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Corte Costituzionale,
Sentenza 6 - 14 luglio 2000, n. 283
(con nota di Carlo Alberto Zaina)

SENTENZA N. 283
ANNO 2000

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Cesare MIRABELLI Presidente
- Francesco GUIZZI Giudice
- Fernando SANTOSUOSSO "
- Massimo VARI "
- Riccardo CHIEPPA "
- Gustavo ZAGREBELSKY "
- Valerio ONIDA "
- Carlo MEZZANOTTE "
- Fernanda CONTRI "
- Guido NEPPI MODONA "
- Franco BILE "
- Giovanni Maria FLICK "

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 37, comma 1, del codice di procedura penale, promossi, nell'ambito di procedimenti di ricusazione proposti da alcuni imputati, con ordinanze emesse il 22 aprile 1999 dalla Corte di appello di Torino e il 23 febbraio 1999 dalla Corte di appello di Napoli, iscritte al n. 396 del registro ordinanze 1999 e al n. 94 del registro ordinanze 2000 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 29, prima serie speciale, dell'anno 1999 e n. 11, prima serie speciale, dell'anno 2000.

Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 7 giugno 2000 il Giudice relatore Guido Neppi Modona.

Ritenuto in fatto

1. - Con ordinanza in data 22 aprile 1999 (r.o. n. 396 del 1999), la Corte di appello di Torino, investita della decisione in merito alla dichiarazione di ricusazione dei componenti l’intero collegio di altra sezione della medesima Corte, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, primo comma, e 24 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 37 del codice di procedura penale, «nella parte in cui non prevede quale causa di ricusazione il fatto che il giudice abbia già manifestato il proprio parere sull’oggetto del processo nell’esercizio di funzioni giudiziarie nel corso di un diverso procedimento».

La Corte rimettente premette che i giudici componenti il collegio ricusato si erano già occupati, in sede di impugnazione avverso decreti di applicazione di misure di prevenzione, della stessa vicenda (concernente attività delittuose, a sfondo mafioso, svolte in relazione a pratiche di acquisti di terreni, rilascio di concessioni e attività edilizie in un’area del Comune di Bardonecchia) della quale erano attualmente investiti quali giudici di appello in un procedimento penale, ed avevano, nell’ambito di quelle precedenti funzioni, espresso valutazioni e giudizi di merito «inerenti agli stessi fatti ed agli stessi soggetti che avrebbero dovuto essere da loro giudicati» nel procedimento penale.

Stante tale situazione, i componenti del collegio, allora in composizione parzialmente diversa, avevano presentato dichiarazione di astensione, ritenendo che ricorresse l’ipotesi di cui all’art. 36, comma 1, lettera g), in relazione all’art. 34 cod. proc. pen.: la dichiarazione era stata però respinta dal presidente della Corte di appello, in base al rilievo che non erano nella specie ravvisabili i presupposti di cui alla disposizione evocata. In una successiva udienza era stata poi presentata dichiarazione di ricusazione da parte degli imputati, ai sensi dell’art. 37, comma 1, lettera a), in relazione all’art. 36, comma 1, lettera c), cod. proc. pen., e, in subordine, eccezione di illegittimità costituzionale dell’art. 37 cod. proc. pen. in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost.

Nel merito, la Corte rimettente osserva che la dichiarazione di ricusazione è da considerare inammissibile, in quanto proposta al di fuori dei casi tassativamente previsti dall’art. 37 cod. proc. pen.

Infatti, non può venire in questione l’ipotesi di cui all’art. 36, comma 1, lettera g), cod. proc. pen. (a suo tempo addotta come causa di astensione), poiché non ricorre alcuna delle cause di incompatibilità previste dall’art. 34 cod. proc. pen., nemmeno considerando quanto statuito dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 371 del 1996, dato che le precedenti valutazioni espresse sullo stesso fatto nel procedimento di prevenzione non sono contenute in una sentenza, ma in un provvedimento avente natura di decreto; né alcuna delle cause contemplate dalle lettere a), b), d), e), f) del medesimo art. 36, comma 1, perché concernenti situazioni del tutto diverse da quella in esame; né la causa di cui all’art. 37, comma 1, lettera b), cod. proc. pen., perché non si è verificata nella specie una manifestazione "indebita" del proprio convincimento da parte dei giudici ricusati; né quella, infine, di cui alla lettera c) del menzionato comma 1 dell’art. 36, su cui si fonda la dichiarazione di ricusazione, atteso che nel caso di specie il convincimento pregiudicante non è stato espresso "fuori dell’esercizio delle funzioni giudiziarie", ma nell’ambito di un diverso procedimento, e quindi nell’esercizio di tali funzioni.

Potrebbe sostenersi, prosegue la rimettente, che l’avere il giudice, nell’esercizio delle proprie funzioni, in precedenza manifestato legittimamente il proprio convincimento sull’oggetto del procedimento integri una "grave ragione di convenienza", tale da legittimarlo alla astensione ex art. 36, comma 1, lettera h), cod. proc. pen.; ma questa ipotesi non è richiamata dall’art. 37 cod. proc. pen., e non è quindi idonea a fondare una dichiarazione di ricusazione.

1.1. - Ciò posto, ad avviso del giudice a quo la questione di costituzionalità dedotta dagli imputati appare rilevante e non manifestamente infondata.

Quanto al primo aspetto, la Corte di appello sottolinea che ove la questione fosse accolta, si determinerebbe una nuova ipotesi di ricusazione perfettamente aderente al caso di specie, avendo tutti i componenti del collegio ricusato già manifestato il proprio convincimento sui fatti oggetto delle imputazioni sottoposte al loro giudizio in sede di appello.

Quanto alla non manifesta infondatezza, la rimettente preliminarmente osserva che sia dalle sentenze nn. 306, 307 e 308 del 1997 della Corte costituzionale, sia dalla successiva sentenza n. 351 del 1997, paiono ricavarsi, per chi debba vagliare questioni di costituzionalità attinenti al principio di imparzialità del giudice, due indicazioni: la prima è che si deve abbandonare la via di una richiesta di intervento sull’art. 34 cod. proc. pen. qualora il pregiudizio alla imparzialità venga ravvisato in ipotesi nelle quali il parere del giudice sia stato manifestato in un diverso procedimento; la seconda è che, in tali ipotesi, ove la fattispecie in esame non sia riconducibile ad alcuno dei casi in cui si articola la disciplina della astensione e della ricusazione, tali istituti, e non quello della incompatibilità, devono essere sottoposti al giudizio di costituzionalità.

