Francesco Parenti, Gli atti utilizzabili nel giudizio abbreviato
L’intenzione del legislatore, come emerge dai lavori preparatori della legge 16 dicembre 1999, n. 479, con la quale si è rivoluzionato l’intero assetto del rito abbreviato, era quella di rendere utilizzabili ai fini della decisione finale, oltre alle prove ammesse ed acquisite ai sensi degli artt. 438 comma 5 e 441 comma 5 c.p.p., quelle precedenti alla conversione dell’udienza preliminare in giudizio abbreviato [1] . La giurisprudenza ha più volte affermato che con la richiesta di giudizio abbreviato l’imputato accetta che rientrino nel novero delle risultanze probatorie utilizzabili per la decisione di merito, tutti gli atti di indagine acquisiti prima della proposizione della richiesta [2] .
Il codice consente, poi, l’esercizio da parte dell’indagato della facoltà di chiedere alla pubblica accusa il compimento di specifici atti di indagine e di depositare la documentazione relativa alle indagini difensive (art. 415 bis comma 3 c.p.p.). La ratio sottesa alla norma è quella di consentire alla difesa di indurre il pubblico ministero a rivedere la propria intenzione di richiedere il rinvio a giudizio. Tuttavia, qualora gli elementi probatori addotti dalla difesa non siano tali da mutare gli esiti delle indagini svolte, questi contribuiranno comunque a completare la piattaforma probatoria sulla quale potrà innestarsi la richiesta di giudizio abbreviato.
Inoltre, nel caso del giudizio abbreviato richiesto nel corso dell’udienza preliminare, prima che siano state formulate le conclusioni ai sensi degli artt. 421 e 422 c.p.p., il materiale di cognizione del giudice potrà arricchirsi anche grazie ai risultati delle indagini suppletive della pubblica accusa, ai documenti prodotti ex art. 419 comma 2 c.p.p., all’interrogatorio e alle dichiarazioni spontanee dell’imputato, alle prove raccolte a seguito delle indagini disposte dal giudice ex art. 421 bis c.p.p., ed a quelle assunte ai sensi dell’art. 422 c.p.p.
Simili conclusioni sembrano disattese dall’art. 442 comma 1 bis c.p.p., il quale dispone che il giudice utilizza per la decisione “gli atti contenuti nel fascicolo di cui all’art. 416, comma 2, la documentazione di cui all’art. 419, comma 3, e le prove assunte nell’udienza”. Laddove, infatti, indica le “prove assunte nell’udienza”, l’art. 442 comma 1 bis c.p.p. sembra fare riferimento solo alle prove ammesse ed acquisite ai sensi degli artt. 438 comma 5 e 441 comma 5 c.p.p. nell’udienza di trattazione del rito abbreviato. Poiché la disposizione riguarda gli atti utilizzabili per la decisione nel giudizio abbreviato, non vi è dubbio che tra questi rientrino le prove assunte nel corso del rito alternativo in parola. Appare tuttavia evidente che il legislatore ha omesso di indicare tra gli atti utilizzabili ai fini della decisione quelli assunti nel corso dell’udienza preliminare, nell’ipotesi in cui la richiesta di definire anticipatamente il processo sia stata proposta nel corso dell’udienza, dopo (oppure a seguito) lo svolgimento dell’attività istruttoria.
Inoltre, nel caso in cui l’elencazione contenuta nella norma in questione dovesse ritenersi tassativa, e non meramente esemplificativa, ne deriverebbe l’esistenza di un divieto d’uso rilevante ex art. 191 c.p.p. [3] .
Il problema riguarda soprattutto le indagini difensive, poiché la relativa documentazione -eventualmente inserita nel fascicolo del difensore per poi confluire, dopo la chiusura delle indagini, nel fascicolo del pubblico ministero (art. 391 octies comma 3 c.p.p.)- non compare nell’elencazione dell’art. 416 comma 2 c.p.p., che concerne il contenuto del fascicolo che il pubblico ministero deve presentare al giudice dell’udienza preliminare dopo la richiesta di rinvio a giudizio. E’ ovvio che il problema non sussiste se si ritiene che nell’ambito della “documentazione relativa alle indagini espletate”, di cui non si specifica la provenienza, debba farsi rientrare anche l’attività del difensore.
A favore della lettura restrittiva dell’art. 442 comma 1 bis c.p.p. si potrebbe sostenere che, mentre nel sistema anteriore alla legge Carotti vi era una stretta correlazione tra la disciplina dell’udienza preliminare e quella del rito abbreviato e pertanto in tale giudizio erano utilizzabili tutti gli elementi acquisiti nel corso delle indagini preliminari, nella nuova disciplina il giudizio abbreviato ha assunto una più accentuata autonomia normativa.
Si è osservato, inoltre, come il comma 2 dell’art. 431 c.p.p. tenga ben distinta la documentazione delle indagini compiute dal pubblico ministero da quella relativa alle indagini svolte dalla difesa, sebbene quest’ultima sia comunque destinata a confluire nel fascicolo dell’accusa. Ne segue che, se il legislatore avesse voluto includere la documentazione relativa alle investigazioni del difensore nell’ambito del materiale utilizzabile per la decisione del giudizio abbreviato, avrebbe dovuto espressamente stabilirlo.
Va, infine, sottolineato che l’art. 442 comma 1 bis c.p.p. parla di “atti”: pertanto, coloro che ritengono che le indagini del difensore non rientrino in tale genus ma che appartengano a quello dei documenti, escludono la possibilità di utilizzare simili conoscenze per la pronuncia di merito.
In tal caso la difesa avrebbe l’onere di produrre nuovamente gli elementi raccolti durante le proprie indagini e nel corso dell’udienza preliminare, sempre che si ritenga applicabile in via analogica la disposizione dell’art. 391 octies comma 1 c.p.p., oppure potrebbe subordinare la richiesta di giudizio abbreviato all’acquisizione di questi elementi ex art. 438 comma 5 c.p.p.
Una simile lettura dell’art. 442 comma 1 bis c.p.p. ci pare eccessivamente restrittiva. Si consideri che un’analoga questione era già stata affrontata rispetto ai risultati delle indagini difensive inseriti nel “fascicolo relativo agli atti di indagine” ex art. 38 comma 2 ter disp. att. c.p.p. Si affermò allora che tale disposizione autorizzava il difensore forse al di là delle intenzioni del legislatore, a produrre i suoi elementi di prova anche in vista di una pronuncia tendenzialmente definitiva sulla res iudicanda e che dall’inclusione delle indagini del difensore nel fascicolo delle indagini preliminari discendeva la possibilità di un loro uso a fini probatori per la formazione del convincimento del giudice nell’ambito dei procedimenti speciali a definizione anticipata [4] .
