Corte di Cassazione, Sezione IV Penale,
Sentenza 11 aprile 2000, n. 2361

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE IV PENALE

Udienza in Camera
Di Consiglio
Del 11/04/2000

Sentenza n. 2361

Registro Generale n. 3558/2000

Composta dagli Ill.mi Sigg.:

1. Dott. LOSAPIO Mauro Domenico            Presidente
2. Dott. DE GRAZIA Benito Romano              Consigliere
3. Dott. SAVINO Vito                     Consigliere
4. Dott. MARZANO Francesco           Consigliere

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

Procuratore Generale della Repubblica presso il tribunale di Tivoli

nei confronti di:

DEL GALLO Michele, nato il 01/11/1960

Avverso: ordinanza del 14/01/2000 del Tribunale di Tivoli

sentita la relazione svolta dal Consigliere LOSAPIO Mauro Domenico;

lette / sentite le conclusioni del P.G.;

La Corte rileva.

1.Nel procedimento penale a carico di Del Gallo Michele, chiamato all'udienza dibattimentale del 14 gennaio 2000 innanzi al Tribunale di Roma in funzione Monocratica, sezione distaccata di Tivoli, il Giudice designato, con provvedimento di pari data, dichiarò "[…] la nullità della costituzione all'udienza del Pubblico Ministero in quanto rappresentato da soggetto non legittimato ex lege"; dispose il rinvio del dibattimento all'udienza del 27 maggio 2000 e la comunicazione del provvedimento al Procuratore della Repubblica.

Il Giudice osservò, in linea di fatto, che il giudizio riguardava l'accusa di omicidio colposo, non rientrante tra quelle regolate, quanto a citazione, dall'art. 550 c.p.p. e che a rappresentare l'ufficio di accusa era stato delegato dal Procuratore della Repubblica un magistrato onorario (vice procuratore onorario) rientrante in una delle categorie previste dall'art. 72 del vigente ordinamento giudiziario (r.d. 30 gennaio 1941, n. 12), come novellato prima dall'art. 23 d. lgv. 19 febbraio 1998, n. 51 e, poi, dall'art. 58 della prefata legge 16 dicembre 1999, n. 479.

Tale disposizione, rilevò il Giudice in diritto, consente sì l'attribuzione di della a rappresentare l'accusa nel pubblico dibattimento innanzi al Tribunale in funzione monocratica ma nel rispetto della regola, dettata dall'ultimo comma del richiamato art. 723 ordinamento giudiziario (come sopra novellato), il quale prescrive che: "Nella materia penale, è seguito altresì il criterio di non delegare le funzioni del Pubblico Ministero in relazione a procedimenti relativi a reati diversi da quelli per cui si procede con citazione diretta a giudizio secondo quanto previsto dall'art. 550 c.p.p." Ne seguirebbe, secondo il decidente, che, pur potendosi interpretare la disposizione nel senso che essa detti una regola concernente l'organizzazione interna dell'ufficio del Pubblico Ministero, come tale superabile in presenza di "inderogabili ed urgenti necessità", per una serie di considerazioni di carattere ermeneutico e di valorizzazione dell'indirizzo di politica legislativa in materia giudiziaria penale, tendente al contenimento dell'utilizzo della magistratura onoraria (sia giudicante che requirente), dovrebbe pervenirsi a una conclusione di inderogabilità della disposizione. Con la conseguenza che, in caso di delega ad intervenire nel dibattimento, relativo a reato non rientrante nel novero di quelli specificati dall'art. 550 c.p.p., conferita a un soggetto tra quelli specificati al comma 1 del ridetto art. 72 ordinamento giudiziario, l'ufficio del Pubblico Ministero risulterebbe irritualmente costituito e rappresentato coinvolgendo una nullità di ordine generale, ma non assoluta, a mente dell'art. 178 comma 1 lett. b) c.p.p., rilevabile anche d'ufficio, secondo le cadenze designate dall'art. 180 stesso codice. Né, osservò ulteriormente il Giudice, la disposizione concernente l'ufficio di accusa prevede una qualche deroga pur ammessa per la funzione giudicante dall'art. 57 della "legge Carotti".

2. Avverso detta ordinanza ricorre per Cassazione il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Roma denunziando violazione di legge.

