concludere che si è trattato di un’operazione ermeneutica forzata sia delle predette sentenze che di tali leggi.

Ed infatti la decisione della III Sezione della S.C. (ric. RUSSO) di cui si discute è stata costretta a precisare che: “È esatto che la previsione di una generale facoltà di intervento nel procedimento di portatori qualificati di interessi collettivi (art. 9 l. n. 241 del 1990) non comporta di per sé una corrispondente legittimazione ad agire, ma dimostra un processo di istituzionalizzazione dei predetti enti esponenziali, che vengono individuati normativamente quali centri di imputazione di determinati interessi collettivi.

In tal modo si crea una legittimazione ad agire fondata sulla relazione con il bene, precisandosi il rilievo ed i contorni dell'interesse protetto con le differenti norme relative alla partecipazione ad organi consultivi o gestionali, alla legittimazione ad agire, alla partecipazione al procedimento, all'accesso alle informazioni nell'esercizio del diritto costituzionale ad essere informati, al finanziamento pubblico di alcune iniziative ed alla loro rispondenza a bisogni sociali per la tutela di beni collettivi.

Gli enti rappresentanti di detti beni collettivi non sono soltanto quelli territoriali, cui può riconoscersi la legittimazione alla tutela, ai sensi dell'art. 18 l. n. 349 del 1986, pure degli interessi diffusi e del diritto pubblico all'ambiente, ma anche i centri di imputazione diversi, che per la propria costituzione e per la presenza nel territorio, nonché per il riconoscimento legislativo della loro rilevanza, si presentano quali rappresentanti di detti interessi collettivi in una considerazione più ampia delle nozioni di diritto soggettivo e di interesse ad agire.

Una simile ricostruzione accede a quella teoria del bene giuridico, inteso come idoneità a soddisfare un interesse, che l'ordinamento tende a tutelare, sicché nucleo dei diritti non è la cosa, considerata punto di riferimento mediato, ma le utilità che da essa si possono trarre.

Ulteriore corollario di detta teoria è la possibilità di considerare una tutela degli stessi non limitata a quelli individuali ma pure ad altri da cui derivano utilità per la collettività, attesa la esauribilità di alcune risorse e la loro limitatezza, onde l'oggetto del diritto soggettivo non può più essere inteso in senso riduttivo come solo individuale, ma deve estendersi a ricomprendere pure detti interessi collettivi

Non occorre citare oltre tale sentenza né esaminare, per gli evidenti limiti di questo provvedimento, tutte le tematiche affrontate da detta decisione dal momento che tutto il ragionamento muove le mosse da quel concetto di “interessi collettivi o diffusi” che, però, non si identificano affatto con il diritto soggettivo di cui occorre essere titolari per poter essere legittimati ad agire in giudizio per chiedere il risarcimento.

Anzi, a proposito di questi interessi appare il caso di aprire una breve digressione per chiarire alcuni concetti.

Per il diritto amministrativo qualificazione atipica nel sistema italiano delle persone giuridiche è quella di ente privato di interesse pubblico con cui parrebbe identificarsi una figura intermedia tra ente pubblico ed ente privato attualmente ignota nel nostro ordinamento.

In realtà, si ritiene che l’unico caso sia quello della Croce Rossa istituita con D.P.R. 31 luglio 1980 n. 613.

In tema di associazioni ambientali solo per l’associazione nazionale “Italia Nostra” esiste un’apposita norma che ne definisce di rilevante interesse pubblico le attività nel campo della tutela del patrimonio storico, artistico e naturale della nazione.

Si tratta dell’art. 1 della legge 23 maggio 1980 n. 211, disposizione intesa, però, a motivare la concessione di un contributo dello Stato.

Per inciso, tale contributo è stato confermato con la legge 15 novembre 1989 n. 378 (in Gazzetta Ufficiale 23 novembre n. 274) e, da ultimo, nella legge 15 dicembre 1998 n. 444 (in Gazzetta Ufficiale 23 dicembre n. 299) intitolata “Nuove disposizioni per favorire la riapertura di immobili adibiti a teatro e per attività culturali” l’art. 3, comma 5, stabilisce che è concesso all’Associazione “Italia Nostra” un contributo annuo di £. 400 milioni a decorrere dal 1998.

Come si vede non si menziona affatto la titolarità di alcun diritto soggettivo e la facoltà di agire in giudizio a differenza della legge sul riordinamento della Croce Rossa che attribuisce a tale associazione un completo stato giuridico consistente, tra l’altro, nel controllo della gestione da parte della Corte dei Conti sulle somme ricevute dallo Stato e, soprattutto, nella legittimazione ad agire in giudizio per gli interessi rappresentati.

Ad ulteriore riprova, era stato predisposto dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri nel 1980 un disegno di legge che, poi, decadde per scioglimento della legislatura.

Con esso si sarebbe creata una categoria di tali enti, con regime uniforme, cui si sarebbe dovuto accedere con uno speciale procedimento amministrativo; questi enti sarebbero stati legittimati alla tutela, anche in sede giurisdizionale, dei c.d. interessi diffusi o collettivi, senza peraltro assumerne la titolarità in esclusiva.

Ma come si è appena detto questo progetto di legge non è stato neanche preso in esame dal Parlamento.

Per concludere questo argomento occorre precisare che il Consiglio di Stato, sez. V, in data 9 marzo 1973, sent. n. 253, aveva ritenuto ammissibile un ricorso dell’associazione “Italia Nostra” per la salvaguardia della bellezza naturale del lago di Tovel nella provincia di Trento.

