Massimo Cusatti, Il decorso del tempo ed il processo penale alla luce del nuovo art. 111 della Costituzione

L’inserimento nel testo dell’art. 111 della Costituzione del principio della ragionevole durata del processo, già previsto dall’art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo, ha conferito la massima dignità normativa anche al parametro cronologico, accanto a quelli dell’indipendenza dei magistrati, della parità delle parti, della garanzia del contraddittorio. Non può più considerarsi conforme ai princìpi costituzionali che regolano la giurisdizione, insomma, un processo che si dilunghi al di là del tempo ragionevolmente occorrente perché ne risulti garantita la tutela degli altri valori predetti. 

Per quanto un’innovazione di tale portata renda di immediata percezione l’esigenza di importanti adeguamenti normativi, è necessario che la magistratura si senta fin da subito coinvolta dal mutato rilievo dell’elemento cronologico che il legislatore costituzionale ha posto a base dell’introduzione di questa norma, la quale adegua il nostro sistema processuale ad un principio di civiltà giuridica che supera gli ormai angusti limiti del diritto positivo del nostro Stato per attingere la soglia del diritto naturale. Del resto, nel dibattito interno alla magistratura il tema dell’eccessiva lentezza della giustizia è sempre stato oggetto di profonde riflessioni, connesso com’è alla qualità del nostro lavoro ed alle necessarie motivazioni di ciascuno: non è particolarmente interessante lavorare per degli anni e poi accorgersi, a causa di lentezze strutturali e funzionali, che lo si è fatto a vuoto perché la mannaia della prescrizione ha fatto giustizia di accusa e difesa, magari dopo anni trascorsi a sezionarle con il fioretto.

La peculiarità del processo penale, sotto l’aspetto qui in esame, pure è di immediata intuizione: la natura pubblica di una soltanto delle parti del processo penale da un lato lo sottrae ad un’applicazione del principio dispositivo analoga a quella vigente nel processo civile ordinario, in cui attore e convenuto si incalzano a vicenda e realizzano in tal modo un controllo reciproco sulla durata del giudizio; dall’altro pone un’esigenza del tutto specifica, consistente in quella di evitare che l’imputato - in teoria anch’egli interessato ad una celere definizione del giudizio a suo carico - approfitti dei meccanismi di garanzia soltanto per differire nel tempo il momento della condanna e, possibilmente, giungere all’estinzione del reato per il decorso del tempo: una linea difensiva che nell’attuale sistema è perfettamente legittima, ma che può costituire, ove diventi prassi generalizzata, un forte incentivo a prolungare la durata del processo penale e a non accedere ai riti alternativi.

Da questa premessa deriva che il rapporto fra tempo e processo penale è, più che in ogni altro settore, intimamente condizionato dal tema dell’efficienza: solo un processo che assicuri una sanzione effettiva e relativamente celere può costituire un idoneo deterrente rispetto a tecniche dilatorie o addirittura ostruzionistiche, perché altrimenti nulla potrà mai realmente "sterilizzare" l’incidenza del decorso del tempo rispetto all’esito del processo penale.

Tuttavia non può pensarsi che quello di una ragionevole durata del processo penale sia un valore in sé assoluto: la mera speditezza dell’accertamento può significare che questo è stato superficiale, che non si è tenuto conto in maniera adeguata dei momenti di garanzia predisposti a tutela dell’imputato e finalizzati, in ultima analisi, ad evitare decisioni non corrette; così come un’eccessiva ponderatezza della decisione, magari sottoposta a reiterati gradi di giudizio ed in teoria sempre emendabile, corre il rischio di condurre a decisioni ineccepibili sotto il profilo giuridico ma talmente lontane dal momento dei fatti da risultare dei meri documenti storici. Per semplificare, altro è immaginare la ragionevole durata di un processo penale in un sistema che preveda un solo grado di giudizio, altro è farlo in relazione ad un sistema che ne preveda quattro: nel primo caso, sarebbe irragionevole, per eccesso, una durata complessivamente superiore ad un anno, nel secondo deve invece convenirsi che sarebbe irragionevole, per difetto, pretendere una durata del giudizio complessivamente inferiore a sette-otto anni.

