Raffaella Marini, Parte civile non impugnante e diritto al risarcimento

La questione concernente la possibilità, per la parte civile, di ottenere il ristoro del danno subìto anche laddove sia rimasta inerte di fronte alla pronuncia per lei pregiudizievole, non ha trovato, in giurisprudenza, una soluzione unanime, tanto da giustificare un intervento delle Sezioni Unite della Cassazione, nel tentativo di mettere la parola fine alla tormentata vicenda. La Corte, in particolare, avallando l’orientamento negativo, ha affermato che la parte civile non gode del diritto al risarcimento quando, assolto l’imputato in primo grado, lo stesso viene successivamente condannato su appello del solo P.M.: e ciò perché la parte lesa, una volta costituitasi parte civile, può liberamente decidere di insistere, nei gradi successivi del processo, nell’azione volta ad ottenere le restituzioni o il ristoro del danno patito, oppure scegliere di non coltivare l’azione stessa anche quando il pubblico ministero attivi l’impugnazione nell’interesse dello Stato, con la conseguenza di far formare il giudicato in ordine al relativo rapporto, con effetti sia sostanziali, sia processuali (Cass., S. U., 11.3.1999, Loparco, CED 212575). L'assunto non convince pienamente: anche in giurisprudenza, tra l'altro, non sono mancate voci dissonanti (Cass., V, 21 ottobre 1999, Maellare ed altri, CED 215559; Cass., V, 25 agosto 2000, Mariotti, CED 216996).

Innanzitutto, non pare condivisibile l’idea, sulla quale si fonda la pronuncia delle Sezioni Unite, secondo la quale, nell’ambito del processo penale sussiste piena autonomia tra azione civile e azione propria. A ben vedere, infatti, se vi è indipendenza dell’azione civile con riguardo a tutte le questioni che concernono il danno e la sua entità, non sfugge che in ordine al fatto causativo del danno ed alla sua attribuibilità all’imputato, il giudizio sulla pretesa risarcitoria è strettamente e direttamente dipendente dalla pronuncia sulla responsabilità penale, senza contare che lo stesso art. 574 c.p.p., nell’affermare che l’impugnazione dell’imputato contro la pronuncia penale estende i suoi effetti alla pronuncia di condanna al risarcimento quando tale pronuncia dipende dal capo o dal punto impugnato, esclude che si possa parlare di una piena autonomia tra le due azioni.

In secondo luogo, le affermazioni della Corte appaiono in qualche modo dissonanti rispetto al contenuto dell’art. 76 c.p.p. Il principio di immanenza della parte civile sancito da tale norma conferisce, infatti, alla domanda risarcitoria proposta mediante l’azione civile, la capacità di produrre effetti in ogni stato e grado del procedimento, il che implica un dispiegamento di efficacia anche per i gradi successivi al primo e a prescindere dalla proposizione dell’impugnazione. Più precisamente, il principio d’immanenza comporta che la parte de qua, una volta costituita, sia inserita nel processo anche se assente al momento dell’accertamento della costituzione delle parti tanto nell'udienza preliminare quanto in quella dibattimentale del primo grado e di quelli successivi, e comporta altresì che le spetti la citazione per i gradi ulteriori del giudizio, nei quali sarà parte costituita senza che occorra un nuovo atto di costituzione, a differenza di quanto accade nel processo civile. A tutela del principio in esame, la disciplina codicistica impone che vadano notificate alla parte lesa le impugnazioni proposte dalle altre parti (art. 584 c.p.p.) e che essa sia citata per il giudizio di appello (art. 601, comma 4 c.p.p.), di cassazione (art. 610, comma 5 c.p.p.) e di revisione (art. 636 c.p.p.), anche se la sua domanda è stata rigettata o è stata emessa sentenza assolutoria senza che essa abbia presentato gravame. Orbene, per un verso, non si vede quale altro senso possa essere attribuito alla prescritta partecipazione se non quello di permettere alla parte de qua di ottenere il ristoro dei danni subiti; per altro verso, considerato che la costituzione di parte civile consiste in una richiesta di risarcimento, affermarne l’immanenza significa riconoscere che la decisione sull’azione civile è destinata a seguire le sorti dell’azione penale fino alla conclusione del processo. Pertanto, come rilevato in giurisprudenza, poiché la costituzione di parte civile, secondo l’espressa previsione dell’art. 76 c.p.p., produce i suoi effetti in ogni stato e grado del processo, la parte privata, una volta ammessa, ha diritto di partecipare a tutte le fasi successive del procedimento ed anche quando non abbia interposto appello, ma si sia affidata all’impugnazione proposta dagli organi del P.M., è legittimata a costituirsi in appello e a vedersi riconosciuto il risarcimento dei danni in caso di condanna (Cass., V, 21.10.1999, Maellare, CED 215559; Cass., V, 20.3.1997, Caratelli, in Giust. Pen., 1998, III, 368; Cass., IV, 14.3.1996, Rocchetta; Cass., 31.5.1994, Platto, CED 200388).