La decisione fu annullata, per difetto assoluto di giurisdizione (trattandosi appunto di “interesse diffuso”) dalle Sezioni Unite della Cassazione con la sentenza n. 2207 dell’8 maggio 1978.

Da allora, il Consiglio di Stato (v. Ad. pl. 19 ottobre n. 24; sez. IV, 29 aprile 1980 n. 473; sez. V, 13 febbraio 1981 n. 40) si è conformato alla giurisprudenza delle sezioni unite.

E non vi sono state successivamente norme specifiche sulla tutela giurisdizionale da parte di siffatte associazioni degli interessi diffusi bensì solo un’operazione interpretativa a largo raggio da parte di dottrina e giurisprudenza con l’assemblaggio di varie disparate norme ovvero con l’applicazione di nuovi principi giuridici.

Al contrario, ancora recentemente il Consiglio di Stato non ha ritenuto di identificare l’interesse diffuso neanche con l’interesse legittimo che consentirebbe quanto meno il ricorso al giudice amministrativo (sez. VI, sent. 1070, del 12 dicembre 1992, ric. Circolo Enalcaccia contro Provincia Autonoma di Trento).

Ritornando alla sentenza RUSSO, si può pervenire a questo punto a quelli che in definitiva sono i veri presupposti del ragionamento di quel collegio e, cioè, da un lato la nuova concezione dell’art. 2043 cod. civ. e dall’altro i principi costituzionali.

Per quanto riguarda l’art. 2043 cod. civ. va osservato che proprio la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 184 del 1986, ne ha messo in rilievo una nuova valenza alla luce dei principi costituzionali, affermando che ad esso, così come all’art. 2059 cod. civ., può farsi ricorso in tema di lesione della salute umana e dell’integrità dell’ambiente naturale.

In effetti, tale pronuncia si è occupata pressoché essenzialmente del danno morale e del danno biologico ed ha posto l’accento sul fatto che il principio del neminem ledere ha assunto una nuova e diversa rilevanza in quanto comprensivo anche della riparazione alle menomazioni di beni di valore assoluto e primario quali quelli previsti dalla Carta Costituzionale.

Ma da tali concetti a giungere all’esplicito riconoscimento di diritti, per così dire, autonomi delle associazioni ce ne corre tanto più che è in discussione la lesione e, conseguentemente, il risarcimento di un bene giuridico.

Al riguardo, vale la pena precisare che ai fini di individuare i limiti oggettivi e soggettivi dell'azione civile nel processo penale, occorre fare riferimento ai principi che regolano la responsabilità civile da fatto illecito (artt. 1223, 2043, 2056 cod. civ.); quindi danno risarcibile che consente la costituzione di parte civile è esclusivamente quello che consegue alla lesione di un diritto soggettivo (v., ex plurimis, Cass., sez. III, sent. 7954, 21 giugno/16 settembre 1982, ric. POLENGHI; oppure, più recentemente, sez. I, sent. 9708, 7 luglio/8 ottobre 1992, ric. p.c. in proc. GIACOMETTI).

Orbene, il diritto soggettivo è basato sul riconoscimento o sull’attribuzione che ne faccia l’ordinamento giuridico sì che far valere il diritto soggettivo va considerato come esercizio legittimo di esso diritto.

Il contenuto proprio del diritto soggettivo è, anzitutto, un potere giuridico della volontà, largito dall’ordinamento giuridico al soggetto.

Potere implica possibilità di indirizzare il proprio volere in certe maniere determinate; implica, pertanto, rilevanza del volere del soggetto.

E questo potere si può manifestare: a) come una signoria (su un oggetto del mondo esterno) ovvero b) - ed è il caso che maggiormente ci riguarda - come una pretesa a che altri (soggetto passivo di un rapporto giuridico) si comporti in modo determinato.

Ne consegue che non si può ammettere quella giurisprudenza che ritiene che tutte le associazioni di protezione dell'ambiente, ivi comprese quelle a carattere locale non riconosciute ex art. 13 legge 8 luglio 1986, n. 349, possano intervenire nel processo e costituirsi parti civili, in quanto abbiano dato prova di continuità della loro azione, aderenza al territorio, rilevanza del loro contributo, ma soprattutto perché formazioni sociali nelle quali si svolge dinamicamente la personalità di ogni uomo, titolare del diritto umano all'ambiente (v., ad esempio, Cass., sez. III, sent. 9837, 1 ottobre/19 novembre 1996, Locatelli).

Appare il caso di ribadire che secondo tale tesi si dovrebbe ammettere che in un processo penale possa esservi un numero indefinito di parti civili costituito da associazioni che, semplicemente in base al proprio statuto, e cioè assegnandosi determinati fini e caratteristiche nonché il collegamento con un territorio, si attribuirebbero di per sé una siffatta titolarità.

Al contrario, solo lo Stato, a mezzo della Costituzione, delle leggi ed, in genere, dell’ordinamento, può attribuire precisi diritti, quale appunto il diritto soggettivo di cui si discute.

Ma il discorso sull’art. 2043 cod. civ. richiama i concetti espressi dalla disposizione di cui all’art. 74 c.p.p. in virtù del quale, innanzitutto, viene considerato danneggiato dal reato colui che subisce un danno ai sensi dell’art. 185 c.p.