Nel caso in esame, prosegue il giudice a quo, si verifica una possibile violazione del principio del giusto processo, sotto il profilo della imparzialità del giudice, «in quanto tutti i componenti del Collegio giudicante potrebbero apparire condizionati dalle precedenti valutazioni che essi hanno legittimamente espresso, nei confronti dei fatti oggetto del processo e degli attuali imputati, in occasione della loro partecipazione ad altri collegi che ebbero a pronunciarsi, in differenti procedimenti in materia di applicazione di misure di prevenzione».

Poiché la situazione in esame non è contemplata tra i casi tassativi di cui all’art. 37 cod. proc. pen., è configurabile una violazione dell’art. 24 Cost., in quanto il diritto di difesa degli imputati è in primo luogo diritto ad avere un processo giusto, da parte di un giudice terzo e imparziale.

D’altro canto, l’omessa previsione quale causa di ricusazione dell’ipotesi in cui il giudice abbia manifestato il proprio convincimento sui fatti oggetto dell’imputazione nell’esercizio delle proprie funzioni e nel corso di un diverso procedimento integra anche una violazione del principio di eguaglianza di cui all’art. 3, primo comma, Cost., data la «ingiustificata ed irragionevole disparità di trattamento rispetto all’imputato nei cui confronti il giudice abbia manifestato, con riferimento ai fatti oggetto dell’imputazione, il proprio parere come privato ovvero ciò abbia fatto, indebitamente, nell’esercizio delle proprie funzioni»; tale rilievo, ad avviso della Corte rimettente, appare pienamente confortato dalle affermazioni contenute nella sentenza della Corte costituzionale n. 308 del 1997, ove si sottolinea che la precedente manifestazione del convincimento del giudice sull'oggetto del procedimento determina un identico pregiudizio della imparzialità sia che si tratti di manifestazione indebita, sia che sia stata legittimamente resa in un diverso procedimento, anche non penale.

1.2. - Nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile o infondata.

Si osserva al riguardo che la diversità dell’oggetto del procedimento di prevenzione e di quello penale, riconosciuta anche dalla Corte rimettente, implica la mancanza, nella situazione prospettata, del presupposto della identità della valutazione sugli stessi fatti, il che esclude un pericolo per la imparzialità del giudice anche nel quadro degli istituti della astensione e ricusazione.

2. - Con ordinanza in data 8 marzo 2000 (r.o n. 94 del 2000), la Corte di appello di Napoli, investita della decisione in merito alla dichiarazione di ricusazione del presidente e del giudice a latere della Corte di assise di S. Maria Capua Vetere, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, analoga questione di legittimità costituzionale dell’art. 37, comma 1, cod. proc. pen., «nella parte in cui non prevede, tra le ipotesi di ricusazione, anche quella di situazioni pregiudicanti riferite a rapporti processuali che non investono lo stesso procedimento».

La Corte di appello premette che i magistrati togati della Corte di assise, ricusati ai sensi dell'art. 37, comma 1, lettera a), in relazione agli artt. 36, comma 1, lettera g), e 34 cod. proc. pen., da vari imputati del delitto di cui all’art. 416-bis cod. pen., si erano già occupati, in altri procedimenti di prevenzione o penali, della stessa vicenda - concernente l'esistenza di una associazione di tipo mafioso operante nella zona di Caserta e le attività delittuose ad essa connesse - della quale si trovano attualmente investiti in sede di giudizio di assise, ed avevano, nell’ambito di quelle precedenti funzioni, espresso valutazioni, sia pure in alcuni casi solo in via incidentale, sui fatti divenuti poi oggetto del procedimento penale e sulla specifica posizione, nell’ambito del sodalizio di tipo mafioso, di alcuni degli imputati che avevano proposto dichiarazione di ricusazione.

In particolare, con riferimento alle dichiarazioni di ricusazione motivate in relazione alle funzioni giudicanti esercitate da uno dei magistrati ricusati in altro procedimento penale, la Corte di appello ritiene che la circostanza che questi aveva concorso a pronunciare la sentenza di condanna di uno dei ricusanti per il reato di tentato omicidio, aggravato dall’essere il fatto commesso «al fine di agevolare l’associazione camorristica facente capo a S.F. nel controllo del territorio e delle illecite attività», non consente dubbi sulla «configurabilità di un’ipotesi di prevenzione per quel che concerne il [ricusante] dal momento che nella sentenza non solo si riconosce la sua responsabilità nella commissione del reato ascrittogli, ma si considera, sia pure incidentalmente ed ai soli fini dell’aggravante contestata, ma comunque alla stregua di un rigoroso ragionamento probatorio [...] come esistente l’associazione camorristica "clan dei casalesi", quella stessa che sarà oggetto di valutazione (ai fini della conseguente decisione) nel giudizio in corso dinanzi al Tribunale di S. Maria Capua Vetere.»

Quanto all’esercizio da parte dei giudici ricusati di funzioni di giudizio nell’ambito di procedimenti di prevenzione a carico di soggetti indiziati di appartenere ad associazioni mafiose, il giudice a quo osserva, in via preliminare, che in tali procedimenti, se è consentito, per quanto attiene all’aspetto dell’appartenenza alla associazione, una valutazione meno rigorosa sul terreno probatorio rispetto a quella richiesta nel procedimento penale, non altrettanto può dirsi con riferimento all’accertamento dell’esistenza dell’associazione, che va, invece, compiutamente provata. Sicché si verifica una situazione di pregiudizio per l’imparzialità quando lo stesso giudice, che in tali procedimenti ha affermato, sia pure incidentalmente, l’esistenza di un’associazione di tipo mafioso e ha nel contempo valutato la posizione di determinati destinatari della misura di prevenzione, ritenendone l'appartenenza a detta associazione, sia successivamente chiamato a giudicare in un procedimento penale della responsabilità di quegli stessi soggetti per il reato di cui all’art. 416-bis cod. pen.