Alla luce di queste considerazioni non sembra da condividere l’orientamento giurisprudenziale che nega alla parte civile inattiva di fronte alla sentenza per lei pregiudizievole il diritto al risarcimento (Cass., IV, 24.6.2000, Colicigno B., CED 216604, Cass., IV, 29.10.1997, Marcelli, Cass., III, 29.10.1996, Pellinacci; Cass., IV, 6.8.1993, Baccilieri), indirizzo esegetico fondato, da un lato, sul fatto che l’impugnazione del Procuratore della Repubblica, essendo funzionalmente limitata alla pretesa punitiva, non può sortire effetti estensibili alla pretesa risarcitoria, dall’altro, sulla constatazione che la mancata impugnazione della parte civile avverso il capo della sentenza a lei sfavorevole comporta la formazione del giudicato in ordine al relativo rapporto, precludendone la rivisitazione in un successivo grado di giudizio. Sotto il primo profilo, infatti, se è vero che il gravame attivato dalla pubblica accusa mira alla tutela di interessi penalistici e non civilistici, non sfugge però che tramite l’iniziativa del P.M. si apre una fase del giudizio in cui la parte civile, stante il principio di immanenza, deve ritenersi parte costituita, come tale legittimata a fornire il proprio contributo dialettico in vista di una decisione destinata a produrre effetti nei suoi confronti. In realtà, come già accennato, non avrebbe alcun senso permettere alla parte civile di partecipare al nuovo stadio del procedimento se il giudice non potesse delibare in ordine alla sua pretesa: riconoscendole il ruolo di parte costituita anche nei gradi ulteriori del processo, il legislatore sembra dunque assegnarle implicitamente anche quello di destinataria del provvedimento finale. Deve dunque ritenersi che la parte offesa, anche se non impugnante, potendo sempre partecipare al giudizio promosso dalle altre parti in virtù della regola della immanenza, si giovi dell’altrui gravame a fini devolutivi (FORTUNA, Azione penale e azione risarcitoria, Milano, 1980, p. 552). Parallelamente, se non si può disconoscere che, ai sensi degli artt. 597 e 609, comma 1, c.p.p. la cognizione del giudice dell'impugnazione è limitata dai motivi indicati nel relativo atto, va tuttavia preso atto che la devoluzione si intende estesa alla questione relativa al risarcimento ogniqualvolta i motivi di gravame si riferiscono espressamente ad essa o intercorra una relazione logica essenziale tra essi e la questione civile (FORTUNA, Azione penale e azione risarcitoria, Milano, 1980, p. 555), impedendo la formazione del giudicato sulla parte della decisione non impugnata.

Va ancora rilevato che, assegnando alla mancata proposizione dell’impugnazione significato di acquiescenza, si omette di considerare che nel codice di procedura penale manca una norma dedicata alla acquiescenza delle impugnazioni e che l’apposita disciplina prevista dal codice di rito civile (art. 329 c.p.c.) non sembra applicabile in via analogica: come chiarito dalla Corte Costituzionale, infatti, l’inserimento dell’azione civile nel processo penale pone in essere una situazione in linea di principio differente rispetto a quella determinata dall’esercizio dell’azione civile in sede propria, anche ove si tratti di azione di restituzione o di risarcimento dei danni derivanti da reato. Tale azione, infatti, assume carattere accessorio e subordinato rispetto all’azione penale, sicché è destinata a subire tutte le conseguenze e gli adattamenti derivanti dalla funzione e dalla struttura del processo penale, cioè dalle esigenze di interesse pubblico connesse all’accertamento dei reati e alla rapida definizione dei processi (Corte Cost., 19-27 luglio 1994, n. 353, in Gazz. Uff., serie speciale n. 32 del 3 agosto 1994). Dunque, se è vero che l’azione civile esercitata nel processo penale è la medesima azione che il danneggiato dal reato avrebbe potuto proporre in sede civile, va altresì preso atto che le sensibili divergenze intercorrenti tra i principi regolatori del processo civile e quelli operanti nel processo penale determinano l’impossibilità di ricorrere alle disposizioni dettate dal codice di procedura civile quando manchino, all’interno di quello di rito penale, espresse disposizioni regolanti la materia. Inoltre, posto che l’unico limite al principio di immanenza è dato dall’esclusione della parte civile o dalla revoca, espressa o tacita, della precedente costituzione, assegnando alla mancata proposizione dell’impugnazione significato di acquiescenza, si finisce per considerare la stessa quale causa di revoca della costituzione di parte civile, il che si pone in contrasto con il dettato dell’art. 82 c.p.p.. Tale norma, infatti, nell’elencare le ipotesi di revoca (da considerare tassative: cfr. Cass., VI, 29.1.1996, Clarke, CED 203430), non fa alcun riferimento alla mancata impugnazione del provvedimento pregiudizievole.

- Raffaella Marini - giugno 2002 -

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