Trattandosi di danno derivante da illecito extracontrattuale, quindi, come già precisato, vanno applicate le nozioni di cui agli artt. 2043 e 2059 cod. civ.

Orbene, funzione tipica del risarcimento, qualunque ne sia la forma, è quella di reintegrare il patrimonio del danneggiato della diminuzione sofferta in conseguenza dell’evento dannoso.

Tuttavia, l’ambiente non fa parte del patrimonio delle associazioni in questione bensì fa parte del patrimonio della collettività tanto vero che la legge attribuisce il diritto al risarcimento del danno solo agli enti territoriali.

Conseguentemente, difetta per tali associazioni il c.d. danno emergente.

Peraltro, è già stato accennato che viene considerato per le stesse associazioni danno anche la semplice compromissione della propria immagine attraverso la violazione delle norme che proteggono l’ambiente ovvero la salute pubblica.

Ma a parte i rilievi già esposti a proposito dell’autoattribuzione di diritti a mezzo semplicemente delle disposizioni privatistiche statutarie, non si deve dimenticare che il danno deve essere conseguenza “immediata e diretta” dell’azione illecita, presupposti che, invece, difettano a tale proposito (v., per un altro aspetto, Cass., sez. III, sent. 6297, 19 marzo/25 maggio 1992, Barigazzi).

E, tra l’altro, per lo stesso motivo, difetta anche il c.d. lucro cessante dal momento che esso non può essere ritenuto appunto una conseguenza diretta ed immediata del fatto illecito.

A questo punto, appare opportuno richiamare integralmente alcuni passi della sentenza n. 641 del 1987 della Corte Costituzionale che era stata chiamata proprio a dirimere una questione di legittimità costituzionale dell’art. 18 della legge n. 349 e che, al momento, appare l’unica che si sia occupata specificamente dell’argomento che ci interessa.

L’ambiente è stato considerato un bene immateriale unitario sebbene a varie componenti, ciascuna delle quali può anche costituire, isolatamente e separatamente, oggetto di cura e tutela; ma tutte, nell’insieme, sono riconducibili ad unità.

Il fatto che l’ambiente possa essere fruibile in varie forme e differenti modi, così come possa essere oggetto di varie norme che assicurano la tutela dei vari profili in cui si estrinseca, non fa venir meno e non intacca la sua natura e la sua sostanza di bene unitario che l’ordinamento prende in considerazione.

L’ambiente è protetto come elemento determinativo della qualità della vita.

La sua protezione non persegue astratte finalità naturalistiche o estetizzanti, ma esprime l’esigenza di un <habitat> naturale nel quale l’uomo vive ed agisce e che è necessario alla collettività e, per essa, ai cittadini, secondo valori largamente sentiti; è imposta anzitutto da precetti costituzionali (artt. 9 e 32 Cost), per cui esso assurge a valore primario ed assoluto.

Vi sono, poi, le norme ordinarie che, in attuazione di detti precetti, disciplinano ed assicurano il godimento collettivo ed individuale del bene ai consociati; ne assicurano la tutela imponendo a coloro che lo hanno in cura specifici obblighi di vigilanza e di interventi. Sanzioni penali, civili ed amministrative rendono la tutela concreta ed efficiente.

L’ambiente, quindi, è un bene giuridico tutelato da norme.

Non è certamente possibile oggetto di una situazione soggettiva di tipo appropriativo: ma appartenendo alla categoria dei c.d. beni liberi, è fruibile dalla collettività e dai singoli....”

Ed ancora: “ E’, inoltre, specificamente previsto dall’art. 18 n. 1 il danno che il bene può subire. Esso è individuato come compromissione (dell’ambiente) e, cioè, alterazione, deterioramento o distruzione, cagionata da fatti commissivi od omissivi, dolosi o colposi, violatori delle leggi di protezione e di tutela e dei provvedimenti adottati in base ad esse.

Le dette violazioni si traducono, in sostanza, nelle vanificazioni delle finalità protettive e per se stesse costituiscono danno. La responsabilità che si contrae è correttamente inserita nell’ambito e nello schema della tutela aquiliana (art. 2043 cod. civ.).

Questa Corte ha già ritenuto possibile il ricorso all’art. 2043 cod. civ. in tema di lesione della salute umana, dell’integrità dell’ambiente naturale e di danno biologico.

...

Il danno è certamente patrimoniale, sebbene sia svincolato da una concezione aritmetico-contabile e si concreti piuttosto nella rilevanza economica che la distruzione o il deterioramento o l’alterazione o, in genere, la compromissione del bene riveste in sé e per sé e che si riflette sulla collettività la quale viene ad essere gravata da oneri economici.

...

Lo schema seguito, però, porta ad identificare il danno risarcibile come perdita subita, indipendentemente sia dal costo della rimessione in pristino, peraltro non sempre possibile, sia dalla diminuzione delle risorse finanziarie dello Stato e degli enti minori.

...

La legittimazione ad agire, che è attribuita allo Stato ed agli enti minori non trova fondamento nel fatto che essi hanno affrontato spese per riparare il danno o nel fatto che essi abbiano subito una perdita economica ma nella loro funzione a tutela della collettività e delle comunità nel proprio ambito territoriale e degli interessi all’equilibrio ecologico, biologico e sociologico del territorio che ad essi fanno capo.”

Come si può vedere in questa decisione del giudice delle leggi l’ambiente viene sempre assolutamente considerato come un bene della collettività la cui protezione è demandata agli enti territoriali.