Un altro argomento si aggiunge ora a favore dell’inclusione della documentazione relativa alle investigazioni del difensore tra gli atti utilizzabili per la decisione nel giudizio abbreviato, rinvenibile nell’art. 419 comma 3 c.p.p. come modificato dalla legge n. 397 del 2000. Ai sensi di tale norma anche l’imputato può trasmettere al giudice dell’udienza preliminare “la documentazione relativa alle indagini eventualmente espletate dopo la richiesta di rinvio a giudizio”. Pertanto, essendo tale norma espressamente richiamata dall’art. 442 comma 1 bis c.p.p., il giudice dell’abbreviato può utilizzare per la decisione conclusiva l’attività di indagine del difensore eventualmente espletata dopo la richiesta di rinvio a giudizio e, a maggior ragione, anche l’attività di indagine precedente.
La mancata inclusione delle indagini del difensore nell’art. 442 comma 1 bis c.p.p. è probabilmente dovuta ad un difetto di coordinamento, rimediabile tramite un’interpretazione conforme alla ratio ispiratrice della legge n. 397 del 2000.
Anche i lavori preparatori alla legge Carotti depongono in tal senso: in quella sede si affermò come il meccanismo dell’art. 415 bis comma 3 c.p.p. tendesse a rafforzare l’istituto del giudizio abbreviato, consentendo che gli elementi addotti dal difensore confluissero nel fascicolo del rappresentante della pubblica accusa e rendessero all’imputato più appetibile il rito abbreviato [5] .
Inoltre, nonostante il tenore letterale dell’art. 442 comma 1 bis c.p.p., non vi è alcun dubbio che tutta l’attività probatoria svolta nel corso dell’udienza preliminare possa essere utilizzata per la decisione conclusiva del giudizio abbreviato. Un’interpretazione formalistica renderebbe priva di senso la disposizione dell’art. 438 c.p.p., secondo la quale la richiesta di giudizio abbreviato può essere proposta “fino a che non siano formulate le conclusioni a norma degli articoli 421 e 422”. L’indicazione di questi termini ha senso soltanto se la loro previsione è ricollegata alla possibilità di utilizzare le acquisizioni probatorie dell’udienza preliminare. Si deve, quindi, ritenere che tutto il materiale probatorio acquisito nel corso dell’udienza preliminare è utilizzabile sia per le decisioni che il giudice assume in ordine alla richiesta di rinvio a giudizio, sia per ogni altro profilo relativo alla decidibilità allo stato degli atti del giudizio abbreviato.
Una diversa soluzione porterebbe a conseguenze paradossali. Per la decisione di merito sarebbe, ad esempio, utilizzabile una testimonianza raccolta dalla polizia giudiziaria mentre non lo sarebbe la stessa dichiarazione assunta in udienza direttamente dal giudice ex art. 422 c.p.p.
Più in generale, qualora si sposasse l’interpretazione ancorata al dato testuale, si potrebbe verificare che gli atti assunti in segreto dalla polizia giudiziaria o dal pubblico ministero siano utilizzabili ai fini della decisione conclusiva del rito abbreviato, mentre, invece, gli elementi probatori acquisiti in udienza preliminare nel contraddittorio delle parti (pertanto, più garantiti) siano utilizzati solo per la decisione in ordine al rinvio a giudizio.
Si osservi, infine, come la comune interpretazione dell’art. 442 coma 1 bis c.p.p. consenta la piena utilizzabilità di tutti gli atti contenuti nel fascicolo delle indagini, depositato con la richiesta di rinvio a giudizio ex art. 416 comma 2 c.p.p. La disciplina non si pone in contrasto con l’art. 111 comma 5 Cost., dove si consente alla formazione della prova in assenza di contraddittorio, purché l’imputato presti il suo consenso. Il rito abbreviato, in effetti, viene instaurato proprio su richiesta dell’imputato, il quale accetta che il giudice possa utilizzare, per la decisione finale, anche atti assunti dal pubblico ministero in sua assenza o in assenza del difensore.
Ponendosi su un piano più generale, tuttavia, alcuni sostengono l’incompatibilità tra la nuova disciplina del giudizio abbreviato ed i principi del “giusto processo”. Il legislatore avrebbe tenuto un atteggiamento poco intellegibile: da una parte, infatti, ha inteso consacrare al livello più alto nella gerarchia delle fonti il principio del contraddittorio nella formazione della prova, mentre, dall’altra, ha licenziato un testo di legge che privilegia in modo palese il rito abbreviato, basato prevalentemente sulle acquisizioni unilaterali degli organi investigativi. In effetti, è lo stesso art. 111 Cost. ad attribuire alla legge il compito di regolare i casi in cui il consenso dell’imputato può autorizzare la formazione della prova al di fuori della contrapposta dialettica tra le parti; ciononostante, non sembra lecito ridimensionare la solenne adesione al principio del contraddittorio al punto tale da degradare al rango di eccezione lo svolgersi del dibattimento.
Insomma, tutti gli atti di indagine compiuti dalla polizia giudiziaria e dalla pubblica accusa nel corso delle indagini preliminari e l’attività integrativa di indagine ex art. 421 bis c.p.p., legittimamente acquisiti al fascicolo del pubblico ministero, possono essere utilizzati ai fini della decisione di merito conclusiva del rito abbreviato. La scelta del rito speciale eleva al rango di prova gli atti delle indagini preliminari che non avrebbero tale valore e non potrebbero essere impiegati al dibattimento. Ci si chiede, ora, se ciò valga anche riguardo ad atti inficiati da qualche forma di invalidità.
Il codice di rito ammette che una prova, pur in sé non viziata, venga qualificata come efficace per taluni provvedimenti (ad esempio, un’ordinanza che dispone una misura cautelare ex art. 292 lett. c c.p.p.) ma non per altri (ad esempio, la sentenza dibattimentale).
All’origine di questa concezione della prova sta la contrapposizione tra la teoria positivistica, secondo la quale si considera la conoscenza come valida e, pertanto, utilizzabile in ogni contesto e la teoria argomentativa, in base alla quale una conoscenza giudiziale è valida solo in un determinato ambito e, perciò, solo in certe fasi ed in certi processi. In quest’ultima ipotesi l’idea stessa di prova è strettamente legata a particolari contesti di acquisizione e di uso. Il codice si muove nella seconda direzione: una conoscenza giudiziale, pur formata secundum legem, è tuttavia utilizzabile limitatamente.