Tuttavia, prosegue la Corte rimettente, la situazione in esame, in cui la ragione del pregiudizio alla imparzialità del giudice si collega a funzioni esercitate in altri procedimenti, non rientra tra i casi di incompatibilità ex art. 34 cod. proc. pen. (neppure in forza della sentenza n. 371 del 1996 della Corte costituzionale, non ricorrendo nella specie il presupposto della endoprocessualità così detta sostanziale). D’altra parte, non può farsi applicazione dell’istituto della ricusazione, posto che l’invocato art. 36, comma 1, lettera g), richiamato dall’art. 37, comma 1, lettera a), cod. proc. pen., rinvia a sua volta ai casi di incompatibilità. Infine, in base alla previsione dell’art. 37, comma 1, lettera b), cod. proc. pen., la ricusazione può operare solo in caso di manifestazione indebita del convincimento da parte del giudice in relazione a un procedimento in corso alla decisione del quale sia chiamato a partecipare, circostanza questa che non ricorre nel caso in esame.

2.1. - In siffatta situazione la mancata considerazione tra i casi di ricusazione di «situazioni pregiudicanti riferite a rapporti processuali che non investono lo stesso procedimento» appare, alla rimettente, in contrasto con gli artt. 3 e 24 della Costituzione.

Da un lato, infatti, l’imputato, in presenza di identica condizione di prevenzione del giudicante (per avere questi anticipato legittimamente il suo convincimento) riceve tutela solo attraverso l’istituto dell’astensione, a norma dell’art. 36, comma 1, lettera h), cod. proc. pen., mentre, qualora il giudice non ritenga di astenersi, rimane precluso il ricorso alla ricusazione, dato che l’art. 37, comma 1, lettera b), cod. proc. pen. prende in considerazione solo la indebita manifestazione del proprio convincimento.

Dall’altro, tale preclusione si pone in contrasto con l’art. 24 Cost., risultando menomato il diritto di difesa, «di cui l’esercizio del diritto alla ricusazione costituisce senza dubbio una delle multiformi manifestazioni».

2.2. - Nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, riportandosi integralmente al contenuto dell’atto di intervento depositato con riferimento al giudizio di costituzionalità promosso con l’ordinanza iscritta al n. 396 del r.o. del 1999.

Considerato in diritto

1. - La questione di legittimità costituzionale, sollevata dalle Corti di appello di Torino (r.o. n. 396 del 1999) e di Napoli (r.o. n. 94 del 2000), chiamate a decidere sulla dichiarazione di ricusazione nei confronti, rispettivamente, di alcuni giudici di una diversa sezione della Corte di appello e dei giudici togati di una Corte di assise, concerne l'art. 37 del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede che possa essere ricusato il giudice che abbia già manifestato il proprio parere sull'oggetto del processo nell'esercizio di funzioni giudiziarie svolte in un diverso procedimento.

In entrambe le ordinanze l'attività pregiudicante viene individuata nella partecipazione del giudice al procedimento di prevenzione, quella pregiudicata nell'essere il medesimo giudice investito delle funzioni di giudizio in un procedimento penale avente ad oggetto i medesimi fatti.

In particolare, con riferimento all'ordinanza iscritta al n. 396 del r.o. del 1999, i giudici ricusati, ora chiamati alle funzioni di giudizio di appello, in precedenza, nella qualità di componenti del collegio chiamato a decidere sui ricorsi avverso decreti di applicazione di misure di prevenzione, avevano espresso giudizi e valutazioni di merito «sulla posizione» degli attuali imputati circa i «fatti ai medesimi attribuiti in imputazione»; in relazione all'ordinanza iscritta al n. 94 del r.o. del 2000, i giudici ricusati, ora chiamati alle funzioni di giudizio quali componenti togati di una Corte di assise, in precedenza, nella qualità di componenti di diversi collegi del tribunale in procedimenti per l'applicazione di misure di prevenzione, avevano accertato l'esistenza di una associazione di tipo mafioso e preso in esame, sia pure in via incidentale, la posizione di alcuni destinatari delle misure, che ora figurano come imputati per il reato di cui all'art. 416-bis cod. pen. e per reati connessi.

Nell'ordinanza n. 94 del r.o. del 2000 la Corte di appello rimettente rileva inoltre che un giudice è stato ricusato anche per aver esercitato funzioni giudicanti in altro procedimento penale; in particolare per avere, nella sentenza conclusiva di tale procedimento, affermato la responsabilità dell'imputato per il reato di tentato omicidio aggravato dall'essere il fatto commesso al fine di agevolare un'associazione camorrista, accertando, sia pure incidentalmente e ai soli fini dell’aggravante contestata, l'esistenza della associazione criminosa oggetto di valutazione a carico del medesimo soggetto nel successivo giudizio penale.

Con argomentazioni sostanzialmente analoghe, le Corti di appello rimettenti denunciano il contrasto della norma censurata con gli artt. 3, primo comma, e 24 della Costituzione. In ordine al primo parametro, viene dedotta l'ingiustificata e irragionevole disparità del trattamento riservato all'imputato nel caso in cui il giudice abbia legittimamente espresso il suo convincimento in un diverso procedimento - situazione in cui il diritto dell'imputato ad un giudice terzo e imparziale riceve tutela solo in quanto il giudice ritenga di astenersi - rispetto alle identiche situazioni di pregiudizio per il principio di imparzialità, previste dalla legge come casi di ricusazione, nelle ipotesi in cui il giudice abbia manifestato il suo parere sull'oggetto del procedimento fuori dell'esercizio delle funzioni giudiziarie ovvero abbia indebitamente manifestato il proprio convincimento sui fatti oggetto dell'imputazione nell'esercizio delle funzioni. Sotto il profilo della violazione dell'art. 24 Cost., i rimettenti rilevano che l'omessa previsione di una causa di ricusazione nei casi in cui la valutazione pregiudicante sia stata espressa nell'esercizio di funzioni giudiziarie svolte in un diverso procedimento lede il diritto di difesa degli imputati ad avere un giusto processo da parte di un giudice terzo e imparziale.

Poiché le ordinanze sollevano identica questione, deve essere disposta la riunione dei relativi giudizi di costituzionalità.

2. - La questione è fondata.

3. - Nel prospettare la questione di legittimità costituzionale, i rimettenti menzionano le sentenze di questa Corte nn. 306, 307 e 308 del 1997, e le successive sentenze nn. 331 e 351 dello stesso anno che ad esse si richiamano, facendo propria la ricostruzione delineata da questa Corte circa le sfere di applicazione degli istituti della incompatibilità e della astensione-ricusazione e la funzione da essi svolta per assicurare una esaustiva tutela del principio del giusto processo, di cui la garanzia dell'imparzialità e della neutralità del giudice costituisce uno dei più rilevanti aspetti.