Secondo il deducente deve tenersi presente, da un canto, che il comma 1 dell'art. 23 d. lgv. N. 51 del 1998, in tutte le sue articolazioni [dalla lettera a) sino alla lettera e)], non ha subito alcuna abrogazione o modifica per effetto di norme successive, sicchè in tutti i procedimenti da trattare con il rito monocratico l'accusa può essere rappresentata da magistrati onorari secondo le previsioni e con le limitazioni di cui alle lettere da a) sino a d) della richiamata disposizione di legge; dall'altro canto, che l'art. 58 della l. 16 dicembre 1999, n. 479, si è limitato ad introdurre una modifica all'ultimo comma dell'art. 72 ordinamento giudiziario (come in precedenza già novellato), adeguando così la regola di indirizzo alla nuova formulazione dell'art. 550 c.p.p. Tale interpretazione, sempre secondo l'ufficio ricorrente, sarebbe avvalorata dalla diversa formulazione dell'art. 43 - bis dell'ordinamento giudiziario, come introdotto dall'art. 10 del d. lgv. N. 51 del 1998.

In conclusione, per il Procuratore della Repubblica di Roma, l'ufficio di accusa nel pubblico dibattimento relativo a reati da trattare con il rito monocratico è validamente costituito e rappresentato da un magistrato onorario appositamente delegato, a nulla rilevando, a tali fini, la circostanza che nel conferimento della delega debba, da parte del delegante, seguirsi il criterio di indirizzo di avvalersi del potere di delega solo in casi di "imprescindibili e prevalenti esigenze di servizio", secondo la formula adottata, in caso diverso ma omogeneo, dall'art. 57 comma 2 -quinques dalla l. 479 del 1999.

3. Osserva il Collegio che, preliminarmente, deve essere segnalata l'ammissibilità del ricorso.

L'ordinanza impugnata è stata emessa nella fase degli atti introduttivi al dibattimento nell'esplicazione del potere dovere del Giudice di controllare la regolare costituzione delle parti prima di dare inizio al dibattimento, ex art. 454 comma 1 c.p.p. Procedendo a tale verifica, invero, il Giudice ha rilevato la "nullità della costituzione all'udienza del Pubblico Ministero", sicchè, secondo l'opinione del giudicante, una delle parti, quella pubblica, non poteva ritenersi ritualmente costituita; donde il rinvio a nuova udienza.

Per tale categoria di provvedimenti non è previsto nessun mezzo di impugnazione; anzi, trattandosi di un provvedimento di carattere ordinatorio reso nella fase del dibattimento (degli atti introduttivi al dibattimento), ne risulta positivamente esclusa l'impugnabilità (art. 586 c.p.p.) anche mediante ricorso per Cassazione non sussistendo alcuna delle ipotesi specificamente previste dalla legge processuale; sicchè, per il principio generale di tassatività delle impugnazioni enunciato dall'art. 177 c.p.p., l'ordinanza di cui si discute deve ritenersi inoppugnabile.

4. Tuttavia, osserva il Collegio, deve essere attentamente valutata la specificità del caso come regolato dal Giudice, laddove la ritenuta nullità della costituzione dell'ufficio di accusa è stata correlata, e sostenuta - come emerge anche dalla decisione di rinvio a data fissa dell'udienza dibattimentale - dall'esigenza, presupposta dal Giudice, di consentire alla parte pubblica di regolarizzare la costituzione mediante l'intervento di soggetto ritenuto idoneo a legittimamente espletare la funzione di Pubblico Ministero nello specifico dibattimento. id est un magistrato togato.

In sostanza, il Giudice non si è limitato a verificare la regolare costituzione delle parti nel dato dibattimento, ma ha dettato, seppure implicitamente, una regola cui l'ufficio di pubblica accusa dovrà adeguarsi ove intenda (alla fissata udienza) proseguire nell'esercizio dell'azione penale, peraltro irretrattabile (art. 112 Cost.; art. 50 comma 3 c.p.p.).

Ciò, però, implica il coinvolgimento dell'organizzazione dell'ufficio di Procura della Repubblica con compromissione di valori, anche a livello costituzionale (ad es. art. 107 comma 4 Cost.), a riguardo dell'autonomia dell'ufficio di pubblica accusa, e pone seri interrogativi quanto al limite di poteri spettanti al Giudice nell'esercizio della sua funzione di garante della regolare costituzione delle parti nel dato processo nel quale è giudice.

