Tribunale
di Rimini, in composizione collegiale,
Ordinanza 28 giugno 2000
(con nota di Carlo Alberto Zaina e Filippo Maria Airaudo)
IL TRIBUNALE DI RIMINI
A scioglimento della riserva in atti ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
Il Tribunale, sull'eccezione
sollevata in via principale dalla difesa in ordine alla implicita abrogazione
dell'art. 513 c.p.p. per effetto del novellato art. 111 della Costituzione ed,
in via subordinata, sulla questione di legittimità costituzionale dell'art.
513 c.p.p.;
sentito il P.M.;
OSSERVA
Il procedimento ha per oggetto
una rapina consumata in Rimini il 21 aprile 1997, ai danni della Banca X, ove
i malviventi si impossessavano, con uso di armi, della somma di L.279.446.000.
Nel corso delle indagini preliminari, tal M.S. ammetteva davanti al P.M. la
propria responsabilità in ordine a tale fatto chiamando in correità
gli odierni imputati, D.C.Z., C.T., P.G. e P.D..
Citato in dibattimento ai sensi dell'articolo 210 c.p.p. quale imputato in procedimento
connesso avendo il medesimo chiesto ed ottenuto la definizione della propria
posizione con il rito abbreviato, si avvaleva della facoltà di non rispondere.
A questo punto le difese, sulla richiesta del P.M. di effettuare le contestazioni
ex articolo 513 c.p.p. presentavano opposizione invocando l'applicazione delle
disposizioni dell'articolo 111 Cost., così come modificato dalla L. cost.
23.11.1999 n. 2.
Con detta legge il legislatore modificando l'articolo 111 della Costituzione
ha espressamente disposto che "la colpevolezza dell'imputato non può
essere provata sulla base di dichiarazioni rese da chi, per libera scelta. Si
è sempre volontariamente sottratto all'interrogatorio da parte dell'imputato
o del suo difensore" e ciò al fine di garantire la pienezza del
contraddittorio in tutte le fasi del procedimento.
In attuazione dell'indicato principio del "giusto processo" il decreto
legge n. 2/2000 ha applicato le disposizioni introdotte dal novellato art. 111
della Costituzione, ai procedimenti penali in corso alla data di entrata in
vigore della legge costituzione nei quali non sia ancora intervenuta la dichiarazione
di apertura del dibattimento.
La successiva legge di conversione del suddetto decreto nr. 35/2000 ha esteso
l'applicabilità immediata dei nuovi principi costituzionali ai procedimenti
in corso e, di conseguenza, anche all'odierna vicenda processuale.
Le modifiche costituzionali introdotte dall'articolo 111 hanno dunque rivisitato
l'intero sistema processuale di assunzione e di formazione della prova in contraddittorio
tra le parti, incidendo non solo, come evidenziato dalla difesa, sul contenuto
dell'art. 513 C.P.P. ma, come peraltro già sottolineato dalla giurisprudenza
di merito (cfr ordinanza del Tribunale di Milano del 20/03/2000) anche sulla
disciplina dettata dall'articolo 210 C.P.P. per l'assunzione delle dichiarazioni
di imputati di reato commesso, sotto il profilo relativo alla previsione della
facoltà di non rispondere in ordine a circostanze concernenti la responsabilità
di altri.
Invero, attraverso il combinato disposto dell'articolo 111 della Costituzione
e della relativa legge di conversione, si è stabilito che le dichiarazioni
degli imputati di reato connesso, i quali come accaduto nell'odierna vicenda
processuale, una volta citati in dibattimento, ai sensi dell'art. 210 CPP si
avvalgono della facoltà di non rispondere, possono essere acquisite al
fascicolo del dibattimento solo ed esclusivamente qualora risultino provate
le condizioni tassativamente imposte dal V Comma dell'art. 111 (consenso riportato;
impossibilità di natura oggettiva; provata condotta illecita).
Ciò posto, non sembra
possa sostenersi che l'articolo 513 C.P.P. sia stato abrogato implicitamente
dal novellato articolo 111 della Costituzione.