In quelle decisioni, ed in numerose altre successive, sino alla recente sentenza n. 113 del 2000, la Corte - nel ribadire che la disciplina in materia deve essere comunque idonea ad evitare che il giudice chiamato a svolgere funzioni di giudizio possa essere, o anche solo apparire, condizionato da precedenti valutazioni espresse sulla medesima res iudicanda, tali da esporlo alla forza della prevenzione derivante dalle attività giudiziarie precedentemente svolte - ebbe in particolare a rilevare che la «scelta del legislatore di qualificare una situazione come causa di incompatibilità, ovvero di astensione e di ricusazione, discende [...] dalla possibilità o dalla impossibilità di valutarne preventivamente e in astratto l'effetto pregiudicante per l'imparzialità del giudice penale» (sentenza n. 308 del 1997).

Le situazioni pregiudizievoli per l'imparzialità del giudice riconducibili all'istituto dell'incompatibilità operano infatti all'interno del medesimo procedimento in cui interviene la funzione pregiudicata e si riferiscono ad atti o funzioni che hanno «di per sé effetto pregiudicante, a prescindere dallo specifico contenuto dell'atto stesso o dalle modalità con cui la funzione è stata esercitata» (sentenza n. 308 del 1997); le incompatibilità trovano, dunque, la loro ratio nell'esigenza obiettiva, attinente alla stessa logica del processo, «di preservare l'autonomia e la distinzione della funzione giudicante, in evidente relazione all'esigenza di garanzia dell'imparzialità di quest'ultima, rispetto ad attività compiute in gradi e fasi anteriori del medesimo processo» (sentenza n. 306 del 1997). Ne deriva che le situazioni di incompatibilità, essendo astrattamente tipicizzate dal legislatore, sono prevedibili e quindi prevenibili e, in quanto tali, postulano un onere di organizzare preventivamente la terzietà del giudice, che viene così a «manifestarsi, prima ancora che come diritto delle parti ad un giudice terzo, come modo di essere della giurisdizione nella sua oggettività» (sentenza n. 307 del 1997).

Il carattere di fondo delle situazioni di incompatibilità - di essere, cioè, sempre riferite a rapporti che interessano il medesimo procedimento - non è contraddetto, come prendono atto gli stessi rimettenti, dalla sentenza n. 371 del 1996: tale decisione si riferisce, infatti, alla specifica ipotesi in cui la valutazione pregiudicante, pur essendo stata espressa in un procedimento penale formalmente diverso, riguarda una vicenda processuale sostanzialmente unitaria, che avrebbe potuto, ed anzi normalmente avrebbe dovuto essere giudicata nel medesimo contesto processuale (v. in tale senso sentenze nn. 306, 307 e 308 del 1997, nonché, per un'ipotesi analoga, in cui la precedente valutazione pregiudicante è stata espressa in diverso procedimento avente per oggetto il medesimo fatto storico successivamente addebitato allo stesso imputato, sentenza n. 241 del 1999).

Gli istituti della astensione-ricusazione sono invece caratterizzati dal riferirsi a situazioni pregiudizievoli per l'imparzialità della funzione giudicante - ad eccezione, evidentemente, di quelle che hanno come presupposto i casi di incompatibilità - che normalmente preesistono al procedimento (art. 36, comma 1, lettere a, b, d, e, f, cod. proc. pen.), ovvero si collocano comunque al di fuori di esso (art. 36, comma 1, lettera c, cod. proc. pen.). Anche l'ipotesi di ricusazione descritta dall'art. 37, comma 1, lettera b), cod. proc. pen. non si sottrae a questo criterio di massima: il giudice che nell'esercizio delle funzioni ha manifestato indebitamente il proprio convincimento sui fatti oggetto dell'imputazione opera - per usare le espressioni della prevalente giurisprudenza di legittimità - fuori della sede processuale e dei compiti che gli sono propri.

Risultano pertanto evidenti le ragioni per cui le situazioni che danno luogo alla astensione-ricusazione debbono essere sempre oggetto di una puntuale valutazione di merito, che consenta, previa verifica in concreto dell'eventuale effetto pregiudicante, di rendere operante la tutela del principio del giusto processo: sarebbe infatti «impossibile pretendere dal legislatore uno sforzo di astrazione e di tipicizzazione idoneo a individuare a priori tutte le situazioni in cui il giudice, avendo esercitato funzioni giudiziarie in un diverso procedimento, potrebbe poi venire a trovarsi in una situazione di incompatibilità nel successivo procedimento penale» (sentenza n. 308 del 1997). Ove tale onere venisse imposto al legislatore, «l'intera materia delle incompatibilità, dispersa in una casistica senza fine, diverrebbe refrattaria a qualsiasi tentativo di amministrazione mediante atti di organizzazione preventiva» (sentenza n. 307 del 1997).

Ne emerge un sistema che si propone di apprestare la necessaria tutela del principio del giusto processo in tutti i casi in cui può risultare compromessa l'imparzialità del giudice: le ragioni del pregiudizio sono infatti oggettivamente identiche sia quando il giudice ha manifestato il proprio convincimento all'interno del medesimo procedimento mediante un atto o l'esercizio di una funzione a cui il legislatore attribuisce astrattamente e preventivamente effetti pregiudicanti, sia quando la valutazione di merito è stata espressa in un diverso procedimento (ovvero nel medesimo procedimento, ma mediante un atto che non presuppone una tale valutazione) e gli effetti pregiudicanti debbano quindi essere accertati in concreto, grazie agli istituti dell'astensione e della ricusazione.

L'esigenza di attuare in forma esaustiva la garanzia, inerente al principio del giusto processo, di un giudizio affidato a un giudice non condizionato da precedenti valutazioni, ha trovato riscontro nelle già menzionate sentenze nn. 306, 307 e 308 del 1997: nel dichiarare inammissibili le questioni di legittimità costituzionale allora sollevate, in riferimento all'art. 34 cod. proc. pen., in relazione a valutazioni pregiudicanti a vario titolo espresse in un diverso procedimento, la Corte ebbe a segnalare che, ove il pregiudizio per l'imparzialità del giudice non fosse riconducibile ad alcuna delle ipotesi di astensione o di ricusazione già previste dall'ordinamento, la tutela del giusto processo avrebbe potuto essere assicurata sollecitando un intervento volto ad ampliare l'ambito di applicazione di tali istituti.