Occorre, insomma, trovare un punto di equilibrio tra queste due contrapposte esigenze di speditezza e ponderatezza della decisione. Ed allora può provarsi fin d’ora, in attesa della giurisprudenza anche di rango costituzionale che si formerà sul punto, ad enucleare una sommaria regola interpretativa cui attenersi per verificare quanto dell’attuale processo risponda al principio di una sua ragionevole durata e quanto, invece, possa essere sfrondato nell’ottica di un recupero di efficienza: può dirsi "ragionevole" la durata di un processo penale che risulti necessaria e sufficiente, nel contempo, a verificare la fondatezza dell’ipotesi d’accusa e ad assicurare il rispetto delle garanzie per la difesa ritenute irrinunciabili in un dato contesto storico.

A ben vedere, quindi, c’è sempre un problema di opzioni "politiche" da parte del legislatore, il solo cui spetti verificare se le situazioni di stallo che a più riprese si verificano nel corso del giudizio penale - e che ne fanno lievitare la durata fino ai pessimi livelli denunciati ogni anno nelle statistiche - siano soltanto il necessario prezzo da pagare, in termini cronologici, ai momenti di indefettibile garanzia di cui è innervato il nostro sistema processuale ovvero siano meri intralci e intoppi frutto di tecniche dilatorie, del tutto superflue in un’ottica di lealtà delle parti.

Una riforma costituzionale come quella introdotta dal nuovo art. 111, però, non può certo vedere la magistratura alla finestra in attesa di nuovi interventi normativi: l’osservatorio privilegiato di cui dispone dall’interno del processo penale le consente, infatti, di operare una ricognizione sia dell’esistente quadro normativo, con indicazioni utili a circoscrivere l’ambito dei possibili rimedi, sia delle disfunzioni ascrivibili a prassi distorte, cui gli stessi magistrati non sempre sono estranei. Ed è su questo duplice piano, dunque, che si muove l’analisi che segue, delimitata agli aspetti che riguardano il giudizio dibattimentale nelle sue varie fasi.

 

§ 1.       Il primo serio problema che incontra un giudice di buona volontà il quale voglia celebrare il dibattimento nel minor tempo possibile, ma con il massimo rispetto delle garanzie della difesa, è costituito dalle notificazioni.

La verifica della ritualità delle notifiche costituisce un momento di rilevante stallo del corso della giustizia: si pensi ad un giudizio contro molti imputati, legati da posizioni processuali inscindibili, nel quale una sola delle notifiche risulti alla prima udienza non andata a buon fine. Insorge la necessità di un rinvio e di una nuova notificazione, semprechè nelle more non scatti la necessità di ricerche per il sopravvenuto mutamento di residenza, ed alla successiva udienza è sempre possibile che il difensore di un altro imputato si ricordi di eccepire che, ad esempio, l’ufficiale giudiziario, nell’effettuare la prima notifica, aveva omesso di trascrivere nella relata l’ora del secondo accesso così come previsto dall’art. 59 disp. att. c.p.p., sollevando dubbi sulla regolare costituzione anche di quel secondo rapporto processuale, e così via. Non deve stupire, in tale contesto, che possa trascorrere anche un anno prima che un giudizio di primo o secondo grado possano dirsi regolarmente incardinati.

Ora, non può certo disconoscersi l’elevato tasso di garanzie che caratterizza la complessa disciplina che il nostro codice riserva al tema delle notificazioni: si tratta soltanto di valutare se ed in quali limiti esso rappresenti un valore indiscutibile, tale da sottrarlo ad ogni censura sotto il profilo dell’effettiva utilità del decorso del lungo tempo spesso occorrente per la sua concreta attuazione.

Sul piano delle prassi giudiziarie, va posto l’accento su un aspetto che può apparire banale ma che proprio per questo è frequentemente negletto, con ingenti "danni" sotto il profilo del decorso del tempo. Ove addirittura non sia rimesso alle cancellerie, il controllo circa il buon fine delle notificazioni viene effettuato per lo più a ridosso dell’udienza, quando la verifica eventualmente negativa non potrebbe condurre ad altro che ad un inevitabile rinvio; dovrebbe invece essere buona norma anticipare di molto quel controllo, in modo da poter ovviare ad eventuali errori con la pronta reiterazione della singola notifica in tempo utile per l’udienza di riferimento, come già oggi consente - nel quadro degli atti preliminari al dibattimento - l’art. 143 disp. att. c.p.p..