Conforme ad una simile concezione della prova è l’istituto dell’inutilizzabilità, la cui disciplina trova il suo referente normativo nell’art. 191 comma 1 c.p.p., secondo cui “le prove acquisite in violazione dei divieti stabiliti dalla legge non possono essere utilizzate”. La norma si occupa, però, del solo profilo sanzionatorio del fenomeno, ricollegabile ad un vizio dell’iter probatorio, mentre l’inutilizzabilità può afferire anche al profilo fisiologico della prova. Si distingue, al riguardo, un’inutilizzabilità di tipo patologico, destinata a colpire la prova acquisita in violazione di un divieto probatorio posto a garanzia di un interesse processuale (ad esempio, l’attendibilità dell’accertamento) o extraprocessuale (ad esempio, la tutela della riservatezza), da un’inutilizzabilità fisiologica, posta a salvaguardia del principio di separatezza tra fase preliminare e fase dibattimentale. La prima attiene ad un vizio intrinseco dell’atto, la seconda va intesa come inidoneità a formare la prova dibattimentale [6] .
Benché accomunate dallo stesso regime di rilevabilità ex art. 191 comma 2 c.p.p., le due fattispecie sono distinte: il vizio che sta alla base dell’inutilizzabilità patologica è fonte diretta dell’effetto previsto dall’art. 191 comma 2 c.p.p., mentre l’inutilizzabilità fisiologica discende non dalla constatazione di un vizio dell’atto probatorio, ma dall’esistenza di un limite all’uso delle prove conformi alla legge: in quest’ultima ipotesi la sanzione dell’inutilizzabilità determina l’inidoneità dell’elemento di conoscenza formato nel corso delle indagini preliminari, e cioè in sede diversa da quella naturale (il dibattimento), a trasformarsi in prova. Non sempre, quindi, l’inutilizzabilità si attaglia a manifestazioni di difformità dell’atto rispetto al modello legale (inutilizzabilità patologica), potendo invece rapportarsi a fattispecie correttamente rispettose del dato normativo ma inidonee a superare lo sbarramento tra fase investigativa e dibattimentale (inutilizzabilità fisiologica).
Recentemente la dottrina ha ritenuto opportuno fornire un diverso inquadramento della categoria dell’inutilizzabilità fisiologica [7] . Affermando che tale invalidità deriverebbe non da un vizio intrinseco dell’atto ma da un limite di utilizzabilità stabilito dalla legge, si rischia di dar credito all’idea secondo la quale la tendenziale irrilevanza probatoria degli elementi raccolti nel corso delle indagini discenderebbe da una qualche limitazione apposta all’efficacia di un’attività di per sé legittima. In altre parole, si arriverebbe a ritenere che solo nelle ipotesi di inutilizzabilità patologica l’incapacità di produrre stabilmente gli effetti tipici dell’atto derivi dall’incompleta realizzazione della fattispecie tipica, mentre l’inefficacia della conoscenza raccolta al di fuori del contraddittorio sarebbe dovuta alla presenza di un limite apposto esternamente dal legislatore. Questa conclusione appare a tale dottrina fuorviante ed inaccettabile, perché sconvolgerebbe la stessa nozione di “fattispecie dell’atto”, che sola consente di stabilire se un determinato atto sia in grado o meno di produrre i propri effetti tipici. Da qui la critica all’indirizzo che inquadra la categoria dell’inutilizzabilità fisiologica dissociando perfezione ed efficacia dell’atto.
Occorre, invece, raffrontare lo schema normativo dell’atto di indagine con la corrispondente fattispecie a cui la legge ricollega pieno valore probatorio. Nonostante gli atti di indagine abbiano spesso alla base i medesimi presupposti fattuali dei corrispondenti mezzi di prova, è fuori dubbio l’esistenza di una pluralità di fattispecie a cui la legge ricollega peculiari effetti: si pensi, ad esempio, all’assunzione di informazioni ex artt. 351 e 362 c.p.p., all’assunzione della testimonianza mediante incidente probatorio (artt. 392 ss. c.p.p.) e all’escussione del medesimo soggetto durante la fase dibattimentale (artt. 498 ss. c.p.p.). Come sono diverse le figure legali dei singoli atti, così risultano diversi gli effetti collegati a ciascuna fattispecie: in tali ipotesi manca lo spazio per ravvisare una qualche difformità dell’atto dal proprio paradigma. L’inutilizzabilità fisiologica deriverebbe, quindi, da una situazione di originaria inidoneità del dato conoscitivo a fondare l’affermazione della colpevolezza dell’imputato e non da un limite apposto ab esterno dal legislatore all’efficacia di un’attività in sé perfettamente legittima. In altri termini, la tendenziale inutilizzabilità degli atti di indagine ai fini probatori non implica alcuna deroga al fondamentale principio per cui l’atto divergente da quello legale e quello perfetto non possono mai essere considerati equivalenti sul piano degli effetti: la parziale inutilizzabilità di tali atti si spiega alla luce del principio secondo il quale un medesimo atto, in tutto aderente al proprio schema legale, può ben apparire imperfetto se viene rapportato ad un diverso paradigma normativo.
Chiarito il concetto di inutilizzabilità fisiologica, va rilevato che tale forma di invalidità può essere superata in virtù di espresse eccezioni al principio di separazione funzionale tra le fasi. L’inidoneità probatoria degli atti delle indagini preliminari viene sancita da molteplici disposizioni dalle quali si può ricavare come lo sbarramento posto tra la fase investigativa e quella dibattimentale sia equiparato ad un vero e proprio divieto. Si pensi all’art. 526 c.p.p., laddove vieta l’utilizzabilità a fini decisori delle prove diverse da quelle legittimamente acquisite al dibattimento [8] . La norma in parola accoglie i due profili di inutilizzabilità sopra evidenziati e sanziona il ricorso sia all’elemento viziato in quanto illegittimo, sia a quello viziato in quanto raccolto al di fuori del contraddittorio. In quest’ultimo caso l’inefficacia probatoria si giustifica sulla base della ritenuta inidoneità della conoscenza a fornire supporti attendibili per la ricostruzione del fatto.
L’assenza delle garanzie proprie del dibattimento attribuisce all’atto una sorta di valenza negativa che il legislatore sanziona con le medesime forme con cui sanziona la prova acquisita in violazione dei divieti probatori. In entrambe le ipotesi di inutilizzabilità l’estromissione della prova consegue ad un vizio incidente sulle fasi del procedimento probatorio.
Ma quando un simile vizio si traduce in un divieto rilevante ai fini dell’art. 191 comma 2 c.p.p.? Per rispondere al quesito parte della dottrina ha elaborato un criterio teleologico o sostanzialistico, fondato sulla ricerca dell’interesse tutelato rispetto al quale è possibile distinguere tra divieti derogabili ed inderogabili, a seconda che rientrino o meno nella disponibilità delle parti [9] . In particolare, nelle ipotesi di inutilizzabilità patologica la possibilità di derogare ai divieti probatori è concepita in relazione alla disponibilità dell’interesse tutelato, e si rapporta, quindi, alle garanzie predisposte per determinate situazioni soggettive. Talvolta, invece, è costruita come temperamento alle previsioni normative di inammissibilità della prova (cfr. artt. 195 comma 3, 200 comma 2 e 201 comma 2 c.p.p.).