Inoltre,  si apprezza una situazione d'immediatezza dell'esigenza, per la parte pubblica, a provocare dal Giudice di legittimità la decisione sulla corretta interpretazione della legge: quando l'ufficio adeguasse la sua condotta al provvedimento del giudice, da un canto, andrebbe disperso l'interesse alla deduzione della censura, ormai non più attuale (art. 568 comma 4 c.p.p.), dall'altro, si perpetuerebbe, irrimediabilmente, sino allo stallo, la ritenuta non corretta interpretazione della legge.

5. Tale prospettiva delle problematiche sollevate dalla decisione impugnata, inclinante verso una possibile diaspora tra principi costituzionali e regola procedimentale, è ricomponibile, a giudizio del Collegio, facendo ricorso all'istituto dell'abnormità (dell'atto processuale), per rimediare alla quale è riconosciuto all'interessato la facoltà di ricorso alla Corte di legittimità.

Per il vero, la categoria dell'atto "abnorme" non trova referenti codicistici ed è di costruzione essenzialmente dottrinaria e giurisprudenziale, come rileva la Relazione al Progetto preliminare al nuovo codice di procedura penale (p. 126), secondo la quale la regola della tassatività delle impugnazioni non è applicabile ai provvedimenti abnormi "[…] attesa la rilevante difficoltà di una possibile tipizzazione e la necessità di lasciare sempre alla giurisprudenza di rilevarne l'esistenza e di fissarne le caratteristiche ai fini dell'impugnabilità. Se, infatti - prosegue la citata relazione -, proprio per il principio di tassatività, dovrebbe essere esclusa ogni impugnazione non prevista, è vero pure che il generale rimedio del ricorso per Cassazione consente comunque l'esperimento di un gravame atto a rimuovere un provvedimento non inquadrabile nel sistema processuale o adottato a fini diversi da quelli previsti dall'ordinamento".

Si tratta, quindi, di un espediente e, nello stesso tempo, di uno strumento processuale che consente al Giudice di legittimità di porre rimedio a situazioni procedimentali altrimenti insostenibili e di ricondurre il sistema processuale a coerenza interna e, nello stesso tempo, entro il parametro dei principi costituzionali e di legalità.

6. Secondo i più recenti guadagni della giurisprudenza della Corte, che hanno dato maggiore spessore e più agilità operativa all'istituto che ne occupa, è definibile abnorme il provvedimento giurisdizionale che, per la singolarità e stranezza del contenuto, risulti avulso dall'intero ordinamento processuale (sicchè il legislatore non avrebbe potuto prevederlo e, quindi, regolamentarlo), ovvero che, pur essendo in astratto manifestazione di legittimo potere dell'organo che lo ha emesso, si esplichi al di fuori dei casi consentiti e delle ipotesi previste, al di là di ogni ragionevole limite. Con la conseguenza che l'abnormità dell'atto processuale può riguardare tanto il profilo strutturale, allorchè l'atto, per la sua singolarità, si ponga al di fuori del sistema organico della legge processuale, quanto il profilo funzionale, quando esso, pur non estraneo al sistema normativo, determini la stasi del procedimento o l'impossibilità di proseguirlo (cfr. Sez. Un., 25/11/1999, Magnani, CED n. 215094; Sez. Un., 10/12/1997, n. 17, Di Battista, ivi, n. 209603).

Peraltro, è lo stesso legislatore del rito penale, sia pure attraverso la voce della "Relazione", che, astenendosi dal definire precisi contorni e limiti allo strumento processuale, lascia alla pratica giudiziaria aperte le porte per la definizione della relativa casistica, la quale, per come si apprende consultando le decisioni della Corte sull'argomento, spaziano dall'estraneità dell'atto al sistema processuale, alla finalizzazione dello stesso a scopi diversi rispetto a quelli previsti dall'ordinamento, sino alla ipotesi di compromissione del funzionamento di strutture portanti del processo.

Se sono state correttamente percepite le implicazioni sopra delineate, ne segue che il provvedimento de quo agitur può catalogarsi nella specie "atto abnorme", in quanto capace di produrre l'effetto di imporre alla Procura della Repubblica l'adeguamento alla - ritenuta non corretta - interpretazione della legge come fornita dal Giudice, ovvero quello della stasi del processo, con violazione di norme di livello costituzionale, per quanto avanti esplicitato. Il che pare sufficiente a giustificare il superamento della regola di tassatività e ad imporre l'esame delle ragioni di censura esplicitate dal ricorrente.