Quanto ai possibili rimedi normativi, la risposta è interna al sistema: nel senso che v’è già una disposizione che mostra di aver compiutamente coniugato efficienza e garanzie, tenendo nel debito conto, ai fini qui in esame, la diversa situazione in cui vengono a trovarsi gli imputati a seconda che siano muniti del difensore di fiducia o d’ufficio. L’art. 613 c.p.p. prescrive infatti al 2° comma, con riguardo al giudizio che si svolge dinanzi alla Cassazione, che "per tutti gli atti che si compiono nel procedimento davanti alla Corte il domicilio delle parti è presso i rispettivi difensori". Forse è proprio questo uno dei "segreti" della particolare celerità del giudizio di legittimità, per il cui avvio non occorre impelagarsi in quella casistica delle modalità di notifica che sembra destinata a creare problemi, piuttosto che a garantire la regolare instaurazione del rapporto processuale; e ciò a tacere del fatto che un adeguamento della disciplina delle notifiche ai progressi della tecnologia - prevedendo, ad esempio, la notifica via fax presso lo studio del difensore fiduciario - ridurrebbe ulteriormente i tempi di attesa prima del concreto avvio del giudizio.

Ovviamente tale estensione dovrebbe valere per il solo imputato che abbia nominato un difensore di fiducia, almeno finchè la difesa d’ufficio mantenga l’attuale natura avventizia e non sia resa in qualche modo "stabile", ad esempio con l’attribuzione di incarichi a termine a gruppi di giovani legali coordinati, in ogni circondario, dal Presidente del Consiglio dell’Ordine o da un suo delegato. In ogni caso, potrebbe essere proprio l’operatività a tutto campo del citato art. 613 ad offrire una soluzione al problema di risparmiare tempi morti senza sacrificare le garanzie della difesa.

E ciò a tacere del fatto che, in un processo penale sempre più speditamente diretto verso un’effettiva parità di tutte le parti, resterebbe di difficile comprensione la disciplina "privilegiata" che il codice continua a riservare sotto questo profilo all’imputato, anche nei casi in cui, nominato un difensore di fiducia, venga a trovarsi nelle stesse condizioni della persona offesa, della parte civile e del responsabile civile; è appena il caso di ricordare, per vero, che l’art. 33 delle disposizioni di attuazione del codice di rito penale  statuisce che "il domicilio della persona offesa dal reato che abbia nominato un difensore si intende eletto presso quest’ultimo", così come l’art. 154, comma 4°, c.p.p. prevede che "le notificazioni alla parte civile, al responsabile civile ed alla persona civilmente obbligata per la multa e per l’ammenda sono eseguite presso il difensore". Se questa peculiare disciplina non ha finora suscitato alcuna censura di legittimità costituzionale sotto il profilo dell’effettività della difesa degli altri protagonisti del processo, potrebbe allora rendersi effettiva e concreta la tanto invocata parità fra le parti - in un aspetto tutt’altro che marginale, per i risvolti di cui s’è detto - con riguardo non soltanto al rapporto P.M./imputato, ma anche a quello imputato/parte civile, spesso altrettanto conflittuale; l’accentuata impostazione garantistica del complesso di procedimento di notificazione rimarrebbe, così, pienamente giustificata per i casi in cui l’imputato non abbia ritenuto di conferire alcun mandato difensivo fiduciario.

§ 2.       Connessi al tema dell’instaurazione del rapporto processuale sono quelli della contumacia e dell’irreperibilità dell’imputato. Quanto al primo aspetto, va sottolineato che il nostro ingresso in Europa, per non restare ad un livello meramente nominale nel campo giudiziario, dovrebbe condurre ad un’armonizzazione del nostro ordinamento processuale con quello degli altri Paesi, almeno sul piano dei principi generali. Tra questi v’è certamente quello della necessaria comparizione dell’imputato dinanzi al suo giudice, libero poi, naturalmente, di tacere e di assumere ogni linea difensiva ritenuta più opportuna. In Italia, invece, forse per un eccessivo omaggio alla tradizione civilistica - in cui la contumacia ha tutt’altro significato - è consentito all’imputato, pur avvertito della celebrazione di un processo a suo carico, di non comparire dinanzi all’Autorità Giudiziaria.