Non è fatto alcun cenno di diritti o poteri di associazioni ambientali ovvero altre formazioni diverse quali sono quelle richiamate dall’art. 2 della Costituzione.

E’ pur vero che in tale decisione si richiama esplicitamente anche il diritto del cittadino e la tutela dello stesso quando abbia subito nocumento dal danno ambientale.

Significativa, però, è l’affermazione: “La rilevanza del rapporto tra il soggetto ed il bene risulta dai luoghi e secondo la logica dell’ordinamento e non dall’autoattribuzione del soggetto”.

Come si vede, quest’ultimo è proprio il concetto a cui si è più volte richiamato questo giudice.

Gli stessi concetti sono stati espressi anche nella sentenza della Corte Costituzionale n. 210 del 1987, che si è occupata della legge n. 349 per un altro aspetto, in cui testualmente si legge: “Ne deriva la repressione del danno ambientale cioè del pregiudizio arrecato da qualsiasi attività volontaria o colposa, alla persona, agli animali, alle piante e alle risorse naturali (acqua, aria, suolo, mare), che costituisce offesa al diritto che vanta ogni cittadino individualmente e collettivamente

Per inciso, deve essere segnalato che la Corte non è stata mai chiamata ad occuparsi di questa legge in ordine alle associazioni di cui si discute così come non è stata mai adita per eventuali illegittimità costituzionali degli artt. 91 e ss. del codice di procedura penale.

Quindi, in definitiva per riconoscere la titolarità in capo a queste associazioni del diritto soggettivo, ossia la legittimazione ad agire iure proprio costituendosi parti civili onde ottenere il risarcimento del danno si finisce per richiamare i principi costituzionali.

In particolare, ci si riporta al concetto di “formazioni sociali” di cui all’art. 2 della Costituzione mettendolo in relazione con le disposizioni di cui agli artt. 9 e 32 della stessa Carta Costituzionale.

Secondo la più antica dottrina la norma in questione non conterrebbe indicazioni per il cittadino in ordine a diritti direttamente azionabili bensì indicazioni per il legislatore ad emanare norme che consentano l’esercizio quanto più possibile effettivo di siffatti diritti.

Si tratta di una di quelle che sono state definite norme “programmatiche” per differenziarle da quelle “precettive” che, al contrario, sono appunto di immediata applicazione.

Ed in effetti, prendendo isolatamente alcuni passi della sentenza, sembrerebbe che l’art. 2 Cost. in relazione agli artt. 9 e 32 vengano richiamati dalla decisione n. 641del 1987 della Corte Costituzionale come precetti costituzionali che trovano attuazione nelle norme ordinarie le quali stabiliscono le varie sanzioni onde rendere la tutela concreta ed efficiente.

Insomma, sembrerebbe che la Corte non abbia affatto affermato che si tratti di diritti del singolo cittadino o delle formazioni a cui egli aderisce direttamente azionabili.

Quel che appare indubbio è che, con la testé citata decisione, è stata riconosciuta la perfetta rispondenza alla legalità delle norme che disciplinano la tutela giudiziaria dell’ambiente nel rispetto naturalmente dei principi costituzionali e, cioè, nella misura dell’adeguatezza di questa tutela che nel caso di specie viene salvaguardata a mezzo dell’espressa possibilità di costituzione di parte civile dello Stato e degli enti territoriali minori nonché dell’”intervento” delle associazioni miranti alla salvaguardia dello stesso ambiente (al riguardo, v. anche la citata sentenza della Corte n. 210 del 1987).

Oltretutto, è da segnalare che né nell’art. 9 né nell’art. 32 della Costituzione si parla di diritti bensì viene usata la formula “La Repubblica tutela...”.

Tale tesi, tuttavia, non può essere ritenuta corretta in quanto disattesa dalla stessa sentenza n. 641 e superata ormai da varie altre decisioni della stessa Corte che hanno riconosciuto espressamente a tali norme la valenza di attribuire alle persone fisiche o giuridiche veri e propri diritti soggettivi.

Tanto per fare un esempio tra i tanti può essere citata la sentenza della Corte n. 88 del 1979 che riconosce nell’art. 32 un diritto fondamentale del cittadino, sicché esso si configura come diritto primario ed assoluto operante anche nei rapporti fra privati.

Trattasi, secondo il giudice delle leggi, di una posizione soggettiva tutelata proprio dalla Costituzione.

E più in generale, ancor prima, con la sentenza n. 15 del 1975, la Corte aveva riconosciuto che nell’art. 2 sono generalmente contemplati dei diritti inviolabili riconosciuti all’uomo sia come singolo sia nelle formazioni ove si svolge la sua personalità.

Pertanto, non può più essere messa in dubbio la funzione precettiva di tali norme.

Il vero punto nodale della questione, quindi, è il riconoscimento alle associazioni presenti in questo processo da parte dell’art. 2 della Costituzione, sì da riconoscere alle stesse la legittimazione ad agire iure proprio, con facoltà di costituirsi parti civili.

Al rigurdo quel che non può essere accolta da questo giudice è l’interpretazione che viene data al concetto contenuto nel citato art. 2 di “formazioni sociali” talmente esteso da ricomprendervi qualunque associazione o ente che si autoattribuisca genericamente la funzione di “paladino” dei diritti costituzionalmente attribuiti al singolo.