Invero, secondo l'articolo 15 della disposizioni sulla legge in generale si
può avere abrogazione espressa, quando una norma venga abrogata da una
successiva che esplicitamente dichiari tale effetto, oppure, abrogazione tacita,
quando le disposizioni di una norma risultino incompatibili con quelle di una
norma successiva o, ancora, nei casi in cui la nuova legge regoli in modo diverso
l'intera materia già regolata, per singoli aspetti, dalla legge anteriore.
La disposizione in commento, tuttavia, si riferisce alla successione nel tempo
di fonti di pari grado, presupposto che non ricorre nel caso di specie, pur
in presenza di un'apposita legge di conversione, atteso che le profonde innovazioni
nell'attuale sistema processuale di assunzione delle prove, sono state introdotte
con una norma di rango costituzionale.
Di conseguenza, con riferimento al caso di specie ed al rapporto tra Costituzione
e leggi ordinarie, il Collegio condividendo l'opinione ripetutamente espressa
dalla giurisprudenza ritiene che il problema interpretativo debba essere impostato
in termini di invalidità della legge, sollevando questione di legittimità
costituzionale e riservando alla Corte Costituzionale, organo istituzionalmente
competente, le decisioni sulla compatibilità delle nuove norme con quella
anteriore di rango inferiore (Corte Cost. 8/49).
Appare infatti di immediata evidenzia il contrasto tra la nuova disciplina e
quella prevista dell'art. 513 C.P.P., come novellato dalla sentenza della Corte
Costituzionale nr. 361/98, la quale permette nei casi in cui l'imputato di procedimento
connesso si sia avvalso della facoltà di non rispondere, l'acquisizione
attraverso il meccanismo della contestazione e l'utilizzabilità di tali
dichiarazioni, laddove, le stesse trovino nel complesso delle emergenze processuali
altri elementi di riscontro.
Sotto questo profilo dunque la questione di legittimità costituzionale
dell'art. 513 C.P.P. appare rilevante e non manifestamente infondata proprio
perché nel caso di specie le dichiarazioni di S.M. imputato di reato
connesso (avendo egli già definito la propria posizione con il rito abbreviato)
costituiscono il nucleo centrale dell'assunto accusatorio, così come
dimostrato dal fatto che l'audizione del S. è stata espressamente indicata
nella richiesta di prove formulate dal P.M. art. 493 C.P.P. ed ammessa dal Tribunale
con ordinanza del 10.5.2000.
Del resto, tali dichiarazioni non possono essere acquisite al fascicolo del
dibattimento, in quanto alla stessa udienza il medesimo si è avvalso
della facoltà di non rispondere e non risultano poi elementi da cui desumere
l'esistenza della situazioni eccezionali previste dal V comma dell'art. 111
Cost., in deroga al principio dell'assunzione delle prove in contraddittorio.
La questione appare altresì rilevante e non manifestamente infondata
anche con riferimento al contenuto dell'art. 210 C.P.P., con la conseguente
necessità di sollevare d'ufficio la questione di costituzionale anche
sotto questo diverso aspetto non considerato dalla difesa.
Invero, ritiene il Collegio condividendo le considerazioni già espresse
dal Tribunale di Milano nell'ordinanza sopra richiamata che il cosiddetto "diritto
al silenzio", riconosciuto al coimputato o all'imputato di reato connesso
ai sensi dell'art. 210 C.P.P., si ponga nettamente in contrasto con il nuovo
assetto normativo, in materia di assunzione delle prove in contraddittorio,
stabilito dall'art. 111 della Costituzione. E' di tutta evidenza infatti che
il comportamento processuale del coimputato e dell'imputato di reato commesso,
i quali dopo aver reso nella fase delle indagini preliminari dichiarazioni concernenti
la responsabilità altrui, una volta citati in dibattimento, si avvalgono
della facoltà di non rispondere e ciò nel legittimo esercizio
di un loro preciso diritto ex 210 C.P.P., confligge inevitabilmente con il diritto
dell'accusato al confronto dialettico nella pienezza del contraddittorio sancito
dalle novellate norme costituzionali.