Poco male, se tutti i processi penali potessero decidersi soltanto sulla base di prove raccolte negli ormai ristretti confini nazionali. I problemi sorgono, invece, quando occorre rivolgersi ad un altro Paese, anche comunitario, per una rogatoria: qui il giudizio contumaciale è guardato con molta diffidenza, come se il fatto di infliggere una pena ad un imputato che per libera scelta decide di non comparire in aula fosse un attentato alle sue garanzie e non il massimo della libertà nelle scelte difensive. Conseguentemente, non è raro il caso di un rifiuto di assistenza giudiziaria se questa inerisce ad un giudizio contumaciale: solo per citare l’esempio di un Paese che ha tradizioni giuridiche non lontane dalle nostre, la Spagna rifiuta sistematicamente proprio per quel motivo l’esecuzione delle richieste italiane di assistenza giudiziaria.

Senza esprimere giudizi di valore sull’istituto, ci si limita dunque a segnalare l’opportunità di una precisa scelta di campo: o ci si adegua alle legislazioni degli altri Paesi, sopprimendo la contumacia nel processo penale, o si rimuove ogni equivoco in proposito con un atto ufficiale che chiarisca alla Comunità internazionale che il nostro giudizio contumaciale non vìola le difese dell’imputato, ma semmai ne costituisce una sublimazione. In mancanza, vi sarebbe una sola certezza: l’imputato che decida di rimanere contumace resterebbe, per ciò solo, al riparo dal rischio di vedersi contestare dal P.M. gli esiti di eventuali rogatorie all’estero, con una sorta di palese, per quanto parziale, "immunità istruttoria" del tutto ingiustificata.

A ciò si aggiungano, ad ulteriore riscontro dell’inutile appesantimento che dall’istituto può derivare alla durata del processo, le lungaggini connesse alla necessità di notificare all’imputato che ha scelto di non comparire tutti i provvedimenti resi in udienza ex art. 516 c.p.p.: un indubbio ossequio a principi di massima garanzia, ma che sarebbe agevole considerare superfluo ove la presenza dell’imputato, salvo i casi di legittimo impedimento, fosse considerata alla stregua di un dovere processuale. In ogni caso, l’auspicata estensione anche all’imputato dell’elezione di domicilio de jure presso il suo difensore di fiducia potrebbe almeno attenuare l’effetto indubbiamente dilatorio connesso a simili evenienza processuali.

§ 3.       Riguardo invece agli irreperibili, va detto che una buona percentuale dei dibattimenti riguarda imputati che vengono dichiarati contumaci solo perché all’esito di ricerche risultano non reperibili. Gli stessi vengono quindi considerati in stato di conoscenza legale del processo a loro carico, ed i relativi avvisi vengono inviati al loro difensore, anche se nominato d’ufficio.

La conseguenza pratica è sconfortante: buona parte delle sentenze che vengono emesse nell’ambito di questi processi resta lettera morta, nel senso che nessuno di quegli imputati irreperibili, con nomi a volte incomprensibili od incerti, sarà mai anche soltanto sfiorato dagli effetti del processo. Si tratta, insomma, di uno spreco di energie finanziarie e lavorative non indifferenti, che potrebbero essere ben più utilmente impiegate per portare a termine processi nei confronti di imputati in carne ed ossa, e non contro figure virtuali di cui v’è traccia soltanto nell’incarto processuale intestato a loro nome.

Con l’ovvia eccezione dei latitanti, nei quali la gravità delle esigenze cautelari giustifica l’emissione di un’ordinanza di custodia cautelare che esige comunque una pronta verifica dibattimentale, potrebbe dunque avviarsi una seria riflessione sulla concretezza dei risultati che si chiedono ad un processo penale: se questo non si propone l’accertamento della verità assoluta, ma solo di quella che emerge nel contraddittorio tra le parti, non ha molto senso continuare a processare i tanti "fantasmi", molto spesso extracomunitari, che affollano le nostre aule di giustizia; e ciò sia perché il contraddittorio che può realizzarsi nei confronti di un irreperibile è di natura meramente virtuale - come dimostrano i tanti incidenti di esecuzione puntualmente sollevati da condannati che eccepiscono l’irritualità delle ricerche disposte a loro carico nella fase di cognizione -, sia perché una decisione resa nei confronti di chi allo stato non possa subirne l’efficacia in un senso o nell’altro sembra una sfida al buon senso, in assenza di gravi esigenze cautelari che valgano a qualificarlo come latitante.