Occorre prestare attenzione alla formula esatta di tale norma che parla di riconoscimento e garanzia dei diritti inviolabili dell’uomo «sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità».

In pratica, si vuole evidenziare che non si parla genericamente di “formazioni sociali” bensì tale locuzione è collegata e precisata dal concetto di “svolgimento in esse della personalità del singolo”.

Se ne deduce che vi deve essere un collegamento preciso e diretto del singolo con tali formazioni in cui egli realizzi la propria personalità.

Il verbo «svolgere», infatti, non può essere inteso come un agire della formazione sociale del tutto avulso bensì indica l’esplicazione di un’attività da parte dell’uomo per cui nella norma vi è una chiara connessione fra il singolo e la formazione sociale.

Altrimenti, si dovrebbe arrivare a sostenere che tali associazioni rappresentino genericamente tutti, cioè anche quei cittadini che, per un qualche motivo, non condividano le finalità, le modalità, le azioni, le scelte di tali formazioni sociali.

Ed infatti, in precedenza, si è riferito come tutte le teoriche facciano espresso riferimento alla nozione di “rappresentanza” degli interessi collettivi.

Così, ad esempio, è stata riconosciuta la possibilità di costituirsi parte civile ad un partito politico per l’omicidio di un associato (Cass., sez. I, sent. 2123, 28 gennaio/3 marzo 1993, RV. 195952, Del Savio).

Non viene, invece, generalmente ammessa la costituzione di parte civile di associazioni quali quelle, ad esempio, di protezione delle donne, in processi per reati di violenza sessuale, ancorché le nuove disposizioni in materia riguardino ormai i delitti contro la libertà personale e, quindi, un bene costituzionalmente garantito (v. art. 13 Cost).

A tali associazioni è, invece, riconosciuta la facoltà di intervento ai sensi degli artt. 91 e ss. c.p.p.

Diverso è il caso previsto dalla legge per cui gli enti territoriali, espressamente riconosciuti normativamente come esponenziali, abbiano il diritto-dovere di rappresentare la collettività.

Essi sono enti pubblici per definizione super partes addetti alla cura, tutela e protezione dei beni della collettività.

A tale proposito non si può fare a meno di notare che esistono delle associazioni come i sindacati (previste già dalla Costituzione genericamente a mezzo dell’art. 18, espressamente nell’art. 39 ed implicitamente nell’art. 99) che hanno un “interesse”, in senso atecnico, ancor più pregnante ed evidente in relazione alla violazione della normativa antiinfortunistica.

Ebbene, a tale riguardo ancora non esiste un ben definito orientamento generale giacché è stato più volte deciso dal giudice di legittimità che ai fini della configurabilità dell’azione risarcitoria ex art. 2043 cod. civ., anche nel caso di fatto illegittimo per violazione di norma penale, è necessario che all’antigiuridicità della condotta corrisponda, contemporaneamente e direttamente, la violazione di un diritto soggettivo altrui sicché anche i danni non patrimoniali devono essere ingiusti e cioè derivare direttamente dalla lesione di un diritto soggettivo (Cass., sez. IV, sent. 16823, 23 maggio/21 dicembre 1990: fattispecie di esclusione della legittimatio ad causam delle associazioni sindacali per il risarcimento dei danni derivanti da omicidio colposo conseguente ad infortunio sul lavoro; v., anche, Sezioni Unite, sent. 6168, 21 maggio 1988/21 aprile 1989).

E ciò nonostante che già con il c.d. Statuto dei Lavoratori (legge 20 maggio 1970 n. 300) fossero state espressamente previste le rappresentanze per la prevenzione degli infortuni (art. 9) ovvero il diritto di associazione e di libertà sindacale (artt. 14 e ss.) ovvero ancora proprio le attività dei sindacati (artt. 19 e ss.).

A tanto si può aggiungere, poi, anche un argomento pratico che viene suggerito dallo stesso concetto di “ordinamento giuridico”, cioè di organizzazione del corpo sociale e dell’ordinato funzionamento delle sue istituzioni.

E cioè che non a caso gli artt. 91 e ss c.p.p. limitano la partecipazione al processo penale di tali enti non solo a ben precisi presupposti ma anche nel numero di uno soltanto.

Si osservi, da ultimo, che vi è un argomento logico riguardante la collocazione sistematica nel codice di rito della parte civile e della persona offesa situate sotto due titoli diversi: degli enti e delle associazioni si parla solo a proposito della parte offesa.

E’ noto che la parte offesa può essere anche danneggiato del reato e, quindi, autorizzato a costituirsi parte civile tanto più che, come si è visto, viene riconosciuta la legittimazione di queste associazioni proprio in qualità di danneggiati, ma tale collocazione appare significativa appunto perché a proposito della persona offesa il legislatore, nell’art. 90, ha precisato che essa può presentare memorie ed indicare elementi di prova.

E si ricordi quanto si è riferito essere stato precisato nella relazione Ministeriale.

D’altra parte, se si vuole ad ogni costo sostenere alla luce delle nozioni sopra indicate la legittimazione alla costituzione di parti civili di tali associazioni in quanto portatrici di un vero e proprio diritto soggettivo si potrebbe porre il problema di non comprendere a quali altri enti od associazioni si riferiscano gli artt. 91 e ss. c.p.p.