Ne deriva, che il contemperamento delle due opposte esigenze - diritto al silenzio
previsto dall'art. 210 C.P.P. e assunzione della prova in contraddittorio -
può essere assolto, solo con la limitazione della facoltà di non
rispondere in dibattimento riconosciuta alle persone di cui all'articolo 210
co. 1 che, per effetto dei nuovi principi introdotti dall'articolo 111 Cost.,
non può più essere assoluta e valida per il dichiarante "erga
alios".
Al contrario, tale facoltà deve essere intesa nel senso di ravvisare
la sussistenza a carico di tali soggetti che abbiano deciso nella fase delle
indagini preliminari di rendere dichiarazioni accusatorie nei confronti di altri
coimputati, di un preciso obbligo giuridico di deporre in dibattimento su fatti
concernenti la responsabilità degli accusati, (fatto salvo il diritto
di astenersi dal rendere dichiarazioni autoincriminanti, posto che tale diritto
non risulta affatto incompatibile con il riconoscimento all'imputato della possibilità
di assumere volontariamente la veste di testimone) e, per contro, della conseguente
irrevocabilità per gli stessi soggetti nelle successive fasi del procedimento,
della strategia processuale originariamente intrapresa, suscettibile di produrre
nella fase predibattimentale conseguenze anche gravi (quali ad esempio, eventuali
emissione di misure cautelari) nei confronti degli accusati.
Tale assunto appare del resto pienamente in linea con le modifiche al codice
di procedura penale in materia di formazione e valutazione della prova introdotte
dal progetto di attuazione delle garanzie del giusto processo di cui all'art.
111 Cost., (6590/C nel testo già approvato al Senato), laddove, quale
prima linea d'intervento è prevista una consistente riduzione dell'incompatibilità
a testimoniare ex art. 197 c.p.p.. In particolare viene espressamente previsto,
con riferimento agli articoli 12 e 372 c.p.p., che: a) gli imputati di reato
connesso o collegato, con l'eccezione dei coimputati del medesimo reato, non
avranno più la facoltà di non rispondere in ordine a fatti concernenti
la responsabilità di altri, assumeranno al riguardo la qualità
e gli obblighi del testimone.
b) anche i coimputati del medesimo reato assumeranno, relativamente a fatti
concernenti la responsabilità di altri, la qualità e gli obblighi
del testimone, quando nei loro confronti sarà stata pronunciata sentenza
definitiva di assoluzione o di condanna o di applicazione pena ex articolo 444
c.p.p.;
c) la esclusione del diritto al silenzio, fino ad oggi garantita a qualsiasi
imputato di reato connesso, potrà valere solo con riferimento a fatti
concernenti la responsabilità altrui e non anche relativamente alle dichiarazioni
autoaccusatorie;
se chi è chiamato a deporre (testimone o imputato di reato connesso)
renderà dichiarazioni difformi da quelle rese in precedenza, le precedenti
dichiarazioni potranno essere utilizzate per le contestazioni e saranno valutate
dal giudice, ai fini del suo libero convincimento, unitamente a quelle rese
in dibattimento.
Né d'altro canto può dubitarsi che strettamente correlata alle
questioni di legittimità così come sopra prospettate, si presenti
anche quella di cui all'articolo 392 comma I lettera D) c.p.p. nella parte in
cui consente la richiesta da parte del P.M. di incidente probatorio al G.I.P.
soltanto nei casi in cui ricorra una delle circostanze previste nelle lettere
A) e B) dello stesso articolo, impedendo di fatto in tale modo alla Pubblica
Accusa di promuovere immediato incidente probatorio, in tutti i casi in cui
un imputato effettui una chiamata in correità nei confronti dei coimputati,
al di fuori dei casi previsti nelle suindicate lettere A) e B).
In tal modo provvedendosi ex lege alla individuazione di un momento processuale
specifico, nell'ambito del quale possa cristallizzarsi la scelta di rendere
dichiarazioni relative a responsabilità di altri e consentirne la conseguente
utilizzabilità in dibattimento, indipendentemente dalla successiva condotta
processuale del dichiarante.