Può allora profilarsi l’ipotesi di una sospensione dell’esercizio dell’azione penale - e della stessa prescrizione del reato - nei confronti di chi, fuori dai casi di latitanza, risulti non reperibile sul territorio dello Stato e per tutto il tempo in cui permanga tale condizione: il conseguente effetto fortemente dilatorio per quei processi, fatti soltanto di carta, sarebbe allora proficuamente compensato dal recupero di risorse da destinare ai processi contro imputati "veri", ai quali deriverebbe un’indiretta accelerazione verso una più ragionevole durata.

Sul diverso piano di quanto già oggi può essere fatto alla luce del quadro normativo esistente, per ottenere un risultato analogo basterebbe tenerne conto nell’indicazione dei criteri di priorità previsti dall’art. 227 d.L.vo 51/1998, con l’indubbio vantaggio di non dover operare una scelta, che non è mai asettica, fra tipologie di reati - e dunque di vittime -, bensì tra le diverse prospettive di concretezza dei risultati processuali ottenibili.

§ 4.       Nella stessa ottica, pare necessaria una decisa inversione di tendenza da parte degli stessi giudici, spesso dediti - per burocratica superficialità - a prassi distorte e negligenti come quella di non curare l’esatta individuazione delle generalità dell’imputato, specialmente se straniero, o di non munirsi di un certificato penale aggiornato alla data dell’udienza. Le conseguenze sono devastanti, perché questa scarsa attenzione ad aspetti essenziali ai fini dell’esecuzione della sentenza mina alla base la stessa funzione indirettamente preventiva del sistema penale: nel senso che un processo penale che non riesce a punire il condannato non ha alcun effetto deterrente rispetto alla consumazione di altri reati.

L’intero settore merita un recupero di energie ed un forte impegno, sorretto da necessari mezzi tecnici di collegamento tra i diversi uffici che consentano di accertare rapidamente non solo la reale identità degli imputati, ma anche le condanne irrevocabili rese in precedenza a loro carico magari sotto altre generalità, così da evitare una concessione spesso non dovuta del beneficio della sospensione condizionale della pena.

Certo, ciascuno deve compiere la sua parte: i capi degli uffici dovrebbero curare che alla redazione delle schede ed all’inserimento dei dati nel Casellario sia destinato personale motivato ed efficiente, in modo da ridurre al minimo ritardi ed errori circa i precedenti giudiziari dell’imputato e, conseguentemente, restituire all’incensuratezza "vera" una dignità che oggi pare svilita, di fronte ai troppi certificati penali con la dicitura "nulla" che circolano nelle aule di udienza. I giudici, come si accennava, dovrebbero assicurarsi per tempo che il certificato penale dell’imputato sia completo ed aggiornato. Il Ministero dovrebbe curare che in tempi brevi siano ovunque installate delle reti locali tra gli uffici, per rendere più funzionale il servizio: la totale informatizzazione del sistema consentirebbe l’inserimento in tempo reale dei dati nel sistema ed il superamento dell’ormai obsoleto sistema cartaceo delle schede. Il Consiglio Superiore della Magistratura dovrebbe iniziare a valorizzare anche la gestione di tali servizi, per accertare la complessiva professionalità dei candidati alla progressione in carriera. Il legislatore, infine, dovrebbe disciplinare l’esecuzione delle sanzioni in maniera da evitare che il condannato, come accade oggi, possa vanificarne l’effetto sottraendosi, di fatto, alla notifica brevi manu dell’ordine di esecuzione.

§ 5.       Qui va introdotto un tema che, in una prospettiva futura, non potrà non essere oggetto di attenta riflessione, tanto è connaturale ad un processo più marcatamente accusatorio quale quello disegnato dal nuovo art. 111 della Costituzione. Molte delle garanzie previste dal codice di rito sono infatti legate, nella loro genesi, a profili inquisitori rispetto ai quali è perfettamente comprensibile, per la difesa, l’aspirazione a rallentare il corso della giustizia, magari facendo regredire il procedimento fino a determinare le condizioni per la prescrizione del reato.

