Tribunale di Taranto, Sezione Feriale (in funzione di Tribunale per il riesame)
Ordinanza 10-17 agosto 1999

378/99 Rmcp
975/97 RgTrib
8070/95 Rgnr


TRIBUNALE ORDINARIO DI TARANTO
sezione feriale


composto nelle persone dei Magistrati
Dott. Carlo LAVEGAS Presidente
Dott. Pietro GENOVIVA Giudice
Dott. Sergio CASSANO Giudice rel.

per decidere sulle istanze di appello ex art. 310 c.p.p. presentate in data 21, 22 e 23.07.99 nell'interesse di
1) F. G. 2) M. G. 3) M. C. 4) S. A. 5) S. F. 6) M. C. 7) S. R.,

tutti attualmente sottoposti alla custodia cautelare in carcere e detenuti a Taranto

8) E. N.
9) S. M.

detenuti entrambi agli arresti domiciliari

avverso il provvedimento di rigetto di istanza di scarcerazione per decorrenza termini pronunciata dal Giudice del procedimento nel cui ambito è stata emessa la misura in corso di applicazione a carico dei ricorrenti;

riuniti tutti i ricorsi -n. 378, 381, 385, 386, 387, 392, 393 e 394 rmcp- nel presente procedimento n. 378/99 rmcp in quanto attengono la medesima questione;

letti gli atti ed ascoltati i difensori, a scioglimento della riserva ha pronunciato la seguente

ordinanza

Preliminarmente va esaminata la questione, sollevata nel corso della udienza camerale, di incostituzionalità degli art. 303 e 304 c.p.p. per eccesso di delega (e quindi per violazione dell'art. 76 Cost.) in quanto il loro combinato disposto consente di superare il limite di quattro anni di detenzione stabilito come durata massima della custodia cautelare nella legge delega (art. 2 n. 61 l. n. 81 del 1987).


Ebbene la doglianza appare manifestamente inammissibile in quanto non può più parlarsi, in relazione a questi articoli del codice di rito, di eccesso di delega poiché la versione degli art. 303 e 304 c.p.p. oggi vigente è stata introdotta successivamente all'emanazione del codice con legge ordinaria (l. 08.11.91 n. 356 per l'art. 303 cit.; l. 08.08.1995 n. 332 per l'altro). Ma non solo: l'eccezione, ancor prima, appare irrilevante nel presente procedimento in quanto 1- il caso che ci occupa non di discute del temine massimo di custodia cautelare ma quello di fase relativo al primo grado di giudizio e comunque 2- i ricorrenti sono detenuti, complessivamente, da 3 anni un mese e quindici giorni circa per cui non risulta superato il limite "invalicabile" dei quattro anni.

Venendo al merito degli appelli, questi appaiono infondati e vanno rigettati con le conseguenze di legge.

A carico di tutti gli odierni ricorrenti, a seguito di decreto emesso dal Gup distrettuale in data 05.07.97, si procede a giudizio -tra l'altro anche- per il reato di cui all'art. 629 cpv. c.p. aggravato dalla circostanza ad effetto speciale di cui all'art. 7 d.l. 152/91, circostanza che non era contestata nel provvedimento custodiale originariamente emesso dal Gip in data 9 luglio 1996 (successivamente ripristinata per alcuni dei ricorrenti dal Giudice che procede a seguito di nullità della convalida della misura in sede di riesame dichiarata a seguito della nota sent. Corte Cost. 232/98 sul termine per il deposito delle decisioni del TdL).
Ebbene, il termine di durata della custodia cautelare nel giudizio di primo grado è di un anno qualora si faccia riferimento al reato di cui all'art. 629 cpv c.p. non ulteriormente aggravato così come contestato nel titolo custodiale -procedendosi per un reato per il quale è prevista la pena della reclusione non superiore nel massimo a 20 anni (art. 303 co. 1 lett. b) n. 2 c.p.p.)- mentre se si fa riferimento al reato come circostanziato a seguito del rinvio a giudizio, ossia con contestazione dell'aggravante di cui all'art. 7 d.l. 152/91, tale termine diviene di un anno e mezzo -procedendosi per un reato per il quale è prevista la pena della reclusione superiore nel massimo a 20 anni calcolata ex art. 278 c.p.p.- Termini in ogni caso da raddoppiarsi a 2 o 3 anni per la sospensione disposta nel corso del dibattimento ex art. 304 co. 2 c.p.p. e da prorogarsi ulteriormente di 14 giorni per l'astensione degli avvocati avvenuta nel corso del dibattimento.