In pratica, si tratterebbe di norme, se non inutili, a tutto concedere, assolutamente residuali e per ipotesi marginali, relative più che altro alle associazioni quando ricorra un mero collegamento ideologico con il bene che si intende proteggere, come sostenuto da parte della giurisprudenza sulla base di un concetto, peraltro, in alcun modo normativizzato.

Da ultimo, appare anche il caso di richiamare che non esiste alcuna disposizione di immediata applicazione riguardante le associazioni in materia ambientale nella legislazione europea non dovendosi dimenticare che l’Italia fa ormai parte a pieno titolo di tale Comunità.

In effetti, è possibile richiamare solo la Direttiva del Consiglio europeo datata 27 giugno 1985 n. 387 che ha fornito agli Stati membri la nozione di "ambiente" dovendosi esso intendere come il contesto delle risorse naturali e delle stesse opere più significative dell'uomo protette dallo ordinamento perché la loro conservazione è ritenuta fondamentale per il pieno sviluppo della persona.

E più recentemente si ricorda che il “Progetto Ambiente per il terzo millennio”, redatto dalla Commissione Europea nel 1999 (comunicato n. 543), nel paragrafo intitolato <Partecipazione dei cittadini e dei soggetti interessati> si riferisce appunto a tali soggetti come portatori di interessi e non già di diritti a differenza dei cittadini.

Comunque sia, quel che è certo è che non può condividersi, per la contraddizione che non lo consente, una vera e propria costituzione di parte civile da parte di queste associazioni giacché il ricordato art. 74 del codice di rito consente la legittimazione all’azione civile in relazione al risarcimento del danno di cui all’art. 185 c.p.

E’ pacifico, invece, che tali associazioni non possano ottenere alcuna forma di liquidazione economica a titolo di risarcimento dal momento che tale liquidazione, per espressa disposizione di legge, va operata a favore dello Stato e di altri Enti Pubblici territoriali e non è concepibile una corresponsione di un risarcimento di danno di natura pubblica a favore di organismi non pubblici (v. ancora Cass., sez. III, sent. 439, 10 novembre 1993/19 gennaio 1994, MATTIUZZI).

In effetti, anche buona parte di quelle decisioni che ammettono assolutamente la possibilità di costituzione di parte civile da parte di queste associazioni precisano che non può essere riconosciuto ad esse il diritto al risarcimento del danno (v., ad esempio, Cass., sez. III, sent. 2603, 19 dicembre 1990/26 febbraio 1991, Contento) bensì soltanto, a parte il diritto alla rifusione alle spese legali, la facoltà di richiedere la remissione in pristino della situazione ambientale onde evitare una nuova compromissione del danno ambientale ovvero la sua prosecuzione.

E nella fattispecie, tanto non sarebbe neanche possibile dal momento che il danno ormai è avvenuto e, si spera, anche esaurito.

Semmai potrebbe essere richiesta la disattivazione totale della valvola che ha provocato la fuoriuscita dell’ammoniaca ma, per quanto è dato sapere dagli atti processuali, essa è già stata disattivata con un sistema sicuro e tutta quella linea produttiva verrà quanto prima smantellata.

Comunque, non si vuole continuare su tale argomento sia ragionando sia citando tutta quella giurisprudenza che o esclude in radice la possibilità di costituzione di parte civile (ad esempio, Cass., sez. III, sent. 7275, 18 aprile/23 giugno 1994, Galletti ed altri) ovvero l’ammette illimitatamente (v. Cass., sez. III, sent. 9837, 1 ottobre/19 novembre 1996, Locatelli).

In conclusione, si deve prendere atto della cospicua giurisprudenza di merito e di legittimità, oltre che della dottrina, che per le più varie ragioni giuridiche (ed in alcuni casi anche metagiuridiche) riconosce che queste associazioni, esplicitamente o implicitamente, sono titolari di un diritto soggettivo.

Tuttavia, in assenza in passato di una norma giuridica ben precisa ovvero di un orientamento interpretativo assolutamente consolidato ed ermeneuticamente giudicato corretto questo giudice ritiene di aderire a quella giurisprudenza che richiede che per le associazioni in questione debbano concorrere le condizioni all’uopo previste dal codice di procedura agli artt. 91 e ss. (v., ex plurimis, Cass., sez. VI, sent. 12063, 27 ottobre 1989/6 settembre 1990, CALDINI oppure sez. III, sent. 7275, 18 aprile/23 giugno 1994, Galletti).

Peraltro, a parere di questo giudice, al di là dei ragionamenti teorici finora svolti, la soluzione definitiva al problema è stata indirettamente ma molto chiaramente fornita proprio da una recente norma di legge.

Infatti, il terzo comma dell’art. 4 della legge 3 agosto 1999 n. 265 (Disposizioni in materia di autonomia e ordinamento degli enti locali) stabilisce che:”Le associazioni di protezione ambientale di cui all’articolo 13 della legge 8 luglio 1986 n. 349 possono proporre le azioni risarcitorie di competenza del giudice ordinario che spettino al comune e alla provincia, conseguenti a danno ambientale. L’eventuale risarcimento è liquidato in favore dell’ente sostituito e le spese processuali sono liquidate in favore o a carico dell’associazione”.

Appare evidente come il legislatore abbia escluso senza ombra di dubbio che tali associazioni siano titolari iure proprio del diritto di costituirsi parte civile tanto vero che espressamente nella norma si precisa che l’azione viene esercitata in sostituzione dell’ente territoriale a cui spetta il diritto.