Quando invece la prova si forma nel contraddittorio vivo tra le parti, non pare più ammissibile una garanzia concepita come "asso nella manica" da calare al momento opportuno. La connotazione in chiave di maggiore oralità ha un costo, e questo non può che essere riconosciuto nel dovere di lealtà e correttezza processuale che deve animare entrambe le parti dinanzi al giudice, altrimenti indotto in errore dall’inerzia di una parte che, invece di sollevare un’eccezione nel corso del giudizio, la tenga nascosta per poi farne un motivo di appello avverso la sentenza di primo grado.

Se dunque il processo dev’essere ad armi pari, conformemente al nuovo testo costituzionale, entrambe le parti devono servirsi dei mezzi a loro disposizione non a rate ma contemporaneamente, senza infingimenti e riserve che, condivisibili in un sistema inquisitorio in cui non poteva chiedersi al difensore di non approfittare dell’errore del P.M. o del giudice, nel nuovo assetto varrebbero a determinare soltanto un inutile incremento della durata del processo in assenza di una seria giustificazione.

§ 6.       Una prima applicazione concreta di tale principio potrebbe ravvisarsi in relazione ad alcune questioni preliminari, oggi disciplinate in maniera tale da consentire l’innesto nel tessuto processuale, fin dalle prime battute, di vere e proprie mine vaganti che, se non disinnescate, possono poi deflagrare nei successivi gradi di giudizio o addirittura nella fase dell’esecuzione, conducendo all’annullamento di anni di lavoro con una grave ricaduta in termini non solo di immagine ma anche di giustizia sostanziale.

Viene in rilievo al riguardo innanzitutto il regime delle nullità: tralasciando quelle assolute ed insanabili, che attengono alla stessa sussistenza di un corretto rapporto processuale e sono di tale gravità da giustificarne la rilevabilità in ogni stato e grado, tutte le altre fattispecie di nullità sono strutturate in modo da favorire, anziché evitare, la regressione del giudizio alla fase antecedente e dunque l’allungamento dei tempi processuali.

Solo a titolo esemplificativo, la nullità a regime intermedio derivante dal mancato invio dell’avviso di udienza ad uno dei due difensori di fiducia dell’imputato dev’essere dedotta prima della deliberazione della sentenza di primo grado, in quanto attinente alla fase degli atti preliminari che è funzionalmente e strutturalmente distinta da quella del dibattimento. Se però la stessa nullità si verifica in relazione all’avviso di un rinvio fuori udienza verificatosi a giudizio in corso, a norma degli artt. 180 e 181, 4° comma, c.p.p. questa può essere eccepita anche solo in appello: in altri termini, l’ordinamento consente all’altro difensore di portare comunque a compimento la discussione della causa, pur in presenza di una causa di nullità, senza formulare alcuna eccezione al riguardo. Solo in caso di condanna, magari in assenza di altri motivi di appello, quello stesso difensore potrà dedurre un motivo di nullità della sentenza che gli era noto ben prima della deliberazione di quest’ultima.

La conseguenza pratica è che il giudice del secondo grado, senza nemmeno entrare nel merito della causa, si limiterà ad annullare una decisione in ipotesi del tutto fondata nel merito, tanto da poter essere nuovamente adottata dal giudice di rinvio: il tutto, però, a qualche anno di distanza, e sempre che nelle more non sia intercorsa la prescrizione.

Ed ancora: oggi la nullità di un atto per incertezza assoluta sulle persone intervenute alla redazione dello stesso, ovvero per mancanza della sottoscrizione del pubblico ufficiale che lo ha redatto, può essere dedotta, se la sentenza di primo grado si fondi anche su quell’atto a seguito della relativa produzione ad opera di una parte, come motivo di appello. Il principio di correttezza cui si accennava imporrebbe invece, in un contesto marcatamente accusatorio, che al massimo in sede di discussione le parti indichino, a pena di decadenza, le eventuali nullità od inutilizzabilità ravvisate nel materiale probatorio, in modo da porre il giudice di fronte ad almeno una certezza: la condivisione tra le parti della regolarità, e della conseguente utilizzabilità, del materiale probatorio sul quale fonderà poi la sua decisione. Una scelta di campo in tal senso ridurrebbe di molto il rischio di regressione del processo a fasi antecedenti e dunque, in ultima analisi, varrebbe a contenerne la durata in termini ragionevoli.