7. ragioni che, a giudizio del Collegio, appaiono fondate.

E' sufficiente, al fine di razionalizzare la presente decisione, porre in rilievo che il vigente art. 72 ordinamento giudiziario, come modificato e integrato prima dall'art. 23 d. lgv. N. 51/1998 e poi dall'art. 58 della l. n. 479/99, la cui rubrica parla di "Delegati del Procuratore della Repubblica presso il Tribunale ordinario", stabilisce, al comma 1, che "Nei procedimenti sui quali il Tribunale giudica in composizione monocratica, le funzioni del Pubblico Ministero possono essere svolte per delega nominativa del Procuratore della Repubblica presso il Tribunale ordinario:

a)   nell'udienza dibattimentale, da uditori giudiziari, da vice procuratori onorari addetti all'ufficio, ecc..;

b)   nell'udienza di convalida dell'arresto o del fermo, da uditori giudiziari […], nonché, limitatamente alla convalida dell'arresto nel giudizio direttissimo, da vice procuratori onorari addetti all'ufficio in servizio da almeno sei mesi;

c)   per la richiesta di emissione del decreto penale di condanna ai sensi degli artt. 459 comma 1, e 565 c.p.p., da vice procuratori onorari addetti all'ufficio;

d)   nei procedimenti in camera di consiglio di cui all'art. 127 c.p.p., salvo quanto previsto dalla lettera b), nei procedimenti di esecuzione ai fini dell'intervento di cui all'art. 655, comma 2, del medesimo codice, e nei procedimenti di opposizione al decreto del Pubblico Ministero di liquidazione di compenso ai periti, consulenti tecnici e traduttori ai sensi dell'art. 11 della legge 8 luglio 1980, n. 319, da vice procuratori onorari addetti all'ufficio;

e)   nei procedimenti civili, da uditori giudiziari, da vice procuratori onorari addetti all'ufficio o dai laureati in giurisprudenza di cui alla lettera a).

Come può notarsi agevolmente, sotto la lett. a) la disposizione di legge attribuisce al Procuratore della Repubblica il potere di delegare le funzioni di Pubblico Ministero all'udienza dibattimentale ai soggetti ivi indicati senza alcuna limitazione, che non  sia quella della composizione monocratica  del Giudice di riferimento. .Al contrario, nelle successive ipotesi, che riguardano altre fasi del procedimento penale (a parte la materia civile che qui non interessa), il legislatore si è premurato di indicare limiti e condizioni specifiche sia in relazione ai soggetti che all'atto procedimentale che il giudice deve compiere in relazione al quale le funzioni di Pubblico Ministero vengono delegate.

Appare, pertanto, condivisibile l'opinione espressa dall'ufficio ricorrente secondo il quale in forza della disposizione del comma 1 dell'art. 72 ordinamento giudiziario, quale oggi vigente, la delegabilità delle funzioni di Pubblico Ministero nella fase dibattimentale del procedimento di competenza del Giudice in composizione monocratica non ,è assoggettata a limitazioni specifiche che assumano il carattere della inderogabilità, vale a dire del comando di legge.

8. Invero, il Giudice censurato non poggia la sua disposizione sulla lettura della disposizione del comma 1 del ridetto art. 72, ma piuttosto sull'interpretazione dell'ultimo comma del detto articolo, il quale, a seguito dell'ultima modifica (art. 58 l. 479/1999), stabilisce che :"Nella materia penale, è seguito altresì il criterio di non delegare le funzioni del Pubblico Ministero in relazione a procedimenti relativi a reati diversi da quelli per cui si procede con citazione diretta a giudizio secondo quanto previsto dall'art. 550 c.p.p."; disposizione che rettifica quella, strutturalmente e finalisticamente analoga, dettata dall'art. 23 ultimo comma d. lgv. N. 51 del 1998, che faceva riferimento ai ![…] reati per i quali la legge stabilisce una pena superiore a quattro anni".

Sostanzialmente, pertanto, le due disposizioni si equivalgono, la differenza riguardando esclusivamente il parametro per la individuazione dei reati per i quali si procede con citazione diretta, ex art. 550 c.p.p.