Del resto, la riduzione dei casi in cui le persone previste dall'articolo 210
c.p.p. possono avvalersi della facoltà di non rispondere oltre a garantire
la effettività del contraddittorio in tutti i casi possibili, in ossequio
al disposto del nuovo articolo 111 della Costituzione, appare conforme al principio
"di non dispersione della prova" già sancito dalla Corte Costituzionale
con sentenza n. 255/1992 secondo il quale: "Fine primario ed ineludibile
del processo penale non può che rimanere quello della ricerca della verità",
principio che sempre secondo la Corte esige il recupero delle dichiarazioni
raccolte dagli organi inquirenti, nonché la conservazione degli elementi
di prova non compiutamente o non genuinamente acquisibili con l'oralità
del contraddittorio (cfr in tal senso la sentenza n. 361/98).
Da qui la necessità per il raggiungimento delle fine ultimo del processo
penale di un bilanciamento tra tali principi costituzionalmente garantiti e
quello, altrettanto fondamentale, dell'acquisizione della prova in contraddittorio,
attraverso la compressione della facoltà di non rispondere prevista,
così come attualmente dall'articolo 210 c.p.p..
La scelta contraria implicherebbe il sacrificio della fondamentale funzione
conoscitiva del processo penale e del principio del libero convincimento del
giudice.
P.Q.M.
Visti gli articoli 134 Cost.; 23 e segg. L. 11 marzo 1953 n. 87, ritenuta rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 513 c.p.p., dell'articolo 210 c.p.p., quarto comma c.p.p., limitatamente alla previsione circa la facoltà di non rispondere su fatti concernenti la responsabilità di altri e dell'articolo 392 lettera D) c.p.p., nelle parte in cui limita i casi in cui può essere richiesto incidente probatorio in ordine alle dichiarazioni delle persone indicate nell'articolo 210 c.p.p., ai soli casi previsti dalle lettere A) e B), per violazione degli articoli 3, 25, 111, 112 Cost.
DISPONE
la trasmissione degli atti del procedimento alla Corte Costituzionale;
Manda alla Cancelleria per la notificazione della presente ordinanza al Presidente del Consiglio dei Ministri, nonché, per la comunicazione ai Presidenti della Camere del Parlamento della Repubblica.
SOSPENDE
il dibattimento fino all'esito del giudizio incidentale di legittimità costituzionale.
Rimini lì 28.6.2000
IL Presidente
PIERLEONE FOCHESSATI
*********
Il silenzio dibattimentale del coimputato: dubbi interpretativi e prospettive future degli artt. 513 e 210 c.p.p..
L'ordinanza del Tribunale
di Rimini, con la quale si devolve all'attenzione della Corte Costituzionale
la valutazione di conformità all'ordinamento degli artt. 513, 210 e
392 lett. d) c.p.p., merita particolare attenzione, soprattutto in relazione
alla tematica riguardante l'esercizio del diritto al silenzio da parte dell'imputato,
già giudicato separatamente, che in fase di indagini preliminari o
nell'udienza preliminare abbia rilasciato all'autorità dichiarazioni
auto ed eteroindizianti.
Il Collegio, infatti, avverte il disagio della mancata evoluzione normativa
(rectius adeguamento normativo) dell'istituto regolato dall'art. 210 c.p.p.,
che si porrebbe, come ultroneo rispetto alla epocale ristrutturazione sia
dell'art. 111 Cost., che del travagliato e continuo mutamento di pelle dell'art.
513 c.p.p..
In pratica, se quest'ultima norma ha dovuto, in modo radicale, scontare il
dirompente effetto garantista di cui sembra permeato l'art. 111 della Costituzione,
(con la conseguenza di un concreto mutamento del regime relativo alle letture
delle dichiarazioni accusatorie dell'imputato, e dell'impossibilità
per il giudice di utilizzare a fini di giudizio (rectius di condanna) le dichiarazioni
di cui al co. 1° dell'art. 513 c.p.p., senza il consenso dell'interessato),
appare evidente, secondo il pensiero del Collegio, che sia necessario che
si equilibri la situazione, in quanto l'art. 210 c.p.p., richiamato dal co.