L'istanza di scarcerazione per decorrenza dei termini presentata dagli imputati alla scadenza dei due anni dall'inizio della fase dibattimentale veniva rigettata dal primo Giudice in quanto riteneva di dover fare riferimento al reato come contestato nel decreto che dispone il giudizio e che, comunque, la circostanza di cui al ridetto art. 7 fosse contestata in fatto.

Appare necessario, quindi, stabilire in punto di diritto se ai fini della determinazione della durata del termine di fase debba farsi riferimento al reato così come delineato nella ordinanza di custodia cautelare, emessa ed applicata nel corso delle indagini, o a quello come circostanziato a seguito del rinvio a giudizio e quindi, in buona sostanza, se possa determinare un allungamento dei termini di fase il fatto che il rinvio a giudizio sia effettuato con la contestazione di una aggravante ad effetto speciale (cui, a mente dell'art. 278 c.p.p., deve farsi riferimento per discernere a quale delle tre previsioni di cui alla lettera b dell'art. 303 c.p.p. debba farsi riferimento) non contenuta nella ordinanza coercitiva.

Ritiene questo Giudice di seconda istanza che correttamente è stata calcolata la durata del termine di fase (termine da raddoppiarsi a seguito di sospensione degli stessi disposta ex art. 304 co. 2 c.p.p. e con ulteriore estensione di 14 giorni dovuti a rinvio causato dalla astensione degli avvocati alla udienza del 10.11.98) con riferimento al reato in contestazione nella pendente fase dibattimentale e non quello di cui alla originaria contestazione.
Questo in aderenza all'insegnamento del Supremo Collegio il quale afferma che dopo il rinvio a giudizio "ai fini del calcolo del termine di durata massima della custodia cautelare occorre fare riferimento esclusivamente alla contestazione contenuta nel capo d'imputazione" (così, testualmente, Cass. sez. II del 09.04.97, Iiritano, proprio in riferimento al caso di contestazione nel decreto che dispone il giudizio, a persona imputata del reato di cui all'art. 629 cpv c.p., della aggravante di cui all'art. 7 d.l. 152/91 che era stata esclusa dal TdL in sede di riesame e quindi dal titolo custodiale; sulla incapacità delle pronunce del TdL avvenute dopo il rinvio a giudizio di mutare la contestazione dibattimentale v. Cass. s.u. del 22.10.96, Di Francesco; nel senso della incidenza del rinvio a giudizio ai fini della durata della custodia si veda anche Cass. sez. II del 16.09.94, Longobardi). Principio che ha trovato coerente applicazione sia in danno (Cass. sez. II Iiritano cit.) che a favore dell'imputato (v. Cass. sez. II del 06.06.97, Berisha, in relazione al caso in cui il giudizio sia stato chiesto e disposto solo per alcuni dei reati originari) sulla base della considerazione che la primitiva contestazione è necessariamente fluida in relazione alla fase procedimentale in cui viene formulata per cui essa, dopo il rinvio a giudizio, perde qualsiasi rilievo giuridico processuale e al suo posto subentra quella che rappresenta il thema decidendum del processo da sottoporre al giudice (in tal senso la sentenza Berisha cit.).

Questo risalente orientamento trova fondamento sul dato testuale delle norme che regolano la materia. Innanzitutto l'art. 303 lett. b) codice di rito fa espresso riferimento al reato per cui "si procede" dopo il provvedimento che dispone il giudizio (mentre per la successiva fase di appello si fa riferimento a quello ritenuto in sentenza -attraverso il riferimento alla condanna inflitta- e solo per quella precedente delle indagini al reato indicato nella ordinanza custodiale -ossia il reato per cui "si procede" prima del rinvio a giudizio). Inoltre la valutazione di complessità dibattimentale cui fa riferimento il comma 2 dell'art. 304 c.p.p., al fine di sospendere il decorso del termine di fase (istituto proprio della fase dibattimentale, che non è previsto la fase delle indagini) viene riferita non già alla complessità del reato contestato nell'ordine di custodia bensì, testualmente, a quello che deve giudicarsi nel processo ("…nel caso di dibattimenti particolarmente complessi…") come confermato dalla circostanza che il comma 6 dell'art. 304 citato, sempre al fine del calcolo dei termini di fase, si parla nuovamente di "reato contestato" (per distinguerlo da quello ritenuto in sentenza), indicazione da leggersi in combinazione con quanto innanzi detto per dedurne che si tratta di contestazione dibattimentale e non d'indagine.