A riprova è stabilito, come visto, che il risarcimento deve essere liquidato in favore dell’ente pubblico mentre alle associazioni compete solo la liquidazione delle spese processuali, cioè delle spese che si sono dovute sostenere per stare in giudizio in assenza del comune o della provincia.

Va, ora, esaminato il problema della presenza di tali associazioni in giudizio ai sensi degli artt. 91 e ss. c.p.p.

Al riguardo, occorre, innanzitutto, richiamare la precisazione della citata direttiva n. 39 secondo cui tali associazioni possono intervenire nel processo solo qualora l’offeso dal reato non sia costituito parte civile.

E’ pur vero che tale disposizione non è stata riprodotta nelle norme codicistiche ma ritiene questo giudice che di essa si debba tener conto in quanto, altrimenti, dovrebbe essere sollevata questione di illegittimità costituzionale nei confronti degli artt. 91 e ss. c.p.p. per violazione dell’art. 76 Costituzione non essendo stato rispettato un preciso criterio direttivo fissato dal legislatore delegante.

E nel caso di specie, esistono già le parte civili, a cominciare dallo Stato, rappresentato dal Ministero dell’Ambiente, a cui indiscutibilmente la più volte citata legge n. 349 del 1986 ha riconosciuto lo status di parte offesa e danneggiato del contestato reato.

Ma la questione non assume decisiva rilevanza dal momento che vi è un altro aspetto processuale che non è stato tenuto in alcun conto e che, invece, appare risolutivo della problematica in esame.

L’art. 92 c.p.p. prescrive che l’esercizio dei diritti e delle facoltà spettanti agli enti ed alle associazioni rappresentativi di interessi lesi dal reato è subordinato al consenso della persona offesa.

Nessun consenso risulta essere stato chiesto allo Stato ovvero ad un qualche altro ente territoriale interessato a questo processo.

Per inciso, da questo punto di vista non può essere ritenuta corretta quella teorica secondo cui non sarebbe necessario alcun consenso in quanto si tratta di reati con parti offese generiche ed indeterminate.

Nel caso di specie, oltretutto, il P.M. ha individuato specificamente anche due soggetti privati che hanno, più concretamente di qualunque altro, subito danni essendo stati affetti da precisi sintomi di intossicazione dell’ammoniaca dispersa nell’atmosfera.

Queste due persone costituiscono certamente parti offese non solo e non tanto perché sono state citate come tali nel presente processo, sempre su indicazione del P.M., ma anche perché in tema di danno ambientale, è legittimato a costituirsi parte civile (e, quindi, è parte offesa) anche il cittadino che non si dolga del degrado dell'ambiente, ma faccia valere una specifica pretesa in relazione a determinati beni, quali cespiti, attività, diritti soggettivi individuali (come quello alla salute), in conformità alla regola generale posta dall'art. 2043 cod. civ. (v. Cass., sez. I, sent. 10337, 12/28 ottobre 1992, Mandato ed altri proprio in tema di esalazioni maleodoranti che avevano cagionato alle persone affezioni morbose cui era conseguita invalidità temporanea).

Non risulta che neanche a costoro, così come in definitiva a nessuno, sia stato chiesto il prescritto consenso scritto.

Senza considerare, da ultimo, che solo una associazione potrebbe, sempre ai sensi del citato art. 92 c.p.p., essere presente nel processo laddove in questo caso si riscontra la presenza di 4 associazioni.

Ne consegue che le associazioni ambientaliste e mediche non possono partecipare ad alcun titolo a questo processo.

Gli enti pubblici

Per quanto concerne il Ministero dell’Ambiente le osservazioni della Difesa degli imputati avverso la sua costituzione sono infondate in quanto in questa sede non si discute certo del quantum debeatur ovvero delle modalità del risarcimento (cioè, ristoro pecuniario e/o rimessione in pristino).

Né appare possibile obiettare che non essendo stato contestato un reato previsto dalla legislazione ambientale la costituzione di parte civile da parte dello Stato non sarebbe consentita.

La dizione dell’art. 18 secondo cui: ”Qualunque fatto doloso o colposo...che comprometta l’ambiente..obbliga al risarcimento nei confronti dello Stato” è talmente ampia e generica da non ammettere limitazione alcuna.

Del resto, tanto è conforme alla nozione di ambiente ed al concetto di danno ambientale quale è stato delineato dalla Corte Costituzionale nelle richiamate decisioni.

In particolare, poi, a proposito della disposizione di cui all’art. 437 c.p. contestata dall’Accusa non si può fare altro che ribadire quanto già affermato nella precedente udienza nell’ordinanza di rigetto di un’eccezione difensiva.

La norma è inserita nel titolo denominato “Dei delitti contro l’incolumità pubblica” per cui non appare possibile affermare genericamente che essa tratti solo di eventuali infortuni.

Tanto più se si tiene presente che secondo la costante giurisprudenza il pericolo per l'incolumità pubblica non è elemento costitutivo del delitto di rimozione ed omissione dolosa di cautele contro gli infortuni, ma ne costituisce la ratio che giustifica l'incriminazione.

Inoltre, nel primo comma dello stesso art. 437 è previsto un reato di pericolo (tra l’altro presunto) laddove nel secondo comma il legislatore ha voluto trattare la concreta evenienza di un evento.

E nel capo d’imputazione è proprio descritto l’evento verificatosi con il malore causato dalla perdita di ammoniaca a varie persone ed, in particolare, a due operai di un’altra ditta.