Nelle ipotesi di inutilizzabilità fisiologica, invece, la disponibilità del divieto in capo alle parti si manifesta nella richiesta di giudizi speciali nel cui ambito si perviene ad una pronuncia di merito sulla base degli atti formati nella fase preliminare. Qui si assiste ad un capovolgimento delle regole fondamentali del giudizio poiché le conoscenze raccolte dal pubblico ministero, ordinariamente utilizzabili ex art. 326 c.p.p. per “determinazioni inerenti all’esercizio dell’azione penale”, possono costituire valido fondamento per una condanna o per un’assoluzione.
La richiesta dell’imputato non vale, però, ad eludere ogni questione attinente alla validità di tali elementi conoscitivi. L’imputato che richiede il giudizio abbreviato, pur rinunciando alla garanzia del dibattimento, non rinuncia a vagliare l’effettiva consistenza delle risultanze probatorie acquisite, né ad integrare la piattaforma conoscitiva.
Ad ogni modo, l’adozione del giudizio abbreviato implica il superamento di determinate regole, dalle quali si desume il rapporto di funzionalità dell’atto di indagine rispetto alla fase di appartenenza. In particolare, l’art. 442 comma 1 c.p.p., rinviando per la decisione agli artt. 529 ss. c.p.p. in materia di pronuncia dibattimentale, non richiama il divieto generale previsto dall’art. 526 c.p.p. (che sancisce che l’inutilizzabilità ai fini della decisione di prove “diverse da quelle legittimamente acquisite nel dibattimento”). Né possono operare le prescrizioni più specifiche di cui agli artt. 514 comma 1 e 2, 350 comma 7, 360 comma 5, 403 e 238 comma 1 c.p.p.
La Cassazione, pronunciandosi in tal senso con particolare riguardo ai precetti ex art. 526, 514 comma 2 e 350 comma 7 c.p.p., ha ritenuto che l’imputato, “in cambio di un trattamento sanzionatorio più favorevole, accettando di esercitare il proprio diritto alla difesa nelle forme più limitate previste per l’udienza preliminare, conferisce al giudice il potere di definire il procedimento allo stato degli atti, senza, quindi, l’osservanza delle prescrizioni imposte per il dibattimento” [10] .
In un’altra sentenza la Suprema Corte motiva a contrario l’inoperatività nel giudizio abbreviato dei divieti di utilizzazione degli atti di indagine: se così non fosse, “sarebbe privo di significato il riferimento ‘allo stato degli atti’, in quanto esso ha per oggetto proprio i documenti relativi alle indagini condotte dalla polizia giudiziaria” [11] .
Con riferimento a specifici atti di indagine, la Corte ha ritenuto l’utilizzabilità delle sommarie annotazioni di intercettazioni compiute dalla polizia giudiziaria, anche se estranee a quelle indicate dal pubblico ministero ai fini della trascrizione prevista dall’art. 268 comma 7 c.p.p. [12] , degli accertamenti eseguiti su iniziativa della polizia giudiziaria [13] , dei risultati della consulenza tecnica compiuta nelle forme dell’art. 359 c.p.p. [14] , delle analisi ricognitive eseguite o fatte eseguire dalla polizia giudiziaria in materia di stupefacenti [15] e dell’identificazione delle cose sequestrate da parte della persona offesa, compiuta nell’ambito dell’attività di iniziativa della polizia giudiziaria [16] .
Per quanto concerne la disciplina delle letture dibattimentali, la Cassazione [17] ha finito per superare l’indirizzo che ravvisava nel divieto di lettura ex art. 514 c.p.p. una preclusione di carattere generale [18] la cui violazione avrebbe provocato un vizio rilevabile anche d’ufficio in ogni stato e grado del procedimento, sicché gli atti inutilizzabili al dibattimento non potevano avere legittimo accesso al rito abbreviato. Un simile orientamento non teneva conto dell’inconciliabilità dello strumento della lettura con il rito speciale, né, più in generale, dell’inoperatività dei divieti d’uso stabiliti per il dibattimento. Si deve, pertanto, ritenere che gli atti non leggibili nell’ambito del giudizio ordinario siano, viceversa, acquisibili nell’ambito del giudizio abbreviato.
L’unico limite all’utilizzabilità ai fini della decisione nel giudizio abbreviato degli atti di indagine preliminare confluiti nel fascicolo della pubblica accusa e degli atti dell’udienza preliminare è costituito dalle invalidità verificatesi nelle fasi pregresse. Rilevano, pertanto, le invalidità degli atti compiuti nel corso delle indagini preliminari conseguenti all’inosservanza delle disposizioni generali sulla prova di cui agli artt. 187-193 c.p.p., ovvero della normativa propria degli atti tipici delle indagini preliminari (ad esempio, la violazione delle disposizioni di cui agli artt. 356, 364, 365 e 366 c.p.p., in ordine alla partecipazione del difensore a determinati atti di indagine).
Di certo sono rilevabili all’udienza di trattazione del giudizio abbreviato le nullità di ordine generale di tipo assoluto ed i casi di inutilizzabilità patologica della prova.
Per quanto riguarda quest’ultima ipotesi, se è vero che con l’instaurazione del giudizio abbreviato l’imputato rinuncia solo alla formazione della prova secondo le modalità proprie del dibattimento eludendo così la disciplina sull’inutilizzabilità fisiologica, è altrettanto vero che la sua richiesta non è indirizzata al superamento dell’inutilizzabilità patologica. Il rito abbreviato consente di riconoscere valenza probatoria ad atti che altrimenti non potrebbero goderne in sede di giudizio ordinario, ma non può sancire l’introduzione di atti illegittimi.
Un primo quesito riguarda l’individuazione dei divieti probatori che stanno alla base dell’inutilizzabilità patologica. Non sussistendo, infatti, per questa forma di invalidità una previsione espressa del principio di tassatività, come accade, invece, per la nullità (art. 177 c.p.p.), ci si chiede se ed in quali termini tale principio possa comunque operare. Se ammettiamo che l’inutilizzabilità sia tassativa, occorre prendere atto del differente atteggiarsi del principio in parola rispetto alle ipotesi di nullità. Infatti, mentre le nullità formano un sistema chiuso, per quanto concerne l’inutilizzabilità manca un criterio di riconoscimento dei divieti probatori che ne costituiscono la causa.
Nel tentativo di offrire una sicura risposta al problema relativo ai criteri di individuazione dei divieti probatori, recentemente la dottrina ha affermato che il clou del problema sta nell’appurare se la disposizione trasgredita contenga un vero e proprio divieto all’ingresso della prova nel processo [19] . Abbandonata la pretesa di ravvisare un divieto probatorio tutte le volte che un atto sia consentito solo in presenza di determinate condizioni, bisogna individuare una norma capace di esprimere una valutazione d’inammissibilità. Si è detto che la formazione della prova presuppone un potere istruttorio e che dove il potere non c’è, perché la legge non lo accorda, l’atto non può non essere inefficace [20] . La sanzione dell’inutilizzabilità scatta, pertanto, solo qualora venga acquisita una prova inammissibile. L’inutilizzabilità della prova non deriva dalla violazione di una qualsiasi regola probatoria, ma dall’esercizio di un potere istruttorio non riconosciuto dalla legge.