In conclusione è al reato di cui concretamente tratta il processo che deve farsi riferimento per stabilirne i ritmi processuali e quindi la durata della custodia nella relativa fase.

Questo orientamento non può essere smosso da una recente sentenza del Supremo Collegio che è andata di avviso contrario (Cass. sez. VI del 21.07.97 Lo Castro) in quanto fondata su una interpretazione sistematica che non supera quella letterale qui accolta. Deve rilevarsi in proposito che la paventata violazione delle garanzie che seguono alla applicazione di una misura coercitiva (art. 294, 309 e 310 c.p.p.) è soddisfatta col solo e fondamentale limite da porre al mutamento della originaria contestazione -tratto in analogia dei principi codicistici in tema di correlazione tra imputazione e sentenza come precisati dalle sezioni unite nella sentenza Di Francesco già citata- costituito dal fatto che vi sia una naturale continuità tra la prima contestazione e quella poi sopravvenuta nel senso che non può, a tal fine, valere un totale mutamento del titolo di reato o stravolgimento in punto di fatto della condotta originariamente ascritta al fine di consentire a chi vi è sottoposto di difendersi validamente nella incidente fase cautelare.

Con riferimento al caso che ci occupa non solo il mutamento si è limitato all'aggiunta, rispetto alla originaria contestazione, di una nuova circostanza aggravante (sia pure con effetti pregiudizievoli per lo status libertatis degli imputati) ma che, in concreto, non vi sono state coartazioni alla attività difensiva in sede cautelare visto la contestazione in fatto contenuta nel capo d'imputazione fin dall'origine che l'attività era commessa da associati per delinquere di stampo mafioso (v. capo c della rubrica). Dizione che seppure per il suo tenore (che non fa riferimento né all' "avvalersi delle condizioni di cui all'art. 416 bis c.p. né al "fine di agevolare l'attività delle associazioni" di cui al 416 bis c.p.) possa riferirsi alla contestazione della sola aggravante di cui all'art. 628 co. 3 n. 3 c.p., cui rinvia l'art. 629 cpv. c.p., e non già a quella ad effetto speciale che ci occupa, ha comunque messo i soggetti che vi sono sottoposti nella condizione di difendersi su tale questione di fatto.

In conclusione nel caso che cui occupa il termine di durata della custodia cautelare è di anni 1 mesi 6 procedendosi per reati (art. 629 cpv. c.p. art. 7 d.l. 152/91) per i quali è prevista la pena della reclusione, calcolata ex art. 278 c.p.p, superiore nel massimo a 20 anni (art. 303 co. 1 lett. b) n. 3 c.p.p.), termine da raddoppiarsi a 3 anni ex art. 304 co. 2 c.p.p. e da prorogarsi ulteriormente per l'astensione degli avvocati.

Per cui, essendo stato emesso il decreto che dispone il giudizio in data 05.07.97, il termine di durata della misura nel dibattimento di primo grado non è ancora decorso con conseguente conferma delle ordinanze impugnate.

p.q.m.

rigetta gli appelli proposti nell'interesse di
1) F. G. 2) M. G. 3) M. C. 4) S. A. 5) S. F. 6) M. C. 7) S. R., tutti attualmente sottoposti alla custodia cautelare in carcere e detenuti a Taranto nonché 8) E. N. e 9) S. M. detenuti entrambi agli arresti domiciliari.
Condanna i ricorrenti in solido tra loro alle spese della presente procedura.
Manda la cancelleria per le comunicazioni di rito e l'invio al Direttore del Carcere di Taranto.
Taranto, 10.08.99
Il Presidente

I Giudici

Depositata in Cancelleria, lì 17 agosto 1999

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