Tribunale
di Firenze, Sezione II Penale, in composizione collegiale,
Ordinanza 9 maggio 2000
Il Tribunale
di Firenze
2^ sezione penale
Presidente Dott.
Maradei
Giudice Dott.ssa Sacco
Giudice (VPO) Avv. Castriota
Sulla questione
di legittimità costituzionale dell'art. 438 CPP per violazione dell'art.111
della Costituzione, sollevata dal PM, sentiti i difensori, osserva:
gli imputati Ma
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., hanno oggi richiesto,
a sensi dell'art. 223 d.l.vo n. 5l\98, il giudizio abbreviato.
Ha eccepito il PM la illegittimità' costituzionale dell'art. 438 CPP
in quanto, nella sua attuale formulazione, non consente al PM stesso di intervenire
al fine di esprimere il consenso o il dissenso in relazione alla richiesta medesima.
Ritiene il Tribunale che l'art. 438 CPP applicabile, nell'attuale formulazione
anche al giudizio per i quali l'abbreviato viene richiesto sulla base dell'art.
223 sopracitato, in quanto, trattandosi di norma a prevalente carattere processuale,
essa è estensibile a tutti i procedimenti pendenti, e quindi anche all'attuale
processo.
Sulla base di tale presupposto, deve comunque valutarsi la legittimità
costituzionale dell'impianto normativo che regola l'attuale giudizio abbreviato
in relazione ad alcune norme della Costituzione.
Occorre innanzi tutto soffermarsi sul nuovo art. 111 della Costituzione, evidenziandone
i principi fondamentali
Prevede dunque il medesimo art. 111 che la giurisdizione si attua mediante il
giusto processo regolato dalla legge, e che ogni processo si svolge in contraddittorio
tra le parti, in condizione di parità, davanti a un giudice terzo e imparziale.
Tale disposizione , a parere del Collegio, non può che riguardare qualsiasi
fase processuale, in quanto le norme contenute nei successivi commi 4 e 5 regolano,
più specificamente, l'applicazione del principio del contraddittorio
alle sole fasi in cui viene assunta la prova.
Tale distinzione, evidente alla mera lettura della norma, implica che i principi
del rispetto del contraddittorio e della parità delle parti nel processo
operano sin dall'inizio del processo medesimo, e che quindi non vi e' alcuna
fase svincolata dalla loro applicazione concreta.
E' quindi conseguenziale ritenere che non può' verificarsi nel processo
penale alcuna situazione giuridica che consenta il suo regolare svolgimento
senza che a ciascuna delle parti sia riconosciuto il diritto ad interloquire.
Tale diritto non può' ovviamente essere inteso come mera facoltà'
formale ad esprimersi, ma deve manifestarsi in modo tale che ad esso possa conseguire
efficacia giuridica. In caso contrarlo il diritto a contraddire e il principio
della parità delle parti resterebbero vuoti di contenuti giuridici concreti,
con la conseguenza che la norma dell'art. 111 resterebbe del tutto disattesa
e quindi priva di efficacia precettiva.
Nel caso in questione, dalla applicazione dei principi sopra enunciati discendono
evidenti e dirette conseguenze.
Non appare infatti conforme alla Costituzione non solo privare il PM del diritto
a contraddire le richieste dell'imputato in tema di giudizio abbreviato ma anche
non attribuire alle eventuali contrarie deduzioni dell'organo dell'accusa, una
qualsiasi efficacia giuridica immediata che nel sistema attuale della legge
non è dato riscontrare.
L'impianto normativo in vigore evidenzia quindi chiari dubbi di legittimità'
costituzionale, perché impedisce sia il pieno dispiegarsi dei contraddittorio
anche nella attuale fase processuale, sia il rispetto del principio della parità
delle parti, con ovvia e conseguente rilevanza nel processo in corso.
Un ulteriore argomento inteso a rafforzare le tesi sin qui esposte si rinviene
nell'insegnamento della stessa Corte Costituzionale, contenuto nella ordinanza
26.2.98 n.33, secondo cui la possibilità di adottare il rito abbreviato
sulla base delle sole richieste dell'imputato in funzione dei suoi legittimi
interessi di difesa, violerebbe i principi fondamentali che regolano il processo
penale, intesi essenzialmente alla realizzazione dei superiori interessi della
giustizia.
Occorre peraltro osservare, anche in punto di rilevanza, che la possibilità
per il PM di contraddire su un piano di parità la richiesta delle parti,
conferendo efficacia giuridica alle sue osservazioni eventualmente contrarie
alla ammissibilità del rito, dovrebbe comportare le seguenti conseguenze:1)
o dal dissenso motivato del PM consegue, se fondato, la prosecuzione del processo
con il rito ordinario, salva la possibilità per il giudice di riconoscere
al termine dello stesso la non congruità delle motivazioni medesime,
con conseguente attribuzione agli imputati dello sconto di pena, oppure 2) dovrebbe
riconoscersi al giudice la possibilità di pronunciarsi immediatamente,
ammettendo o rigettando la richiesta degli imputati.
