Tribunale di Terni, in composizione monocratica,
Ordinanza 14 luglio 2000

TRIBUNALE DI TERNI

Il giudice monocratico ANGELO MATTEO SOCCI, udita la discussione, letti gli atti del procedimento penale, N. 900/1999 contro l'imputato
G. P., nato a ____ il _______, imputato
del reato di cui agli art. 81 cpv., 610 e 594 c.p. per avere con più azioni esecutive del medesimo disegno criminoso, con violenza consistita nello sbarrare la strada con la propria autovettura a quella condotta da T. M. T., costretto la stessa a fermarsi e minacciato alla medesima un ingiusto danno dicendo alla figlia minore Roberta "ti faccio vedere io", nonché offeso T. M. T. - presente ? nell'onore: "mignotta".
In Terni, il 7 febbraio 1995.

OSSERVA

L'imputato è stato citato a giudizio, con decreto di citazione del 18 maggio 1999 dalla procura della repubblica presso la pretura circondariale di Terni, per rispondere del reato sopra rubricato.
L'imputato però è stato già giudicato dal Tribunale di Terni con sentenza del 16 aprile 1999, per il fatto di cui all'attuale capo d'imputazione e per altri fatti connessi. In particolare il capo d'imputazione della sentenza del Tribunale di Terni del 16 aprile 1999, lettera E dell'imputazione e così concepito: "del reato p. e p. dagli art. 81, 610 e 594 c.p. perché trovandosi alla guida della propria autovettura Renault 5 previa manovra di sorpasso dell'auto condotta dalla T. e ponendosi trasversalmente rispetto alla carreggiata e di fronte alla citata auto della T., impediva alla stessa di proseguire quindi picchiando con pugni sul finestrino pronunciava e gesticolava in maniera ingiuriosa e minacciosa.
In Terni il 7.2.95".
E' evidente l'identità dei fatti dei due capi d'imputazione, con particolarità attinenti alla diversa tecnica di formulazione dell'imputazione da parte di due pubblici ministeri diversi.
Sia la difesa, sia il P.M. d'udienza, infatti hanno concluso per la assoluzione stante il divieto di un secondo giudizio sugli stessi fatti.
L'imputato con la citata sentenza del tribunale è stato condannato per il reato di cui all'art. 610 c.p., ed assolto perché il fatto non sussiste per l'art. 594 c.p., oltre alla condanna al pagamento delle spese processuali e di custodia cautelare.
La richiesta concorde delle parti processuali di assoluzione stante il divieto di un secondo giudizio sugli stessi fatti deve trovare accoglimento, in base al principio generale che non è consentito, in pendenza di un procedimento già concluso con sentenza di condanna, per lo stesso fatto ed in confronto della stessa persona, un nuovo procedimento. Invero il principio del ne bis in idem (che tende ad evitare che per lo stesso fatto-reato si svolgano più procedimenti e si emettano più provvedimenti, anche non irrevocabili ed uno differente dall'altro) ha portata generale ed opera in tutto l'ordinamento penale, esso trova infatti espressione nelle norme sui conflitti positivi di competenza (art. 28 e s. c.p.p.), nel divieto di un secondo giudizio (art. 649 c.p.p.) e nella disciplina dell'ipotesi in cui, per il medesimo fatto, siano state emesse più sentenze nei confronti della stessa persona (art. 669 c. p p.) - Cfr. Cass. 12 marzo 1999, n. 512; Cass. 22 ottobre 1995, n. 1919 -.
La difesa ha chiesto "la condanna alle spese dell'erario dello Stato. Deposita nota spese previa, se necessario rimessione degli atti alla Corte Costituzionale per incostituzionalità della normativa, dove non prevede la condanna alle spese". All'odierna udienza il difensore ha depositato nota integrativa per le spese vive, di lire 27.000 totali.
La questione sollevata è tanto semplice, tanto nuova, tanto dirompente e tanto rilevante.