Un intervento di tale natura forma appunto l'oggetto della questione di legittimità costituzionale sottoposta al giudizio di questa Corte.

4. - Nelle situazioni di fatto prospettate dai rimettenti sono indubbiamente riscontrabili profili di pregiudizio per l'imparzialità e la neutralità della funzione giudicante.

Da entrambe le ordinanze di rimessione emerge, infatti, che i giudici sono stati ricusati - ed in alcuni casi hanno presentato senza esito dichiarazione di astensione - per avere in precedenza espresso, nell'ambito di un diverso procedimento relativo all'applicazione della misura di prevenzione della sorveglianza speciale della pubblica sicurezza, valutazioni e giudizi di merito sulla posizione dei destinatari delle misure di prevenzione, in relazione ai medesimi fatti loro attribuiti nel giudizio penale, ovvero per avere accertato, nell'ambito del procedimento di prevenzione, l'esistenza dell'associazione di stampo mafioso e la partecipazione ad essa dei medesimi soggetti ora sottoposti a giudizio penale per il delitto di cui all'art. 416-bis cod. pen.

Al riguardo, questa Corte ha già avuto occasione di affermare che il pregiudizio per l'imparzialità-neutralità del giudicante può verificarsi anche nei rapporti tra il procedimento penale e quello di prevenzione, sia quando la valutazione pregiudicante sia stata espressa nel primo in sede di accertamento dei gravi indizi di colpevolezza, quale condizione di applicabilità delle misure cautelari (sentenza n. 306 del 1997), sia quando il rapporto di successione temporale tra attività pregiudicante e funzione pregiudicata sia invertito, per avere il giudice, chiamato a pronunciarsi sulla responsabilità penale di un imputato del delitto di associazione di stampo mafioso, già espresso nell'ambito del procedimento di prevenzione una valutazione sull'esistenza dell'associazione e sull'appartenenza ad essa della persona imputata nel successivo processo penale (ordinanza n. 178 del 1999).

Le questioni, allora sollevate con riferimento all'art. 34 cod. proc. pen., vennero ritenute inammissibili perché la situazione di pregiudizio avrebbe dovuto essere inquadrata nell'area di applicazione degli istituti dell'astensione e della ricusazione. In questa direzione si muovono, appunto, gli attuali rimettenti, i quali lamentano che la situazione di pregiudizio prospettata non rientra in alcune delle cause di ricusazione contemplate dall'art. 37 cod. proc. pen.

In effetti, nel caso di specie il pregiudizio per l'imparzialità-neutralità del giudice non è riconducibile, per le ragioni sinora esposte, ai casi di incompatibilità (cui fa riferimento, quali altrettante cause di astensione, la lettera g del comma 1 dell'art. 36 cod. proc. pen., richiamata dall'art. 37, comma 1, lettera a, cod. proc. pen.), ma neppure rientra nelle cause di astensione e di ricusazione riferite a precedenti manifestazioni del convincimento del giudice sull'oggetto del procedimento o sui fatti oggetto dell'imputazione: non nella causa di astensione di cui alla lettera c) del comma 1 dell'art. 36 cod. proc. pen. (richiamata quale causa di ricusazione dall'art. 37, comma 1, lettera a, cod. proc. pen.), in quanto relativa a consigli o pareri sull'oggetto del procedimento espressi fuori dell'esercizio delle funzioni giudiziarie; non nella causa di ricusazione di cui all'art. 37, comma 1, lettera b), cod. proc. pen., che presuppone una manifestazione del convincimento sui fatti oggetto dell'imputazione espressa indebitamente nell'esercizio delle funzioni giudiziarie, mentre nelle situazioni sottoposte al giudizio di questa Corte le valutazioni pregiudicanti rientrano nelle funzioni proprie dei giudici poi ricusati.

Le esigenze di tutela del principio del giusto processo non possono d'altro canto essere assicurate soltanto dall'obbligo del giudice di astenersi ove ricorrano "altre gravi ragioni di convenienza", per la ragione che tale causa di astensione, prevista dall'art. 36, comma 1, lettera h), cod. proc. pen., non rientra tra quelle che l'art. 37, comma 1, lettera a), cod. proc. pen. indica tra i motivi di ricusazione. Anche dopo che questa Corte ha affermato che le "altre gravi ragioni di convenienza" si riferiscono non solo a situazioni di pregiudizio per l'imparzialità del giudice derivanti da ragioni extraprocessuali, cioè di carattere personale e collegate alla posizione del giudice uti privatus, ma si estendono, in attuazione del principio del giusto processo, ai casi in cui l'imparzialità del giudice risulti compromessa dallo svolgimento di precedenti attività giudiziarie (sentenza n. 113 del 2000), la tutela del principio non sarebbe comunque esaustiva, in quanto subordinata all'iniziativa del giudice.

Sussistono quindi i presupposti che la Corte aveva a suo tempo indicato quali condizioni per un eventuale intervento volto ad estendere l'area di applicazione degli istituti dell'astensione e della ricusazione a situazioni non espressamente previste dal codice di rito, ma tuttavia capaci di esprimere analoghi effetti pregiudicanti per l'imparzialità-neutralità del giudice. In particolare, l'intervento è imposto dai parametri costituzionali a cui la giurisprudenza di questa Corte si è richiamata nell'affermare l'operatività del principio del giusto processo in tema di garanzia dell'imparzialità del giudice (v., ad esempio, sentenze nn. 113 del 2000, 241 del 1999, 290 del 1998, 346 e 311 del 1997, 155 e 131 del 1996, 432 del 1995); principio che ha trovato esplicita menzione nell'art. 111, secondo comma, Cost. (come modificato dall'art. 1, comma 1, della legge costituzionale 23 novembre 1999, n. 2), là dove viene enunciata la regola che ogni processo si svolge davanti a un giudice terzo e imparziale.