Sussiste, quindi, violazione dell’incolumità pubblica e conseguente danno ambientale poiché è rimasto accertato che sono rimasti colpiti dalle esalazioni i dipendenti di un’altra fabbrica, peraltro neanche vicinissima, per cui appare del tutto evidente come abbiano subito danni l’ambiente ed i cittadini.

In altre parole, fu interessata dall’evento non solo la collettività dei lavoratori della ENICHEM ma anche qualunque altra persona che si trovasse nel raggio di diffusione della nube tossica.

Con conseguente lesione diretta ed immediata.

Appare opportuno, a questo punto, chiarire che il concetto di pubblica incolumità è caratterizzato dalla "indeterminatezza" e non dal numero rilevante delle persone che si possono trovare in una situazione di pericolo (v. Cass., sez. IV, sent. 2699, 5 dicembre 1983/22 marzo 1984, ALBANO).

Perspicuo, comunque, è l’insegnamento che si rileva su tutta la tematica da una massima della S.C. in materia in cui si parla appunto di messa a repentaglio della vita o della integrità fisica di una comunità o collettività di persone e che il legislatore, sulla base dell'id quod plerumque accidit, ha considerato la condotta tipica descritta nella norma come astrattamente idonea a produrre effetti dannosi capaci di propagarsi a un numero indeterminato di persone (Cass., sez. IV, sent. 10812, 4 maggio/1 agosto 1989, MICALIZZI).

Seguendo la tesi contraria si dovrebbe pervenire alla conclusione che persino l’esplosione di una bomba atomica non rechi danno all’ambiente in quanto non identificabile in una violazione alla normativa ambientale.

Deve essere assolutamente escluso, poi, che si sia trattato di una violazione meramente formale tanto vero che, come già detto, è stato contestato un evento naturalistico e, quindi, un concreto effetto dell’omissione sicché non può non ravvisarsi un danno all’ambiente quanto meno sotto forma di alterazione dello stesso.

Né ai fini che ci interessano rileva se l’alterazione sia stata grave o lieve come dimostrato dalla stessa norma di legge che precisa come il danno all’ambiente possa anche essere parziale.

Compete, poi, al giudice del merito la valutazione e quantificazione di siffatto danno.

Ciò posto, la più volte richiamata legge n. 349 del 1986 attribuisce in genere allo Stato l’esercizio dell’azione per il risarcimento ed è demandata al Ministero dell’Ambiente, da tutti i punti di vista e per qualunque aspetto, la funzione di dare concreta e pratica applicazione a tale diritto.

Pertanto, legittimamente si è costituito parte civile quell’organo dell’Amministrazione statale che naturalmente rappresenta tutti gli organi dell’Amministrazione a tutti gli effetti.

Senza contare che nell’udienza del 6 aprile 2000, in cui si è concluso l’accertamento delle parti, era stata eccepita la legittimità della costituzione di parte civile solo delle associazioni private e non già dello Stato (v. Cass., sent. 205221, 31 gennaio 1996, MAZZA).

Per quanto concerne la provincia ed il comune si è già riferito come la stessa legge n. 349 del 1986 riconosca anche a tali enti territoriali gli stessi diritti dello Stato.

Ne consegue che non appare necessario spendere alcuna parola per dimostrare come anche tali enti siano titolari del diritto a costituirsi parti civili in quanto valgono esattamente le medesime argomentazioni riferite a proposito dello Stato.

Tanto consegue ai loro compiti istituzionali specificati legislativamente sia in precedenza che successivamente.

Oltretutto, la citata legge n. 265 del 1999 ribadisce la loro titolarità sia a proporre l’azione risarcitoria sia a beneficiare dell’eventuale risarcimento anche quando non si siano costituiti ma vi sia altro soggetto che agisca in loro vece.

D’altra parte, qualunque eccezione cede il passo davanti alla scelta legislativa che appare insindacabile.

Occorre esaminare a questo punto la posizione dell’associazione denominata Grenpeace la quale si è costituita anche in sostituzione del Comune di Venezia ai sensi della testé richiamata legge.

La soluzione, tuttavia, appare di estrema semplicità dal momento che la chiara formulazione del terzo comma dell’art. 4, in precedenza riportato testualmente, indica come l’associazione sia semplicemente un sostituto.

Non può non dedursene che nel momento in cui l’ente territoriale sia presente nel processo proprio come parte civile l’associazione privata non abbia più alcun titolo a partecipare allo stesso processo in sostituzione ai sensi di questa disposizione di legge.

Eventualmente, l’associazione potrà partecipare ad adiuvandum per effetto degli artt. 91 e ss. c.p.p., la qual cosa conferma quanto si è detto in precedenza in ordine alla funzione di queste norme.

PER QUESTI MOTIVI

Visti gli artt. 80 e 95 c.p.p.

1) esclude la costituzione di parte civile ovvero l’intervento delle associazioni denominate Greenpeace, Lega Ambiente, Verdi Ambiente e Società e Medicina Democratica.

2) respinge le eccezioni per quanto riguarda il Ministero dell’Ambiente nonché il Comune e la provincia di Venezia confermando la legittimità della loro costituzione quali parti civili.

Ordina procedersi oltre nell’udienza preliminare.

Venezia, 10 ottobre 2000

                                                                  IL GIUDICE PER LE INDAGINI PRELIMINARI

                                                         dr. Giandomenico Gallo

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