In base all'attuale normativa non è consentito al giudice terzo di condannare lo Stato al pagamento delle spese processuali nei casi di assoluzione, e nemmeno nei casi di palese errore d'esercizio dell'azione penale ? come nel caso di specie, dove la parte offesa in querela ? denuncia (tramite il suo difensore) aveva indicato la presenza di altro procedimento specificando anche il numero, cfr. denuncia querela dell' 8 febbraio 1995 -. Né risulta possibile un'interpretazione della normativa costituzionalmente orientata, che giunga ad un tale, pur giusto, risultato. Sia gli art. 529 e 530, sia gli art. 649 e 669 c.p.p., nulla dispongono al riguardo, e quindi il giudice di merito non può condannare l'erario al pagamento delle spese, nel silenzio delle norme, con un'integrazione delle disposizioni (con sentenza additiva che può essere solo della Corte costituzionale) neanche con l'analogia, relativamente alla speculare previsione dell'art. 533 (ed anche 691) c.p.p., che prevede la condanna (ed il recupero) alle spese a carico del condannato. E' necessario e rilevante, quindi, rimettere gli atti alla Corte Costituzionale.
Giova preliminarmente analizzare il caso anche alla luce delle norme sul gratuito patrocinio (legge 30 luglio 1990, n. 217, e RD. 3282 del 1923), e sulla riparazione dell'errore giudiziario (art. 643 e s. c.p.p.), o per l'ingiusta t detenzione (art. 314 e s. c.p.p.).
Il gratuito patrocinio attiene alla difesa dei non abbienti, siano colpevoli od innocenti. L'art. 3 della legge 217/1990 prevede limiti di reddito, ma nulla dice sulle ragioni dell'imputato, quindi sia per i colpevoli (rectius, per quelli che saranno giudicati tali, da sentenza irrevocabile), sia per gli innocenti, se non abbienti, ci sarà l'ammissione al patrocinio dello stato con gli effetti di cui all'art. 4 della legge 217/1990. Anche in caso di condanna non è prevista una revoca del gratuito patrocinio. L'art. 14 della legge 217/1990 prevede solo la condanna del querelante al pagamento delle spese in favore dello stato e non dell'imputato.
La questione che si va a sollevare, invece, investe la condanna dello Stato al pagamento delle spese in favore di imputati (a prescindere dal loro reddito, abbienti o no) dichiarati innocenti con sentenza, così come, quando l'imputato è dichiarato colpevole, lo si condanna al pagamento delle spese ex art. 533 c.p.p.
La riparazione dell'errore giudiziario e dell'ingiusta detenzione agisce sulla "riparazione", intesa quale risarcimento del danno limitato dell'entità (l'art. 314 c.p.p., parla di "equa riparazione"; l'art. 643 cp.p., di "riparazione commisurata alla durata della eventuale espiazìone della pena e alle conseguenze personali e familiari derivanti dalla condanna").
La questione che si va a sollevare investe, invece, non un risarcimento del danno, ma il ristoro delle spese, affrontate per sostenere la propria riconosciuta innocenza.
Fatte queste necessarie premesse devono affrontarsi i parametri di costituzionalità che si intendono sottoporre all'attenzione della suprema Corte Costituzionale.
Il parametro principale è costituito senza dubbio dall'art. 111, comma 2, Costituzione (come recentemente novellato dalla legge costituzionale n. 2 del 1999): "Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo ed imparziale...".
Questa secca disposizione, sintetica, che potrebbe apparire scontata, contiene in sé, se efficacemente, razionalmente, sviluppata importanti novità costituzionali, validi per "ogni processo", ma soprattutto per il processo penale, che nella nostra cultura giuridica aveva sempre visto il P.M. in posizione di predominio sulla parte imputato.
Le "condizioni di parità" non possono certamente essere limitate al contraddittorio, come qualche sprovveduto potrebbe pensare, ma riferite sicuramente a tutto lo svolgimento del processo; compresa la fase delle spese.
La norma potrebbe anche leggersi nel seguente modo: "Ogni processo si svolge in condizioni di parità, nel contraddittorio tra le parti, davanti a giudice terzo ed imparziale".
La condizione di parità delle parti, tradizionalmente nel processo civile (processo e cultura processuale civile, che a questo punto, proprio per l'art. 111 Cost. assume una nuova centralità), ha portato alla tradizionale affermazione che la parte vittoriosa ha diritto all'integrale ristoro delle spese, altrimenti è come se non avesse completamente vinto. Nel processo penale, invece anche chi andava assolto con formula ampia ? anche per grave negligenza dell'accusa, come nel nostro caso, come sopra visto ? minimo, sopportava ingenti spese per difendersi da accuse dimostratesi, poi, fallaci.