2° dell'art. 513 c.p.p. risulterebbe, in concreto norma ad effetti premiali
per l'imputato.
Questi, infatti, bene potrebbe venir quasi automaticamente assolto nel silenzio
dibattimentale dell'accusatore, e nell'impossibilità di rendere utilizzabili,
a fini decisori le di lui dichiarazioni rese aliunde, cioè in precedenza
(in caso di assenza di altri elementi di prova)
Va detto che, a parere di chi scrive, se rilevante appare la questione in
ordine al contrasto fra l'art. 513, così come risultante dalla sent.
n. 36 del 2 Novembre 1998 della Corte Costituzionale, che ha rilevato l'impossibilità
dell'utilizzo ex art. 500 c.p.p. (co 2 bis e 4 c.p.p.) delle dichiarazioni
precedentemente rese dal dichiarante che si avvalga della facoltà di
non rispondere in dibattimento, la massima portata dell'ordinanza in esame
si dispiega in relazione alla distonia diretta che si parrebbe evidenziarsi,
secondo i primi giudici, fra l'art. 111 cost. e l'art. 210 c.p.p..
Il Tribunale, infatti, sia per l'una, che l'altre delle indicate questioni
si pone il problema tecnico del recupero delle dichiarazioni accusatorie rese
nel corso delle indagini, laddove in sede dibattimentale la persona da esaminare,
regolarmente citata, non intenda rispondere.
Per quanto attiene alla situazione regolata propriamente dall'art. 513 c.p.p.,
si evidenzia la rilevante contrapposizione fra l'intervento del Giudice delle
Leggi, (che - nella nota sentenza, richiamata - ha fornito una intepretazione
estensiva, per il caso di mancato accordo fra le parti, ritenendo che le dichiarazioni
rese in indagine preliminare o in udienza preliminare, possano assumere la
valenza di vere e proprie contestazioni ai sensi dell'art. 500 co. 2bis e
4 c.p.p. e che tale mancata previsioni renda la norma contrastante con le
legge fondamentale) e l'art. 111, quale norma costituzionale di recente promulgazione.
Si rileva, infatti, correttamente da aprte del Tribunale che nella situazione
ipotizzata, ci si verrebbe a scontrare con la conseguenza di una acquisizione
surrettizia delle dichiarazioni accusatorie, utilizzabili ed inseribili nel
fascicolo del dibattimento, da aprte del giudicante, con la marchiana elusione
del principio costituzionale portato dall'art. 111 Cost..
Si addiverrebbe, pertanto, ad impedire il verificarsi e radicarsi di quel
controllo in sede di contraddittorio, che, per converso, ha, invece natura
di tassatività, e che sopporta, con il meccanismo di cui al co. V della
norma costituzionale richiamata, solo eccezioni espressamente previste, a
pena di lesione del diritto di difesa.
Sicchè non può che condividersi la lucida ed attenta preoccupazione
dei giudici del Tribunale, sul punto e le ragioni che sottendono alla stessa.
Maggiormente articolata e complessa è, invece, la disamina riguardante
l'armonizzazione del diritto a tacere, dell'indagato in reato connesso, rispetto
alla presunta necessità di recupero delle precedenti dichiarazioni
dal medesimo rese in altra sede e fase processuale.
La tematica viene affrontata con un taglio molto preciso, che attesta e conferma
la preoccupazione dei giudici, a che la mancata risposta dell'interessato
alle domande, vanifichi i risultati dell'indagine, non essendo previsto dal
legislatore un meccanismo legislativo che permetta il recupero e l'uso processuale
degli elementi accusatori precedenti.
In questo caso, la nettissima divaricazione che emerge fra ciò che
è accaduto in sede di indagini preliminari e di udienza preliminare,
e ciò che, a contrasto, può avvenire in sede di giudizio dibattimentale
è il motore della decisione del Collegio.