§ 7.       Anche le questioni di competenza non di rado comportano notevoli allungamenti nei tempi processuali perché, sollevate in limine litis e superate frettolosamente dal giudice di prime cure, si convertono poi in altrettanti motivi di appello o di ricorso per cassazione, con l’effetto perverso di far regredire il processo alle battute iniziali dopo cinque o sei anni dal suo avvio, naturalmente con gli imputati ormai latitanti o comunque con la prescrizione alle porte.

La recente riforma sul giudice unico si è in parte mossa proprio in questa direzione, eliminando il riparto di competenza tra Tribunali e Preture e riducendo correlativamente il numero di eccezioni sollevate al riguardo. Il problema, tuttavia, resta integro soprattutto con riguardo alla competenza per territorio, e si pone in maggior misura in relazione alle pronunce che affermano la competenza del giudice, disattendendo la relativa eccezione di parte. In caso di accoglimento della stessa, invero, il giudice ad quem può trattenere il processo, togliendo ogni rilievo alla questione, oppure sollevare conflitto, provocando una decisione in tempi brevi della Corte di Cassazione che ha l’effetto di regolare la competenza una volta per tutte togliendo definitivamente spazio alla questione.

Se invece il giudice trattiene il processo affermando la propria competenza per territorio, l’eccezione originariamente sollevata viene di fatto a minare l’esito di quella e di tutte le successive fasi processuali, in mancanza di un rimedio che, analogamente al conflitto di competenza, possa provocare una parola definitiva sul punto da parte della Corte di Cassazione. Senza voler formulare proposte concrete od assumere posizioni ben definite, trattandosi di materia assai delicata in quanto le linee di tendenza dell’ordinamento processuale penale sembrano dirigersi verso l’opposto obbiettivo del contenimento delle procedure incidentali in genere e di quelle di legittimità in particolare, potrebbe però pensarsi, con una sortita nel campo civilistico, ad una specie di regolamento facoltativo di competenza: qualora il giudice ritenga, nel suo prudente apprezzamento, che l’eccezione di parte sulla propria competenza non sia platealmente infondata ma meriti un’immediata decisione definitiva, ad evitare i rischi di cui si diceva potrebbe investirne la Corte di Cassazione che, nelle snelle forme camerali già previste per il conflitto di competenza dall’art. 32 c.p.p., risolverebbe la questione nel giro di pochi mesi.

Quanto all’incidenza di tale procedura incidentale sul processo in corso, nulla osterebbe ad un’applicazione in via analogica degli artt. 30, ultimo comma, e 32, ultimo comma, c.p.p., che già prevedono per i casi di conflitto l’effetto non sospensivo dell’ordinanza e la conservazione dell’efficacia delle prove già acquisite dal giudice eventualmente dichiarato incompetente.

§ 8.       Passando al concreto svolgimento dell’istruzione dibattimentale, non v’è dubbio che questa non possa in alcun modo essere compressa, nemmeno nell’ottica di un recupero di celerità alla luce del nuovo testo dell’art. 111 della Costituzione.

Va segnalato, tuttavia, che l’eliminazione di alcuni inconvenienti potrebbe condurre ad una proficua accelerazione del processo senza sacrifici in termini di garanzie per l’imputato e di accuratezza nella raccolta del materiale probatorio, oltre che al recupero di una più elevata dignità per tutti i protagonisti del processo penale.

Partendo da quest’ultimo inciso, è pacifico che una delle principali ragioni di rinvio dei processi di primo grado, e dunque della loro complessiva lentezza, sia l’assenza dei testimoni, dovuta spesso a problemi di notificazione o al fatto che deliberatamente non si presentano in udienza. Mentre, per il primo aspetto, va affermata con forza l’esigenza di un effettivo recupero di funzionalità del servizio reso dagli Ufficiali giudiziari, il secondo profilo merita qualche riflessione critica ad ampio raggio.