La cultura processuale penale giustificava ciò dalla preminenza che il P.M., parte pubblica, aveva nel processo (si parlava infatti di parte imparziale, con una contraddittorietà insita nella stessa formulazione letterale).
L'art. 111 della Costituzione non distinguendo più il processo penale dal civile, considerando le parti di qualsiasi processo, civile, penale, tributario, amministrativo ecc., in condizioni di parità, apre la strada per considerare non manifestamente infondata e rilevante la questione di costituzionalità delle norme che prevedono l'assoluzione, ma non la condanna dell'erario al pagamento delle spese processuali in favore dell'imputato. Le parti non sono, infatti in condizione di parità davanti a giudice terzo ed imparziale, se questi può, anzi deve, condannare una di esse al pagamento delle spese in caso di soccombenza (rectius, condanna), ma non può tare altrettanto in caso di diversa soluzione (assoluzione).
La parità delle parti può ristabilirsi solo se al giudice è dato fare la stessa cosa per entrambe le parti, così come nel processo civile (art. 91 e s. c.p.c.).
Se così non fosse la parte P.M. sarebbe in posizione di supremazia, non giustificabile alla luce dell'art. 111 cost. come recentemente novellato.
Altro parametro di costituzionalità è quello dell'irragionevolezza della normativa che prevede per una parte di un processo (l'accusa) il favore delle spese, e per l'altra parte (l'imputato) solo la condanna in caso di soccombenza (rectius, condanna) e nessun favore delle spese in caso di vittoria (rectius, assoluzione). Comunque l'imputato ingiustamente accusato, anche se dichiarato innocente, avrebbe subito un depauperamento delle sue sostanze, quantomeno equivalente all'esborso sostenuto per affrontare il processo.
Ulteriore .parametro di costituzionalità è quello dell'art. 3, costituzione, principio di uguaglianza, perché se non si concede il ristoro delle spese in caso di vittoria (rectius, assoluzione), ma si condanna in caso di soccombenza (condanna) al rimborso delle spese, i due casi (i due cittadini) benché uguali (integrando l'art. 3 con l'art. 111 della Cost.) sono trattati diversamente dal giudice (e quindi dalla legge. Giudice che non risulterebbe così terzo ed imparziale, nel mentre condanna il soccombente al pagamento delle spese e non ristora delle stesse il vittorioso). Infine viene in rilievo anche l'art. 24 Cost. poiché un diritto di difesa non può ritenersi garantito se chi ha speso ingenti somme per difendersi sa che sicuramente non li recupererà mai: potrebbe non difendersi adeguatamente, per non spendere.
La questione sollevata è pertanto non manifestamente infondata, oltre che evidentemente rilevante (non potendo questo Giudice pronunciarsi sulle spese, richieste dalla difesa). Pertanto deve sollevarsi questione di costituzionalità dell'art. 530 c.p.p. (norma che nel caso in analisi viene in rilievo strumentale per la decisione, per le altre norme citate, sarà la stessa Corte Costituzionale, nell'ambito della sua discrezione, ad auto sollevarsi la questione), nella parte in cui non prevede la condanna al rimborso delle spese in favore dell'imputato che deve assolversi, in relazione agli art. 111, comma ?, 3 e 24 della costituzione.

P.Q.M.

Dichiara rilevante e non manifestamente infondata la dedotta questione di costituzionalità dell'art. 530 c.p.p. nella parte in citi non prevede la condanna dello stato al rimborso delle spese in favore dell'imputato da assolversi, in relazione agli art. 111, comma 2, 3 e 24 della Costituzione;
Ordina la trasmissione degli atti alla suprema Corte Costituzionale;
Dichiara sospeso il procedimento;
Ordina la notificazione della presente ordinanza al Presidente del Consiglio dei Ministri e la comunicazione ai Presidenti delle dite Camere del Parlamento della Repubblica.
Manda alla cancelleria per gli adempimenti.

Terni 14 luglio 2000

Il Giudice
Angelo Matteo Socci

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