9. E' evidente, dunque, che occorre affrontare il problema della portata precettiva da assegnare all'espressione, per il vero non proprio lineare, "[…] è seguito altresì il criterio di…", che figura nel comma in esame.

Secondo il Giudice del tribunale di Roma, l'espressione è da ritenersi norma perfetta, e quindi cogente, la sanzione dell'inosservanza essendo rinvenibile nel sistema codicistico delle nullità, specificamente, nell'art. 178 lett. B) c.p.p., che concerne, appunto, tra l'altro, la costituzione e rappresentanza dell'ufficio d'accusa.

Di diverso  parere è invece il Procuratore della Repubblica ricorrente secondo il quale si tratta di norma minus quam perfecta e, più esattamente, di disposizione che esprime una direttiva cui l'ufficio di Procura  della Repubblica deve attenersi in linea di massima onde secondare l'intento del legislatore di contenere l'utilizzo della magistratura onoraria in limiti il più possibile ristretti.

Ritiene il Collegio che quest'ultima opinione appare più consona al dettato della norma sia sotto il profilo strettamente letterale che logico sistematico.

Invero, l'espressione "è seguito il criterio" piuttosto che un comando, come tale inderogabile, sembra adombrare la sollecitazione a conformare la condotta di delega di funzioni a criteri di contenimento nell'indispensabile. Se il legislatore avesse voluto comandare una certa condotta non solo avrebbe modificato il primo comma dell'art. 72 ordinamento giudiziario, quanto meno la lett. a) che, invece, pone una regola secca :""a) nell'udienza dibattimentale…", senza alcuna limitazione, ma avrebbe, quanto meno, esplicitato nella parte introduttiva dell'articolo in esame quella limitazione che, invece, si è indotto a formulare nell'ultimo comma.

Sotto il profilo logico sistematico al Collegio appare plausibile che il legislatore, pur intenzionato, come è stato da più parti rilevato in dottrina, a dare attuazione a un indirizzo di limitazione nell'utilizzo della magistratura onoraria, quanto  meno di quella proveniente dalle fila dei professionisti legali, anche in adesione a ripetute prese di posizioni da parte dell'Avvocatura, tuttavia, ben conscio delle attuali difficoltà operative della magistratura ordinaria e segnatamente di quella che svolge funzioni d'accusa, ha preferito, da un canto, dare prova di non avere dimenticato le esigenze di graduale svincolo dalla magistratura onoraria, dall'altro, lasciare "aperta la porta" a ogni possibile soluzione affidandosi al senso di responsabilità e lealtà istituzionale dell'organo della delega al quale chiede di attenersi a un criterio di contenimento delle deleghe entro l'ambito di reati ritenuti di minore gravità, quali quelli per giudicare sui quali è prevista la citazione diretta (sostanzialmente quelli già contemplati dall'ultimo comma dell'art. 23 d. lgv. N. 51/1998).

Né decisivo contrario argomento può trarsi dal rilievo che nella disposizione in disamina non appare l'inciso "di regola", che invece, si legge nel comma 2 dell'art. 6 d.P.R. 22 settembre 1988, n. 444, modificativo dell'art. 34 ordinamento giudiziario, poiché a tale inciso non pare possa essere attribuito un valore letterale e logico diverso da quello assegnabile all'espressione adottata nell'ultimo comma dell'art. 72 ordinamento giudiziario. Al riguardo, giova ricordare che questa Corte ha evidenziato come :"La norma dell'art. 34 ultimo comma del regio decreto 30 gennaio 1941, n. 12 (ordinamento giudiziario), secondo la quale il vice pretore onorario non può "di regola" tenere udienza se non nei casi di mancanza od impedimento del titolare della pretura o dei magistrati in sottordine non è da intendere nel senso che se il vice pretore onorario tiene udienza anche nel caso che il titolare della pretura o i magistrati in sottordine non siano impediti o assenti ne derivi difetto di costituzione del Giudice, e l'inosservanza delle disposizioni interne concernenti l'esercizio delle sue funzioni può condurre soltanto a conseguenze sul piano disciplinare o amministrativo" (Sez. II Civ., 19 giugno 1962, n. 1546, CED n. 252467).