5. - Le medesime considerazioni valgono per la situazione prospettata nell'ordinanza di rimessione della Corte di appello di Napoli, relativa al pregiudizio che deriverebbe dall'avere uno dei giudici ricusati esercitato funzioni giudicanti in altro procedimento penale per il reato di tentato omicidio aggravato dal fine di agevolare l'attività dell'associazione di cui all'art. 416-bis cod. pen., conclusosi con la condanna della persona ora imputata del delitto di partecipazione a quella medesima associazione di stampo mafioso la cui esistenza è stata già valutata sub specie di circostanza aggravante.

Non vi è dubbio, infatti, che il giudizio sulla sussistenza dell'aggravante può in concreto presupporre una valutazione sul merito non solo dell'esistenza dell'associazione criminosa, ma anche della partecipazione dell'imputato a tale associazione.

6. - In linea con la prospettazione dei giudici rimettenti, la sede più appropriata per colmare, mediante una disposizione di chiusura del sistema delle incompatibilità e dell'astensione-ricusazione, la denunciata carenza di tutela del principio del giusto processo, è l'art. 37 cod. proc. pen., specie dopo che, come sopra ricordato, la sentenza n. 113 del 2000 ha affermato che le gravi ragioni di convenienza di cui all'art. 36, comma 1, lettera h), cod. proc. pen. non possono non estendersi al pregiudizio che discende da attività processuali svolte in precedenza, così imponendo anche in tali situazioni l'obbligo del giudice di astenersi.

Il confronto con le due cause di ricusazione e di astensione disciplinate dagli artt. 37, comma 1, lettera b), e 36, comma 1, lettera c), cod. proc. pen., che all'apparenza presentano maggiori affinità con le fattispecie dedotte in giudizio, induce a formulare l'intervento di questa Corte in maniera del tutto autonoma, anche per evitare che le esigenze di tutela del giusto processo possano in qualche modo essere condizionate dalla stratificazione giurisprudenziale e dottrinale in materia. In particolare, è necessario tenere presente che nelle ipotesi oggetto del presente giudizio di costituzionalità le precedenti valutazioni pregiudicanti espresse dal giudice in un diverso procedimento rientrano legittimamente e doverosamente nell'esercizio delle funzioni giudiziarie.

Sulla base di queste premesse, deve essere dichiarata l'illegittimità costituzionale dell'art. 37 cod. proc. pen., nella parte in cui non riconosce alle parti la facoltà di ricusare il giudice che in un diverso procedimento, anche non penale, abbia espresso una valutazione di merito sullo stesso fatto e nei confronti del medesimo soggetto.

Al riguardo, va rilevato che non è sufficiente, ai fini della individuazione dell'attività pregiudicante, che il giudice abbia in precedenza avuto mera cognizione dei fatti di causa, raccolto prove, ovvero si sia espresso solo incidentalmente e occasionalmente su particolari aspetti della vicenda processuale sottoposta al suo giudizio (v. la costante giurisprudenza costituzionale in materia e, in particolare, le sentenze nn. 131 e 155 del 1996 e le decisioni in queste richiamate, nonché, da ultimo, le ordinanze nn. 444, 153, 152, 135 e 29 del 1999, 206 e 203 del 1998 e la sentenza n. 364 del 1997).

L'effetto pregiudicante non può, inoltre, essere limitato ai soli casi in cui la valutazione di merito sia contenuta in una sentenza, in quanto il giudice può esprimersi nella forma del decreto, come nella ipotesi - oggetto del presente giudizio - del procedimento di prevenzione, ovvero nelle altre forme eventualmente previste dal diverso procedimento in cui sia intervenuta la valutazione pregiudicante.

La funzione pregiudicata va a sua volta individuata in una decisione attinente alla responsabilità penale, essendo necessario, perché si verifichi un pregiudizio per l'imparzialità, che il giudice sia chiamato ad esprimere una valutazione di merito collegata alla decisione finale della causa.

Si deve comunque precisare che, alla stregua dei rapporti sistematici tra incompatibilità e cause di astensione-ricusazione, queste ultime, ove si sostanzino nella manifestazione di un convincimento espresso in un diverso procedimento, sono caratterizzate dalla loro non idoneità ad essere tipicizzate preventivamente dal legislatore, in quanto la loro stessa natura impone che sia il giudice, nell'ambito della cornice generale delineata dalla legge, ad accertare in concreto e caso per caso l'effetto pregiudicante per l'imparzialità. Sarà dunque l'elaborazione giurisprudenziale, così come è avvenuto per le cause di astensione e di ricusazione già previste nel codice, a definire i vari casi di applicazione di questa causa di ricusazione.

PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 37, comma 1, del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede che possa essere ricusato dalle parti il giudice che, chiamato a decidere sulla responsabilità di un imputato, abbia espresso in altro procedimento, anche non penale, una valutazione di merito sullo stesso fatto nei confronti del medesimo soggetto.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 6 luglio 2000.

Cesare MIRABELLI, Presidente

Guido NEPPI MODONA, Redattore

Depositata in cancelleria il 14 luglio 2000.

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Nota di Carlo Alberto Zaina

La sentenza della Corte Costituzionale n. 283 viene a cadere in un momento di apparente "normalizzazione garantista" del processo penale.

Certamente si inserisce, in modo autorevole, in quel sentiero legislativo e giurisprudenziale, che nell’ultimo anno ha, seppur con molte contraddizioni e modificazioni, portato ad una rivisitazione critica del processo penale,che dovrebbe divenire "il giusto processo".

Questa evoluzione ha, sino ad oggi, coinvolto principalmente la fase del dibattimento; si pensi solo al grande interesse che ha coinvolto l’art. 513 cpp, l’art. 210 cpp soprattutto per la loro relazione con il nuovo art. 11 della costituzione.

La fase delle indagini preliminari è, purtroppo, rimasta coinvolta in modo estremamente limitato; segno di un errore di prospettiva del legislatore.

La sentenza che si commenta, come si avrà modo di rilevare in seguito, trascende - per le tematiche che ne possono conseguire - il problema devoluto alla Corte, in senso stretto, e cioè la mancata previsione da parte dell’art. 37 cpp, di una ipotesi di ricusazione specifica.

Il reale thema che sottende al provvedimento in esame è quello del raggiungimento della massima imparzialità del giudice nel processo penale, quindi, in un qualunque fase, stato e grado del processo, anche prima del dibattimento.

Tensione, questa, fatta propria dai giudici costituzionali, che dimostra e conferma, quindi, che le lamentele che da più parti dell’avvocatura salivano (e venivano interpretate come gratuiti attacchi al potere giudiziario), avevano una loro concreta fondatezza e non erano espressioni di un interesse politico settoriale, connesso a schieramenti partitocratici.