La non vanificazione del materiale probatorio raccolto dal P.M., laddove detto
materiale, ope legis, risulti inutilizzabile per il successivo silenzio dibattimentale
dell'interessato, diviene spunto per i giudici remittenti che affermano come
il contemperamento delle due opposte esigenze - diritto al silenzio previsto
dall'art. 210 C.P.P. e assunzione della prova in contraddittorio - può
essere assolto, solo con la limitazione della facoltà di non rispondere
in dibattimento riconosciuta alle persone di cui all'articolo 210 co. 1 che,
per effetto dei nuovi principi introdotti dall'articolo 111 Cost., non può
più essere assoluta e valida per il dichiarante "erga alios".
Chi scrive, pur rendendosi conto della portata del timore espresso dal Tribunale,
non può esimersi dall'osservare che non può e non deve essere
il Giudice (ancorché di rango pari alla Corte Costituzionale) a supplire
a vuoti ed omissioni del legislatore.
Siffata pratica frutto degli anni del terrorismo non può essere coltivata
in una materia così delicata.
In buona sostanza, sino a che la legge penale riterrà esistente una
figura certamente ibrida, quale quella prevista dall'art. 210 co. 1 c.p.p.,
riferita ad un soggetto sottoponibile ad esame, alla stregua di un teste,
ma insuscettibile dei doveri propri del testimone, non si potrà assolutamente
ritenere che l'esercizio del silenzio, che a tale figura si riconosce, sia
in contrasto con il principio del contraddittorio, laddove non vi sia pregiudizio
per l'imputato, il quale è titolare del diritto al consenso sull'utilizzazione
della prova in oggetto.
Il prevedere che l'imputato possa o meno accondiscendere all'inserimento nel
fascicolo del giudizio di dichiarazioni rese in ambiti nei quali non è
possibile un controllo diretto (ad es. interrogatorio del P.M. nelle indagini
preliminari) è riconoscimento certo ed espresso del diritto all'esercizio
della prova, che risulta armonico alla riserva di legge costituzionale.
Deriva da queste osservazioni, quindi, un primo concreto dubbio sulla fondatezza
delle ragioni avanzate dal Collegio.
Ciò affermato, si deve, piuttosto, per meglio comprendere il rapporto
intercorrente fra le norme in esame, soffermare la nostra attenzione sulla
portata generale dell'art. 111 Cost. e le conseguenze a cascata che la norma
ha determinato.
Non si dimentichi, in primis, la ventata di garantismo effettivo della stessa.
Essa, infatti, è stata promulgata (dopo lunghissime discettazioni)
proprio per evitare che le sentenze di condanna si fondassero su chiamate
in correità prive di un vaglio critico in sede di contraddittorio,
perché rese in assenza di un giudice terzo, e di tutte le parti processuali
interessate.
Si è, quindi, tentato di riportare su di un piano di effettiva parità
accusa e difesa, evitando che la prova si materializzasse in ambiti diversi
dal dibattimento (luogo deputato dal legislatore a tale fine) e che si fosse
assunta in violazione dei diritti della difesa.
Nel caso che ci occupa, invece, la prospettiva formulata dai giudici di Rimini,
pare muoversi nel senso opposto al dettato costituzionale.
Essa sembra mirare a che si giunga a costringere il dichiarante ad assumere
la vera e propria qualità di teste, per il caso di dichiarazioni "contra
alios"; il tutto all'evidente fine di evitare che l'imputato possa venire
assolto in ossequio della regola di giudizio portata dall'art. 111 Cost..
A conferma del proprio orientamento, il Collegio espressamente richiama i
lavori parlamentari in itinere (testo del Senato 6590/C), con i quali si avrebbe
una previsione normativa tesa alla riduzione dei casi di incompatibilità
a testimoniare ex art. 197 c.p.p., venendosi, così, ad attuare quel
principio di ricerca della verità, inteso quale fine primario del processo
penale, eliminando gli ostacoli che ad essa si possano frapporre.
In linea meramente teorica il principio sancito dalla Corte Costituzionale
con la citata sentenza n. 255/1992 non può che essere condivisibile.
Nella pratica, invece, l'esperienza è certamente diversa e permette
di affermare che troppe volte il supremo scopo del raggiungimento della verità
(processuale) è stato sbandierato a fini di limitazione del diritto
di difesa.