Ci si chiede a tal punto se l’inutilizzabilità operi rispetto agli atti di indagine c.d. omologhi rispetto ai corrispondenti mezzi di prova. Si pensi, ad esempio, all’assunzione di informazioni da parte del pubblico ministero, che deve avvenire nel rispetto degli artt. 197, 198, 199, 201, 202 e 203 c.p.p. (cfr. art. 362 c.p.p.), ovvero all’interrogatorio condotto dal medesimo nei confronti di una persona imputata in un procedimento connesso, che deve essere improntato alle regole fissate dall’art. 210 commi 2, 3 e 4 c.p.p. (cfr. art. 363 comma 1 c.p.p.).
Stando all’orientamento più diffuso, con la richiesta di giudizio abbreviato non soltanto si accetta che la regiudicanda sia definita sulla base del materiale di indagine, ma si acconsente pure all’utilizzabilità di ogni atto racchiuso nel fascicolo del rappresentante della pubblica accusa, sempre che l’imputato non abbia preliminarmente contestato l’illegittima acquisizione di un qualche dato probatorio. Nell’esempio che abbiamo esposto potrebbe, pertanto, delinearsi la seguente situazione: affermare che l’art. 197 c.p.p., concernente l’incompatibilità con l’ufficio di testimone, non trovi spazio nell’ambito del giudizio abbreviato, significa sostenere che un atto inammissibile e, quindi, inutilizzabile in dibattimento, potrebbe essere utilizzato al contrario nel giudizio speciale agli stessi fini di valutazione nel merito.
Si deve, invece, sostenere che nel giudizio abbreviato si deroga ai divieti correlati all’inutilizzabilità fisiologica ma non ai limiti di utilizzabilità derivanti da divieti posti a tutela della corretta formazione dell’atto. Con la richiesta del rito de quo l’imputato rinuncia solo alla costruzione della prova secondo certi canoni garantisti ed all’adozione del contraddittorio; egli consente, così, l’utilizzabilità delle risultanze investigative, ma non elimina certamente le patologie degli atti compiuti durante le indagini preliminari. L’uso probatorio degli elementi raccolti al di fuori del contraddittorio è pur sempre subordinato alla circostanza che si tratti di risultanze di attività legittimamente esperite.
In caso contrario, si verificherebbe la situazione paradossale per cui gli atti di indagine omologhi ai mezzi di prova della fase processuale, qualora siano utilizzati per soddisfare le esigenze investigative, sarebbero sottoposti ad un regime più rigoroso rispetto a quello di quando vengono utilizzati per la decisione di merito.
Resta da esaminare l’ipotesi in cui l’invalidità degli atti di indagine pregiudichi la definibilità del processo. Il giudice, qualora rilevi che un atto del fascicolo della pubblica accusa è affetto da invalidità, deve dichiarare il vizio e verificare se il processo possa essere definito espungendo quell’atto dal quadro probatorio. Se, invece, il giudice omette tale verifica preliminare, rilevando il vizio solo dopo aver disposto il giudizio abbreviato, imputet sibi: non resterà che decidere nel merito prescindendo da quelle prove inutilizzabili sulla cui base si era disposto il procedimento speciale, eventualmente ricorrendo ai poteri di integrazione probatoria d’ufficio ex art. 441 comma 5 c.p.p. Si pensi all’ipotesi di inutilizzabilità degli atti di indagine confluiti nel fascicolo del pubblico ministero ed a quella, più improbabile, dell’inutilizzabilità di quelle prove alla cui acquisizione l’imputato aveva subordinato la richiesta del rito speciale ex art. 438 comma 5 c.p.p.
Al riguardo si registrano in giurisprudenza affermazioni non sempre condivisibili. Nel vigore della precedente normativa, era prevalente l’indirizzo per cui nel giudizio abbreviato la parte interessata aveva l’onere di eccepire preliminarmente l’invalidità dell’atto, con il rischio che il giudice non ritenesse più il procedimento definibile allo stato degli atti e rigettasse, pertanto, la richiesta di rito abbreviato. Viceversa, una volta ammesso il rito speciale, l’imputato non poteva dolersi dell’utilizzazione di atti invalidi, valutati dal giudice di merito per stabilire la definibilità del procedimento allo stato degli atti e l’ammissione del giudizio abbreviato. Tale giurisprudenza, insomma, gravava l’imputato dell’onere di eccepire l’inutilizzabilità prima dell’ordinanza di ammissione del rito, con il rischio che, ove l’eccezione venisse accolta, la richiesta di giudizio abbreviato poteva essere rigettata per non essere il processo definibile allo stato degli atti [21] .
L’orientamento in parola ci lascia perplessi: nel giudizio abbreviato sarebbero in tal modo utilizzabili non solo gli atti legittimamente acquisiti al fascicolo del pubblico ministero, ma anche quelli acquisiti illegittimamente. All’imputato che non abbia eccepito preliminarmente il vizio dell’atto sarebbe infatti preclusa ogni successiva questione. Alla base di un simile indirizzo vi erano ragioni di mera opportunità: si doveva assicurare al giudice un quadro probatorio certo ai fini della decisione di ammissibilità, sicché ogni successiva questione sul punto, doveva ritenersi preclusa. Ci si poneva così nell’alveo di quell’orientamento giurisprudenziale secondo cui la richiesta di rito abbreviato, implicando l’accettazione da parte dell’imputato di un giudizio allo stato degli atti, si configurava come una sanatoria, simile a quella di cui all’art. 183 lett. a c.p.p., di tutte le invalidità inficianti gli atti compiuti prima della richiesta stessa [22] .
Così facendo si finisce per attribuire alla volontà dell’imputato un rilievo eccessivo che inciderebbe su beni costituzionalmente tutelati.
Inoltre, sul piano della disciplina positiva, si mostra di ignorare la necessità ermeneutica di conciliare la sanatoria per violazione di un termine stabilito a pena di decadenza -creato dalla Suprema Corte, in deroga all’art. 173 comma 1 c.p.p.- con l’inequivoco dettato dell’art. 191 comma 2 c.p.p., che prevede la rilevabilità del vizio dell’inutilizzabilità in ogni stato e grado del procedimento. Se così fosse, sarebbe consentito al giudice decidere sulla scorta di dichiarazioni estorte con la tortura (artt. 188 e 191 c.p.p.), solo perché l’imputato, in ipotesi non convenientemente assistito, o per qualsiasi altra ragione, sia incorso nella decadenza da un fantomatico onere di eccezione [23] .