Il principio sancito dalla Corte è inequivoco: viene riconosciuta come contraria all’art. 3 Costituzione, "l'ingiustificata e irragionevole disparità del trattamento riservato all'imputato nel caso in cui il giudice abbia legittimamente espresso il suo convincimento in un diverso procedimento - situazione in cui il diritto dell'imputato ad un giudice terzo e imparziale riceve tutela solo in quanto il giudice ritenga di astenersi - rispetto alle identiche situazioni di pregiudizio per il principio di imparzialità, previste dalla legge come casi di ricusazione, nelle ipotesi in cui il giudice abbia manifestato il suo parere sull'oggetto del procedimento fuori dell'esercizio delle funzioni giudiziarie ovvero abbia indebitamente manifestato il proprio convincimento sui fatti oggetto dell'imputazione nell'esercizio delle funzioni".

Or bene, senza dimenticare che il giudice delle leggi verifica, pure, un ulteriore profilo di contrasto con l’art. 24 Cost., pare a chi scrive che la questione sopra riportata sia quella di maggior rilievo.

Si deve, infatti, ribadire, immediatamente, come la necessità di una imparzialità non solo formale, ma concreta e tangibile, sia divenuta, ormai, non solo richiesta della parte privata (indagato, difensore o persona offesa), ma proprio elemento catalizzante l’essenza del processo penale.

Si va, quindi, a superare quello stato emergenziale, quantomeno in sede processualpenalistica, che ha connotato l’ultimo decennio, contraddistinto, sine dubio, da una rilevante omologazione di posizioni (e di interpretazioni) fra magistratura inquirente e requirente.

Come si è già sottolineato, la forza dirompente e propulsiva della pronunzia, va di gran lunga al di là dell’effetto caducante una norma, nella fattispecie l’art. 37 co. 1 cpp, che d’ora in poi prevederà una nuova ipotesi di ricusazione.

Il vero significato dell’intervento dei giudici costituzionali si può comprendere laddove il concetto di imparzialità, viene, una volta per tutte, ripreso e delineato come ben diverso da quello più angusto di incompatibilità di cui all’art. 34 cpp, in quanto di portata e riferimento più ampio di quest’ultimo.

E’, pertanto, indubbio che l’incompatibilità altro non che è una specie del più ampio concetto di imparzialità, all’interno del quale viene ricompresa.

Il sistema delle incompatibilità del giudice, venutosi ad evolvere negli anni ’90, attraverso una progressiva rifondazione, rilettura e riscrittura dell’art. 34[1], operata in modo sistematico, prima, dalla Corte Costituzionale e, successivamente, (con il solito ritardo) dal legislatore, soprattutto con il D.L.vo 19.2.1998 n. 51 e con la L. 22.7.1999 n. 234, ha sempre avuto riguardo esclusivamente al medesimo ambito processuale, cioè a dinamiche riguardante lo stesso processo o procedimento.

In pratica sono state mutate le regole di partecipazione del giudice allo stesso procedimento (o processo) penale, in virtù del compimento di determinati atti.

Nonostante tutto il complesso intervento modificatorio, sia giurisprudenziale, che legislativo, sin qui ricordato, il problema di giungere alla completa imparzialità del giudice, con riaffermazione della di lui terzietà, restava sostanzialmente insoluto, non prevedendosi, a livello codicistico, forme di incompatibilità diverse e più ampie rispetto a quelle previste dall’art. 34 cpp.

Or bene soprattutto l’ordinanza di remissione alla Corte Costituzione, emessa della Corte di Appello di Napoli, l’8.3.2000, focalizza il problema in esame, rilevando, nel caso di specie: "…inoltre che un giudice è stato ricusato anche per aver esercitato funzioni giudicanti in altro procedimento penale; in particolare per avere, nella sentenza conclusiva di tale procedimento, affermato la responsabilità dell'imputato per il reato di tentato omicidio aggravato dall'essere il fatto commesso al fine di agevolare un'associazione camorrista, accertando, sia pure incidentalmente e ai soli fini dell’aggravante contestata, l'esistenza della associazione criminosa oggetto di valutazione a carico del medesimo soggetto nel successivo giudizio penale.[2]"

La tematica riportata appare ancor più pregnante, sol che si pensi al fatto che i giudici emittenti manifestano fondata preoccupazione anche in relazione a :"..situazioni pregiudicanti riferite a rapporti processuali che non investono lo stesso procedimento"., così, focalizzato l’aspetto soggettivo del problema, e cioè la necessità che l’inquisito non venga sottoposto ad un giudizio che possa venir celebrato da un giudice, che già in passato abbia potuto esprimersi, non tanto o non solo in relazione alla colpevolezza od innocenza dell’interessato, quanto piuttosto abbia già manifestato valutazioni che possano risultare, comunque, condizionanti in successivi giudizi.

Si potrà discutere sulla necessità di una evoluzione che porti ad una sorta di tipizzazione indicativa di quelli che possano essere ritenuti "giudizi condizionanti", anche se come giustamente la Corte ricorda, in precedenza indicazioni di massima in tal senso sono state fatte.[3]

Il quesito che ci si deve porre è quello di verificare il campo di applicazione dello strumento della ricusazione.

Ci si deve domandare, cioè, se l’istituto in parola, a questo punto, al di là della sua potenziale applicazione in modo costante, in qualsiasi stato e grado del procedimento penale, come appare, in effetti, da una lettura piuttosto ovvia della norma, possa venir trovare spazio anche nel caso in cui si il giudice si sia espresso in tema di misure cautelari, seppur in altro processo o procedimento.

Se è vero che il giudice delle leggi afferma che "…questa Corte ha già avuto occasione di affermare che il pregiudizio per l'imparzialità-neutralità del giudicante può verificarsi anche nei rapporti tra il procedimento penale e quello di prevenzione, sia quando la valutazione pregiudicante sia stata espressa nel primo in sede di accertamento dei gravi indizi di colpevolezza, quale condizione di applicabilità delle misure cautelari (sentenza n. 306 del 1997)", sorge il dubbio in ordine alla circostanza, che la condizione di pregiudizio, ricordata, possa nascere e venire ravvisata anche nella valutazione del rapporto che può intercorrere tra due procedimenti di cognizione penale, seppur diversi, aventi il medesimo inquisito (od i medesimi inquisiti), che siano assegnati, in epoche diverse, al medesimo giudice.