10. Questa interpretazione del dato legislativo sembra al Collegio, tra le possibili, la più corretta, idonea a dare ragionevole significato operativo alla inusuale formula adottata nella disposizione in esame, adeguata a salvaguardare le esigenze degli uffici di accusa che, comunque, debbono pur funzionare, vale a dire debbono essere messi in grado  di assicurare la necessaria partecipazione del Pubblico Ministero nei dibattimenti penali (e negli altri momenti procedimentali previsti dalla legge di rito) e, nel contempo, a responsabilizzare i capi degli uffici di Procura della Repubblica, dai quali è da attendersi che la delega delle funzioni di Pubblico Ministero nei dibattimenti per reati diversi da quelli per i quali è prevista la citazione diretta (art. 550 c.p.p.), sarà conferita solo quando le esigenze di servizio lo rendano indispensabile.

Fermo ogni altro parametro, spetta al Procuratore della repubblica delegante l'obbligo di esplicitare, con l'atto di delega, l'estensione della stessa a reati diversi da quelli contemplati dall'art. 550 c.p.p., ed altresì la ragione di tale estensione, senza che, però, su tale valutazione sia attribuibile al giudice, o alle altre parti del processo, un potere di valutazione meritale ovvero di censura. Invero, le ragioni del conferimento della delega oltre il limite ordinario riguardano l'organizzazione interna del pubblico ufficio di accusa penale, di rilievo costituzionale, come si è detto, sicchè è da escludere che l'eventuale, e pur deprecabile, abuso del potere, ovvero la, del pari deprecabile, obliterazione del criterio indicato dal legislatore possa influire sulla capacità processuale del Pubblico Ministero e risolversi in una situazione di carenza dei requisiti di cui all'art. 178 lett. b) c.p.p., come adombra il Giudice del provvedimento oggetto di impugnazione.

Siffatta interpretazione della disposizione ordinamentale appare in linea con precedenti giudicati della Corte su tematiche omologhe: così, Sez. I, 10 gennaio 1992, Manco, CED n. 189266, per la quale la violazione del criterio di cui all'ultimo comma dell'art. 72 ord. giud. Non comporta alcuna nullità processuale ma potrà rilevare, eventualmente, sul piano amministrativo o disciplinare; Sez. VI, 3 luglio 1996, Bartolomei, CED n. 205909, in tema di delega ad esercitare le funzioni di Pubblico Ministero a ufficiale di polizia giudiziaria la mancanza di requisiti nel quale non si risolve in carenza di capacità; Sez. V, 28 ottobre 1996, Paddeu, CED n. 208181, per la quale non si verifica una ipotesi di incapacità del giudice quando un vice pretore onorario esplichi attività giurisdizionale al di fuori dei casi di mancanza o impedimento del titolare dell'ufficio, secondo quanto dispone[va] l'art. 34 ordinamento giudiziario.

12. Conclusivamente: deve affermarsi il principio secondo il quale, in tema di delega delle funzioni del Pubblico Ministero presso il Tribunale ordinario in composizione monocratica a magistrati onorari, la disposizione di cui all'ultimo comma del vigente art. 72 ordinamento giudiziario, come novellato prima dall'art. 23 d. lgv. N. 51/1998 e, poi, dall'art. 58 della l. 16 dicembre 1999, n. 479. Deve essere intesa nel senso che essa detta un criterio di massima cui il Procuratore della Repubblica delegante deve attenersi nel conferire la delega a rappresentare in dibattimento l'accusa a vice procuratori onorari di cui al comma 1 lett. a) del predetto articolo; regola alla quale l'organo delegante si atterrà sin quando contrarie esigenze di servizio non ne impongano il superamento, senza che l'esistenza e l'apprezzamento di tali esigenze possano assumere rilievo esterno all'ufficio e, perciò, comportare implicazioni sulla capacità della parte pubblica nel processo.

L'ordinanza impugnata deve, pertanto, essere annullata senza rinvio e deve disporsi la trasmissione degli atti al Tribunale di Roma in composizione monocratica per il prosieguo del giudizio.

P.T.M.

La Corte, visti gli artt. 615, 620 c.p.p.

Annulla

Senza rinvio il provvedimento impugnato e

Dispone

Trasmettersi gli atti al Tribunale di Roma in composizione monocratica per l'ulteriore corso del giudizio.

Deciso in Roma, 11 aprile 2000

Il Presidente estensore
(Losapio)

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