Se effettivamente si volesse
impostare la codicistica penale a tale obbiettivo andrebbero mutate anche
le norme in tema di prova ed unificato il criterio di valutazione della stessa,
oggi portato con un criterio binario ed antitetico dagli artt. 273 e 192 c.p.p..
In una parola sarebbe necessario ripensare per l'ennesima volta ad una procedura
organicamente diversa, che fissi modi e tempi di assunzione della prova dichiarativa,
sin dall'inizio dell'indagine, nei quali la difesa partecipi efficacemente
Siamo, pertanto, in presenza, quindi, di una interpretazione che, a parere
di chi scrive, configge non solo con la ratio originaria del citato articolo,
ma che tende ad implicita riduzione delle garanzie difensive.
Si deve, infatti, ribadire che la auspicata compressione del diritto al silenzio
ex art. 210 c.p.p. rientra in un contesto decisionale, che, per definizione,
deve essere riservato al Parlamento quale eventuale scelta di carattere normativo
e non può essere delegato - a meno di uno straripamento di poteri -
all'organo giurisdizionale.
Chi scrive, inoltre, deve sottolineare che la remissione al Giudice delle
Leggi di siffatta problematica, investe un organo che, ove dovesse pronunziarsi
nel senso prospettato dal remittente, eccederebbe le proprie attribuzioni,
con evidente conflitto fra i poteri dello Stato, venendo invasa indebitamente
la funzione legislativa.
Invero il co. V dell'art. 111 Cost., nel riservare alla legge ordinaria, quale
fonte sottoordinata, la disciplina dei casi in cui la prova non ha luogo in
contraddittorio, non considera neppure indirettamente l'ipotesi involta dalla
questione in esame.
La riserva contenuta nella disposizione in esame è limitata ad ipotesi
chiare e tassative, che possono subire modifica solo per il tramite di un
nuovo intervento di architettura legislativa, attraverso il ricorso alla procedura
portata dall'art. 138 Cost.
Ciò posto, non può, peraltro tacersi la comprensione per l'evidenza
del disagio vissuto dai giudici emittenti l'ordinanza in oggetto, di fronte
ad interventi in materia processualpenalistica, che si connotano per uno spiccato
carattere di provvisorietà, disarticolazione, ispirate, da oltre un
ventennio (quello degli anni di piombo), alla logica di fronteggiare quotidianamente
l'emergenza, senza un programma più complessivo.
Non si può, infatti, omettere di ricordare come l'art. 111 Cost. sia
sopravvenuto al preesistente art. 210 c.p.p..
Si potrà, anche, discutere della circostanza che il legislatore costituzionale
abbia, sorvolando (scientemente od inconsapevolmente) su di una delle questione
più spinose delle fase dibattimentale.
Si potrà, forse, affermare che il Parlamento abbia, in realtà,
operato una scelta politica estremamente precisa.
Certo è che, oggi, tale opzione non può venire vanificata in
sede giurisdizionale.
Del pari la sospetta incostituzionalità della norma codicistica in
parola (nonché dell'art. 392 lett. d) c.p.p.), ritenuta sotto altri
aspetti, quali la violazione del diritto di uguaglianza, e del diritto a non
essere distolto dal giudice naturale, non sembra - alla luce delle premesse
sin qui svolte - sussistente, attesa la specificità della situazione
di cui l'art. 210 c.p.p. è portatore.
Consegue, quindi, che qualunque sia l'opinione che si possa nutrire sull'impianto
codicistico messo a nudo dall'ordinanza del Tribunale di Rimini, non si potranno
operare serie riforme (neppure di dignità costituzionale), perseguendo
in una legislazione a macchia di leopardo.
Si impone un vero e serio coordinamento, in ordine all'assunzione ed alla
valorizzazione delle prove, (e la testimonianza -da chiunque provenga- è
considerata la regina), fra indagini preliminari e fase del giudizio, recuperando
la centralità e priorità di quest'ultima, esaltando il contraddittorio.
E se il vero futuro del processo penale risiedesse proprio nel ridimensionamento
delle indagini preliminari ?
Avv. Carlo Alberto Zaina
Avv. Filippo Maria Airaudo
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