In senso contrario si era espressa la Cassazione, limitando la possibilità di utilizzare gli atti delle indagini ai fini della decisione del giudizio abbreviato. Con riferimento a specifiche situazioni [24] , si evidenziava come tra i casi di inutilizzabilità patologica rientrassero, tanto le prove oggettivamente vietate, quanto quelle comunque formate o acquisite in violazione, o con modalità lesive, dei diritti fondamentali della persona tutelati dalla Costituzione e, perciò, assoluti e irrinunciabili “a prescindere dall’esistenza di un espresso o tacito divieto al loro impiego nel procedimento contenuto nella legge processuale” [25] . Si affermava, inoltre, che nell’ambito del giudizio abbreviato il giudice può valutare tutti gli atti legittimamente acquisiti durante le indagini preliminari “a eccezione di quelli colpiti da nullità e inutilizzabilità assolute, non risultando il principio della rilevabilità d’ufficio nonché dell’insanabilità di queste situazioni derogato, espressamente né implicitamente, da norma alcuna e dovendosi escludere l’incompatibilità del rito con il precetto che le concerne” [26] . Non erano, quindi, utilizzabili elementi processuali “acquisiti in violazione di quei principi per i quali il legislatore ha ritenuto di specificare espressamente determinati divieti”, tenuto conto, tra l’altro, che il codice “quando ha voluto limitare l’ambito dell’inutilizzabilità lo ha detto espressamente” [27] .
Le Sezioni Unite sono infine intervenute schierandosi a favore di quest’ultimo orientamento. Le inutilizzabilità delle prove illegittimamente acquisite non sono sanate dalla richiesta di giudizio abbreviato ma sono rilevabili d’ufficio in ogni stato e grado del procedimento, anche se non eccepite dalla parte interessata prima della richiesta di accesso al rito speciale. Pertanto, in accordo con la dottrina, la Corte afferma che nel giudizio abbreviato non rilevano le sole ipotesi di inutilizzabilità fisiologica, riferite dal legislatore al solo dibattimento.
Sul piano sistematico la soluzione ermeneutica prospettata appare coerente con l’obbligo di interpretazione restrittiva delle norme processuali, “la cui surrettizia disapplicazione potrebbe altrimenti svuotare di contenuti, nell’ambito dei riti alternativi di matrice negoziale, il fondamentale principio di legalità della prova” [28] . Si salda, inoltre, con l’importante indicazione avverso una generalizzata efficacia sanante della richiesta di giudizio abbreviato, proveniente dalla sentenza costituzionale n. 155 del 1996 [29] , dove si dichiarava l’illegittimità dell’art. 34 comma 2 c.p.p. nella parte in cui non prevedeva l’incompatibilità tra il giudice del giudizio abbreviato e quello per le indagini preliminari che avesse applicato una misura cautelare personale all’imputato. Secondo la Consulta l’esigenza di garantire all’imputato un giudice terzo, non viene meno nel giudizio abbreviato solo perché l’instaurazione di tale rito è subordinata alla richiesta dell’imputato. L’istanza della parte non costituisce, infatti, “una sorta di accettazione del giudice idonea a superare gli eventuali difetti di imparzialità”; invero “i requisiti costituzionali dei soggetti giudicanti, prima ancora che una pretesa di parte, costituiscono esigenze obiettive e irrinunciabili dell’ordinamento, cui corrisponde [...] non solo il potere di ricusazione riconosciuto alle parti stesse, ma altresì un dovere di astensione del giudice”. Ad avviso delle Sezioni Unite tale principio può ben essere esteso alle situazioni in cui la legge, in considerazione della particolare gravità del vizio inficiante un atto del procedimento, ne prevede la rilevabilità d’ufficio in ogni stato e grado del procedimento stesso, senza limitazioni riferibili al rito adottato.
La soluzione accolta dalla Suprema Corte offre alcuni spunti interessanti per meglio intendere la nuova disciplina del giudizio abbreviato, consentendo di valorizzare l’inciso dell’art. 438 comma 5 c.p.p. che impone al giudice, chiamato a valutare l’ammissibilità della richiesta condizionata, di tenere conto degli atti “già acquisiti ed utilizzabili”. Qualora il giudice rilevi l’esistenza di atti inutilizzabili ai fini della prova dei fatti contestati all’imputato, ne disporrà, ove possibile, la rinnovazione, sempre che sussistano i requisiti della necessità ai fini della decisione e della compatibilità rispetto alle esigenze di economia processuale. In altri termini, l’espressa previsione normativa del dovere del giudice di tener conto degli atti già acquisiti ed utilizzabili, impone l’abbandono di ogni tentativo di attribuire alla richiesta del procedimento speciale una portata abdicativa che non può avere, soprattutto oggi che il giudice ha, nel giudizio abbreviato, un potere d’integrazione istruttoria di cui potrebbe servirsi anche per sanare, attraverso la ripetizione, se possibile, il vizio di inutilizzabilità che inficia l’atto di indagine [30] .
Anche per quanto concerne le nullità degli atti di indagine in giurisprudenza si registravano posizioni difformi fino alla recente soluzione prospettata dalle Sezioni Unite con la sentenza Tammaro.
Gli argomenti utilizzati dalla Suprema Corte per confutare la pretesa efficacia sanante del giudizio abbreviato riguardo al vizio di inutilizzabilità patologica valgono anche per la nullità assoluta, la quale, come è noto, è anch’essa insanabile e deve essere rilevata d’ufficio in ogni stato e grado del procedimento. Oltre ai due opposti orientamenti menzionati, si registravano alcune isolate pronunce in cui la richiesta di giudizio abbreviato si configurava come una sanatoria di tutte le invalidità inficianti gli atti compiuti prima della richiesta stessa, “salve le eccezioni di nullità assolute, peraltro rilevabili di ufficio in ogni stato e grado del procedimento” [31] .
La pronuncia della Cassazione ci pare condivisibile. La previsione di cause di nullità assoluta è diretta, tra l’altro, proprio a prevenire pronunce giurisdizionali che si fondino su un materiale probatorio acquisito senza l’osservanza di un minimo di forma.
Quanto alle nullità intermedie (art. 180 c.p.p.) e relative (art. 181 c.p.p.), sembra infondata l’opinione che postula una sorta di decadenza dall’eccezione, la quale dovrebbe colpire i poteri delle parti dal momento in cui il giudice emette l’ordinanza ammissiva del rito abbreviato. In mancanza di previsioni espresse in tal senso, simile interpretazione è insostenibile, operando il principio di tassatività ex art. 173 comma 1 c.p.p.