Ciò comporterebbe la piena attuazione del principio del contraddittorio
nell'ambito di un sistema processuale, come l'attuale, improntato anche al rispetto
della piena parità tra le parti, che si svolge davanti un giudice terzo,
al quale non può essere negata la attribuzione del potere di deliberare
sulle questioni prospettate dalle parti in contraddittorio tra loro.
Una situazione normativa, come l'attuale, che esclude il giudice dall'assolvimento
di indefettibili compiti istituzionali che gli sono propri, viola il principio
della giurisdizione e quindi l'articolo 101 della Costituzione.
Occorre ancora considerare che il vigente assetto normativo sulla ammissibilità
del giudizio abbreviato, introduce un singolare diritto soggettivo assoluto
dell'imputato non tanto e non solo alla mera scelta del rito, quanto addirittura
al conseguimento di uno sconto di pena.
Ciò in quanto la mancata previsione della possibilità per il PM
di esprimere il proprio dissenso motivato sulla richiesta, nonché la
mancata previsione del potere del giudice di respingere la richiesta medesima,
(salvo il limitato caso dell'articolo 438 comma 5), unitamente alla impossibilità
per il giudice stesso di sanzionare in qualche modo la mancanza dei naturali
presupposti del rito speciale, trasformano il diritto processuale dell'imputato
alla scelta del rito in un sostanziale diritto del medesimo al conseguimento
automatico e irragionevole del beneficio della riduzione della pena.
Peraltro, non appare incongruo rispetto alle considerazioni appena svolte, notare
che ai sensi dell'articolo 443 c.p.p. al PM non è neppure data la facoltà
di impugnazione della sentenza di condanna, salva la limitata eccezione prevista
in caso di modifica del titolo del reato.
Appare a questo punto necessario ricordare che i presupposti logico giuridici
del predetto rito abbreviato si rinvengono, come emerge chiaramente anche dare
i lavori preparatori del codice di procedura vigente, nella abbreviazione dei
tempi processuali in conseguenza del mancato svolgimento della Istruttoria dibattimentale,
o dell'intera fase dibattimentale: è proprio al fine di realizzare tale
esigenza che il legislatore ha riconosciuto uno sconto di pena al soggetto richiedente.
Secondo la normativa attuale invece, tale rito rimane del tutto svincolato dai
presupposti sopra indicati, in quanto qualora il giudice ritiene necessario
procedere ad una qualche integrazione probatoria (ove non ritenga di poter decidere
allo stato degli atti), ha comunque l'obbligo di applicare la diminuente del
rito, malgrado risultino evidentemente disattese le ragioni di speditezza ed
economia alla base dell'istituto.
Sulla scorta di tali ultime osservazioni, deve ritenersi che l'attuale normativa
sul giudizio abbreviato viola anche il principio enunciato dall'articolo 97
della Costituzione, dell'imparzialità e del buon andamento della pubblica
amministrazione (nella quale deve ovviamente ricomprendersi anche quella giudiziaria),
poiché comporta la attribuzione agli imputati di vantaggi significativi,
ma ingiustificati, in quanto non sempre conseguenti alla realizzazione dei fini
ai quali dovrebbero essere preordinati.
Ne può tacersi che la attuale sistema prevede la attribuzione di tali
vantaggi a tutti gli imputati che fanno richiesta del rito, senza che sia consentito
distinguere tra coloro i quali hanno e effettivamente contribuito alla riduzione
dei tempi processuali, e coloro che invece hanno dato causa alla dilatazione
degli stessi attraverso Attività di integrazione probatoria resasi necessaria
in base alle valutazioni del giudice. Tutto ciò sembra essere in contrasto
anche con l'articolo 3 della Costituzione.
Inoltre, come statuito dalla corte nella ordinanza citata n. 33 / 98, l'attuale
situazione normativa determina evidenti disarmonie nel sistema processuale,
posto che alla perdita del PM della possibilità di interloquire sulla
scelta del rito, non si accompagna neppure una nuova disciplina sull'esercizio
del diritto alla prova (il PM non ha facoltà di chiedere integrazioni
probatoria di iniziativa), e neppure una modifica estensiva delle attua ali
limitazioni alla facoltà di impugnare.
Tutto ciò implica una nuova violazione dell'articolo 111 della Costituzione
sotto il profilo del rispetto del principio del contraddittorio nonché
di quello della parità delle parti in tutte le fasi processuali
PQM
vista la legge 11 marzo 1953 n. 87,
ritenutane la
rilevanza nel presente processo, dichiara non manifestamente infondata la questione
di illegittimità costituzionale dell'articolo 438 CPP nella parte in
cui non prevede il diritto del PM di intervenire sulla richiesta di rito abbreviato
formulata da l'imputato, esprimendo consenso o dissenso motivato, e nella parte
in cui non prevede autonomo potere del giudice di decidere sulla ammissibilità
della richiesta medesima, per violazione degli articoli 3, 97, 101, 111 della
Costituzione.
Sospende il giudizio in corso nei confronti degli imputati indicati nella epigrafe
della presente ordinanza e ordina trasmettersi gli atti alla Corte Costituzionale
in Roma.
Manda alla cancelleria per gli adempimenti conseguenti, relativi alla notifica
della presente ordinanza al Presidente del Consiglio dei Ministri e ai Presidenti
delle due Camere del Parlamento.
Firenze 9 maggio 2000
Il Presidente