D’altronde, come si è detto, e non pare potervi esser dubbio, il presupposto dal quale muove la Corte, (al di là dell’istituto della ricusazione, che è mero casus belli - rectius strumento od occasione che dir si voglia - nel caso di specie), è quello della riaffermazione dei principi del giusto processo e della terzietà del giudice.

Appare, quindi, doveroso per l’esegeta porsi la questione relativa alla esatta determinazione della portata del principio in esame e la sua concreta applicazione a fattispecie tipiche.

Ci si deve, quindi, domandare, ad esempio, se un G.I.P. che abbia espresso, in un procedimento penale, valutazioni di sussistenza di gravi indizi di colpevolezza, o di sussistenza di esigenze cautelari di natura soggettiva (la pericolosità recidivante di cui alla lett. c dell’art. 274 cpp) a fini di applicazione di misure cautelari, in capo un ad un soggetto, trovandosi in analoga situazione, concernente simile imputazione e medesimo indagato, possa esser ritenuto condizionato dal pregresso giudizio.

Ed ancora un giudice che abbia valutato in precedenza, pronunziando sentenza, un imputato, e abbia ovviamente motivato scelte operate a suo carico (es. la reiezione delle attenuanti generiche, valutando l’imputato negativamente sul piano personale e prognostico), trovandosi a giudicare lo stesso soggetto, per un fatto naturalisticamente e temporalmente diverso, ma identico per definizione giuridica della condotta, potrà essere tacciato ex lege di condizionamento, ed essere suscettibile di ricusazione, in assenza di astensione?

Questi sono probabilmente i casi più eclatanti, solo per citarne alcuni, che nella pratica quotidiana possono porsi e che allo stato devono ancora subire un vaglio giurisprudenziale.

Pur dovendo procrastinare alla fase della quotidiana pratica giudiziaria, talune risposte, certamente allo stato si può affermare che:

1) la Corte pur avendo ben presente che il dovere di imparzialità del giudice non si esaurisce e si riferisce alla sola fase del dibattimento, non ha forse valutato e potuto prevedere le ulteriori conseguenze che possono derivare e che deriveranno dall’applicazione dei principi stabiliti;

2) come si è, infatti, affermato, le indagini preliminari presentano numerose situazioni - quali quelle sopra descritte - che porteranno, nel solco del provvedimento sin qui esaminato, a dover valutare doglianze di parte che prospettino situazioni di assenza di imparzialità o di presenza di condizionamenti del giudice;

3) solo un intervento interpretativo della stessa Corte, od un provvedimento legislativo potranno chiarire la vicenda;

4) ci si scontrerà, inevitabilmente, laddove si ponesse la questione, con un problema pratico riguardante le carenze di organico della magistratura.

E’ chiaro, quindi, che nei termini della sentenza in esame pare che, in qualunque fase processuale, ivi comprese quelle indicate esemplificativamente, si debba preliminarmente porre il problema di quanto incida sulla decisione del giudice, l’aver precedentemente giudicato l’inquisito.

Questo aspetto, teoricamente, si può acuire laddove il giudice, abbia svolto in altri processi anche altre funzioni, pensiamo ad un G.U.P. che sia stato P.M., in precedenza, e si trovi a giudicare imputati, dei quali in altri procedimenti abbia chiesto cattura, rinvio a giudizio o condanna, esprimendo valutazioni su condotte e su aspetti della personalità degli stessi.

Se è vero che l’art. 36 lett. h) cpp prevede, come causa di astensione, l’indeterminata categoria delle gravi ragioni di convenienza, tale previsione pecca, nel caso che ci occupa. di assoluta genericità.

Essa non trova, altresì, riscontro nel successivo art. 37 cpp.

Chi mai ammetterà, salvo rare eccezioni, di affrontare in modo del tutto asettico e scevro dal minimo pregiudizio, il compito di rigiudicare a qualsiasi titolo una persona già oggetto di  giudizio in altro (e magari simile) pregresso processo?

Non può non rilevarsi che, comunque, la sentenza che si richiama è ulteriore dimostrazione della scarsa previdenza e lungimiranza del legislatore, che pare, nelle proprie scelte, chiuso in una torre d’avorio, priva di contatti con la "misera" realtà giudiziaria di tutti i giorni.

Siffatto rischio, che è sotto gli occhi di tutti, inutile nasconderselo, è quello che una rigorosa e corretta applicazione del meccanismo dell’astensione o della ricusazione, porti a dover fronteggiare improvvisamente un serie di problemi pratici, già manifestatisi, in relazione all’art. 34 cpp.

Vi è da porre sul piatto della bilancia la conseguenza, esclusivamente morale, sarebbe quella di permettere di dare voce a quei giustizialisti che hanno sempre osteggiato una evoluzione intelligente del processo penale.

Non vi è dubbio che ci possa essere chi, in tale situazione, evocherebbe in maniera strumentale una possibile paralisi della giustizia, che porti, poi, a valutare negativamente e disattendere, in concreto, le timide crepe garantistiche che si sono aperte nell’ordinamento processualpenalistico.

E’ fuor di dubbio che la necessità di riaffermare la terzietà ed imparzialità del giudice, non possa, peraltro, prescindere, da interventi più complessivi, qualunque sia il prezzo da pagare e che essa non possa trovare suo fondamento solo in situazioni che hanno il carattere della specificità e casualità.

Lo strumento della ricusazione in ordinamento processuale, deve essere un istituto di carattere eccezionale; ciò postula che, senza cadere in pedantezze sistematiche, si debba prevedere una serie di meccanismi di garanzia, per ovviare alle situazioni esaminate.

Questo intervento, chiunque, lo intenda portare avanti non è comunque procrastinabile; siamo già in ritardo ed il nostro codice di rito è ormai molto simile al gruviera.

- avv. Carlo Alberto Zaina - agosto 2000 -

(riproduzione riservata)


[1]V. Corte Cost. sent. n. 496 del 26.10.1990, e segg. fino alla ultima pronuncia n. 241 del 17.6.1999
[2] V. sent. 6-14.7.2000 n. 283

[3]V.sent. n. 306 del 1997 ed ordin. n. 178 del 1999)

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