La questione si fa più complessa qualora si sposti l’attenzione sul disposto dell’art. 183 lett. a c.p.p. La giurisprudenza era concorde nel ritenere che la richiesta di rito abbreviato comportasse una sanatoria della nullità, implicando l’accettazione da parte dell’imputato degli effetti dell’atto. Si legge, infatti, in un’ordinanza del Tribunale di Milano: “Che senso ha richiedere il giudizio abbreviato, e subito dopo la nullità della perizia, se detto atto non solo è essenziale alla qualificazione del fatto, ma è sicuramente rinnovabile nel corso del dibattimento, ove ne fosse dichiarata la nullità?” [32] . Simile argomento non sembra, tuttavia, convincente. La richiesta di giudizio abbreviato non può essere intesa come una rinuncia ad eccepire le nullità degli atti contenuti nel fascicolo del pubblico ministero: l’art. 183 lett. a c.p.p. pretende che la rinuncia sia “espressa”, mentre l’imputato, chiedendo il rito abbreviato, esprime solo la volontà di definire il processo nell’udienza preliminare.
Ci chiediamo, tuttavia, se sia possibile configurare la richiesta di giudizio abbreviato come fatto concludente, dal quale desumere eventualmente un’efficace volontà abdicativa del richiedente. Più precisamente, la questione sta nel chiarire se la richiesta di giudizio abbreviato realizzi quell’accettazione (in forma tacita) degli effetti dell’atto che l’art. 183 lett. a c.p.p. prevede come altra ipotesi di sanatoria dell’atto nullo.
L’art. 187 comma 3 c.p.p. 1930, prevedendo che la nullità era sanata “se l’interessato ha anche tacitamente accettato gli effetti dell’atto”, consentiva agevolmente di intendere in modo ampio la sanatoria in parola. L’eliminazione del riferimento all’accettazione tacita e la circostanza per cui il legislatore del nuovo codice di procedura penale abbia voluto precisare che, in caso di rinuncia -altra ipotesi di sanatoria prevista dall’art. 183 lett. a c.p.p.-, quest’ultima deve essere espressa, costituiscono un messaggio più garantista e restrittivo, e di maggiore prudenza nel ravvisare casi di sanatoria delle nullità; e ciò anche qualora si volesse aderire alla tesi dell’accettazione per facta concludentia. Peraltro, la dottrina formatasi sotto il codice abrogato -e, quindi, nell’ambito di un tessuto normativo più permeabile ad interpretazioni estensive delle ipotesi di sanatoria- fa emergere l’infondatezza della tesi secondo cui la richiesta di giudizio abbreviato varrebbe come accettazione degli effetti degli atti nulli. Tale accettazione rappresentava una tipica manifestazione di volontà con la quale l’interessato regola un proprio interesse e che non poteva, quindi, confondersi con il mero fatto oggettivo costituito dal silenzio. Nel caso della vera acquiescenza la dichiarazione non ammette equivalenti arbitrari o equivoci; si tratta, infatti, di un negozio processuale, fenomeno di autonomia privata che implica interessi disponibili. La forma di un simile negozio può anche essere tacita, ma i fatti concludenti nei quali detta forma tacita va a consistere devono essere inequivoci, ossia non suscettibili di diversa interpretazione.
La dottrina ha ripreso tale impostazione anche sotto il vigore del codice del 1988, sostenendo che l’accettazione tacita è un fenomeno che non ha niente da spartire con quello della mancata eccezione delle nullità nel termine prescritto dalla legge [33] . Se così è, con la richiesta di rito abbreviato l’imputato non rinuncia a proporre eccezioni di nullità degli atti compiuti, né accetta gli effetti di essi: trattandosi infatti di ricostruire la volontà del richiedente, occorre esaminare caso per caso se sussista o meno tale volontà sanante.
La tesi che attribuisce alla richiesta di giudizio abbreviato il valore di accettazione tacita degli effetti degli atti viziati, sembra più dettata da considerazioni di opportunità che da valide argomentazioni giuridiche. In realtà, il legislatore ha tipizzato il contenuto della richiesta del procedimento speciale in esame; pertanto, l’interprete dovrebbe evitare di attribuire a tale richiesta un oggetto diverso e più ampio, costringendo l’imputato a dire quello che non ha detto.
Inoltre, tale tesi conduce a risultati paradossali. Può accadere infatti che l’imputato non sia affatto consapevole del vizio dell’atto; in una simile situazione il voler cogliere nella richiesta del procedimento speciale un’accettazione volontaria dell’atto nullo è una tesi destituita di ogni fondamento, non potendosi logicamente accettare ciò che non si conosce o non si ritiene esistente. Si pensi, poi, al caso dell’imputato il quale, proprio confidando sul vizio dell’atto (e quindi sulla conseguente fragilità, in quel momento, del quadro probatorio a suo carico) richieda che il processo venga definito nell’udienza preliminare, e che poi si veda condannato sul rilievo di aver accettato proprio l’atto viziato.
Pertanto, qualora si attribuisca alla richiesta di giudizio abbreviato il valore di accettazione degli effetti dell’atto viziato, si introduce un termine di decadenza non previsto dalla legge e, quindi, in contrasto con il principio di tassatività ex art. 173 comma 1 c.p.p.
Si osservi, infine, come non sia pacifico che le sanatorie di cui all’art. 183 c.p.p. operino anche rispetto alle nullità a regime intermedio ex art. 180 c.p.p., essendo le prime difficilmente conciliabili con il regime della rilevabilità anche di ufficio.
Quanto alle nullità relative, se il legislatore avesse voluto attribuire un’efficacia sanante alla richiesta di giudizio abbreviato lo avrebbe detto espressamente. In virtù del rinvio di cui all’art. 441 comma 1 c.p.p., si applica all’abbreviato la normativa dell’udienza preliminare, nella quale, come si desume dall’art. 181 comma 2 c.p.p., non vi sono preclusioni alle eccezioni di invalidità. Tale argomento è, però, indebolito dalla riserva di compatibilità dell’art. 441 comma 1 c.p.p. e dal fatto che il rinvio operato da tale disposizione andrebbe esteso oltre l’art. 181 comma 2 c.p.p., per ricomprendervi l’intera normativa che riguarda il regime di rilevazione dei vizi degli atti in sede di udienza preliminare.
Pertanto, una volta stabilito che la richiesta di giudizio abbreviato non equivale a sanatoria ex art. 183 lett. a c.p.p., occorre procedere ad una lettura analogica dell’art. 181 comma 2 c.p.p., per cui le nullità verificatesi nella fase delle indagini preliminari possono essere eccepite prima della pronuncia del provvedimento terminativo dell’udienza preliminare e, se l’udienza manca, in dibattimento entro il termine di cui al comma 1 dell’art. 491 c.p.p. Nel rito abbreviato questo momento potrebbe individuarsi con riferimento al momento immediatamente successivo all’accertamento della costituzione delle parti, previsto per l’udienza preliminare dall’art. 420, comma 2 c.p.p., applicabile anche al giudizio abbreviato per il rinvio di cui all’art. 441, comma 1 c.p.p.
In conclusione, va osservato come la rinnovata struttura del giudizio abbreviato esclude in radice che la richiesta possa non solo impedire le eccezioni di inutilizzabilità patologica e di nullità assoluta, ma valere come sanatoria per le nullità a regime intermedio o relative, perché, da un lato, la definibilità del processo allo stato degli atti non si configura più come condizione di ammissibilità della richiesta e, dall’altro, il giudice, pur dovendo decidere nel merito senza tener conto delle risultanze probatorie affette dal rilevato vizio di nullità o di inutilizzabilità, ha comunque il potere di assumere ex officio gli elementi di prova necessari per la decisione. Infatti, qualora l’atto invalido non sia rinnovabile, esso non potrà essere utilizzato ai fini della decisione; al contrario, nel caso in cui l’atto invalido sia rinnovabile, il giudice potrà intervenire d’ufficio o su richiesta di parte tramite i suoi poteri d’integrazione probatoria.
Sotto la previgente disciplina, invece, una volta optato per il rito abbreviato, non ci si poteva più dolere dei vizi degli atti appartenenti al dossier dell’accusa, per il fatto che tali atti erano, appunto, stati valutati dal giudice al momento di decidere sull’ammissibilità del procedimento speciale. Era, quindi, la natura stessa del giudizio abbreviato a condurre a tale esito interpretativo, poiché il “cardine” di questo procedimento speciale era costituito “dalla valutazione di decidibilità allo stato degli atti la quale presuppone che sia stato preliminarmente definito ed accertato, nel contraddittorio delle parti, lo stato degli atti (l’entità del materiale probatorio) sulla base del quale il giudizio deve aver luogo” [34] .
Francesco Parenti - luglio 2002
(riproduzione riservata)
[1] Si veda la Relazione del sen. Pinto alla Commissione Giustizia del Senato, comunicata il 21 settembre 1999, par. 4.3.
[2] Si veda per tutte Cass., sez. VI, 15 febbraio 1993, Barlow, in Cass. pen., 1994, p. 2467.
[3] Cfr. D. NEGRI, Il “nuovo” giudizio abbreviato: un diritto dell’imputato tra nostalgie inquisitorie e finalità di economia processuale, in AA.VV., Il processo penale dopo la riforma del giudice unico, Padova, 2000, p. 474.
[4] Cfr. G. GIOSTRA, Una prima valutazione della riforma, in Dir. pen. proc., 1996, p. 122.
[5] Cfr. il sen. Russo, in Atti parlamentari, Senato della Repubblica, XIII legislatura, Discussioni, seduta 6 ottobre 1999.
[6] Cfr. F. M. GRIFANTINI, Inutilizzabilità, in Dig. disc. pen., vol. VII, Torino, 1993, p. 242 ss. nonché N. GALANTINI, L’inutilizzabilità della prova nel processo penale, Padova, 1992, p. 5 ss.
[7] Si veda A. SCELLA, L’utilizzabilità degli atti di indagine: problemi e prospettive, in Cass. pen., 2000, p. 3187 ss.
[8] Si veda A. SCELLA, L’inutilizzabilità della prova nel sistema del processo penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 1992, p. 208.
[9] Cfr. E. AMODIO, Modalità di prelevamento di campioni e diritto di difesa nel processo per frodi alimentari, in Riv. it. dir. proc. pen., 1970, p. 97.
[10] Cfr. Cass., sez. VI, 25 febbraio 1993, Romano, in Cass. pen., 1995, p. 110.
[11] Cfr. Cass., sez. VI, 17 giugno 1993, Chianale, in Cass. pen., 1994, p. 3046.
[12] Cfr. Cass., sez. II, 16 aprile 1993, Croci, in Cass. pen., 1994, p. 1556.
[13] Si veda Cass., sez. VI, 8 luglio 1992, Fabbri, in Cass. pen., 1992, p. 80.
[14] Cfr. Cass., sez. VI, 18 novembre 1992, Cornacchia, in Cass. pen., 1993, p. 74.
[15] Si veda Cass., sez. VI, 13 febbraio 1991, Cimmarusti, in Giust. pen., 1991, III, 252.
[16] Cfr. Cass., sez. II, 12 settembre 1991, Chinelli, in Cass. pen., 1993, p. 527.
[17] Si veda Cass., sez. un., 27 marzo 1996, Monteleone, in Cass. pen., 1996, p. 2913.
[18] Cfr., per tutte, Cass., sez. VI, 27 novembre 1990, Bambetti, in Cass. pen., 1991, II, p. 848.
[19] A. SCELLA, Prove penali e inutilizzabilità. Uno studio introduttivo, Torino, 2000, p. 159.
[20] Cfr. F. CORDERO, Procedura penale, Milano, 2000, p. 597 ss.
[21] Si veda Cass., sez. VI, 3 ottobre 1996, Toth, in Dir. pen. proc., 1997, p. 454.
[22] Cfr. per tutte Cass., sez. I, 8 gennaio 1997, Zotka, in Cass. pen., 1999, p. 552.
[23] Si veda D. POTETTI, Regime degli atti e revoca del provvedimento ammissivo nel giudizio abbreviato, in Cass. pen., 2000, p. 673.
[24] Si veda per tutte Cass., sez. un., 27 marzo 1996, Monteleone, cit., p. 2913.
[25] Cfr. Cass., sez. un., 30 giugno 2000, Tammaro, in Guida al diritto, 26 agosto 2000, n. 31, p. 76.
[26] Cfr. Cass., sez. V, 12 novembre 1999, Busellato, in Dir. proc. pen., 2000, p. 808-809.
[27] Si veda Cass., sez. V, 12 gennaio 1994, Vetrallini, in Rivista Guariniello, Il processo penale nella giurisprudenza della Corte di Cassazione, 1994, p. 192.
[28] Si veda Cass., sez. un., 30 giugno 2000, Tammaro, cit., p. 76.
[29] Cfr. Corte Cost., 20 maggio 1996, n. 155, in Giur. Cost., 1996, p. 1464 ss.
[30] Cfr. R. BRICCHETTI, La richiesta di accesso al rito semplificato non è una rinuncia a eccepire gli atti viziati, in Guida al diritto, 26 agosto 2000, n. 31, p. 82.
[31] Cfr. Cass., sez. VI, 15 febbraio 1993, Barlow, cit., p. 2467.
[32] Cfr. Trib. Milano, 7 marzo 1990, Marino, in Foro it., 1990, II, c. 513.
[33] Si veda G. P. VOENA, Atti, in Compendio di procedura penale, a cura di G. CONSO e V. GREVI, Padova, 2000, p. 270.
[34] Cfr. Cass., sez. II, 10 marzo 1998, Rigato, in Cass. pen., 1999, p. 1847.