Una prima parte di responsabilità del fenomeno va attribuita agli stessi giudici: l’organizzazione caotica delle udienze, la mancata indicazione di un orario - ancorchè inteso con una certa elasticità - per la trattazione del singolo dibattimento, la mancata verifica, prima dell’udienza, della sussistenza di tutte le condizioni per la trattazione di ogni processo fa sì che i testimoni maturino ostilità verso il Tribunale. Si pensi ai numerosi casi in cui un teste, magari dopo aver affrontato i fastidi di un lungo viaggio, si presenti puntuale alle 9.00 e si senta dire dopo quattro ore, trascorse in locali angusti e magari a contatto con gli imputati o i loro congiunti, che il processo è rinviato per un vizio di notifica, per un malanno dell’imputato o per un impedimento del difensore non comunicati in precedenza, sì da consentire una pronta controcitazione: disagi che si amplificano a dismisura soprattutto nei processi per delitti a sfondo sessuale, quando il teste da esaminare, ancor più se minorenne, coincide con la persona offesa dal reato.

Manca, insomma, una cultura dell’accoglienza del testimone, che pure si vede calato dalla società civile in un ambiente burocratico e curialesco: ed è anche su profili organizzativi come questi che dovrà, in futuro, misurarsi la professionalità dei magistrati e la capacità dei dirigenti degli uffici.

§ 9.        Non può negarsi, per altro verso, che molti rinvii siano da imputarsi all’attuale assetto della professione forense, tuttora esercitabile anche in forma individuale: ciò che potrebbe, in ipotesi, consentire ad un avvocato che lavori da solo di chiedere una serie infinita di rinvii per legittimo impedimento professionale, tanti quanti i processi che decida di sostenere e che vengano inevitabilmente a sovrapporsi tra loro. E’ evidente che l’esigenza di garantire speditezza al giudizio, che pure dev’essere ragionevolmente compressa in nome dell’approfondimento istruttorio e delle garanzie della difesa, non può essere sacrificata sull’altare di un interesse strettamente professionale e dunque privatistico; ed ancor meno potrà esserlo per il futuro, se è vero che la ragionevole durata di cui all’art. 111 della Costituzione. dovrà pure essere garantita con il concorso di tutti i soggetti coinvolti nel processo penale, e dunque anche degli avvocati.

Senza entrare nel complesso tema delle forme di esercizio della professione forense, da tempo al centro di un serrato dibattito per le sue delicatissime implicazioni, potrebbe però suggerirsi un accorgimento di semplice ed immediata attuazione: trasformare, cioè, in obbligo la facoltà per il difensore di nominare un sostituto a norma dell’art. 102 c.p.p., con eventuale reciprocità rispetto ad altro difensore impegnato nel medesimo processo, in modo da limitare i rinvii per legittimo impedimento del titolare a quelli effettivamente necessari per l’esercizio del diritto di difesa (ad esempio, nei processi con numerosi imputati non pare necessaria la presenza indefettibile di tutti i difensori "titolari" per assistere all’esame di soggetti ammessi soltanto in relazione a specifiche posizioni processuali oppure per ascoltare la requisitoria e le arringhe, trattandosi di attività in qualche modo "passive" che non sembrano esigere la presenza del dominus piuttosto che quella del sostituto).

E’ peraltro auspicabile, nella stessa direzione, un intervento normativo che disciplini con precisione tempi e modalità con cui dedurre il medesimo impedimento professionale del difensore, per sottrarre l’istituto ai pur sempre mutevoli orientamenti della giurisprudenza e soprattutto per conferirgli uniforme ambito di efficacia sul territorio nazionale: mentre la valutazione dell’impedimento dell’imputato, invero, è questione eminentemente discrezionale che sfugge ad ogni codificazione, l’impedimento professionale del difensore ha connotazioni tecnico-giuridiche che non possono essere rimesse al volere del singolo giudice, con evidenti disparità di trattamento addirittura all’interno di uno stesso circondario.

§ 10.              Da ultimo, per concludere sui possibili spazi di un’effettiva "accelerazione" del dibattimento, vanno segnalati i ritardi connessi alla necessità della rinnovazione degli atti a seguito del mutamento nella composizione del collegio, che paiono evitabili con una diversa disciplina. E’ pur vero, in linea astratta, che la non identità tra giudice della prova e giudice della decisione verrebbe ad incidere sul rispetto del principio di oralità del processo, ma non si vede per quale motivo le prove già raccolte da un diverso collegio nell’ambito dello stesso processo debbano essere considerate in maniera diversa, ed in senso deteriore, rispetto a quelle assunte in un altro giudizio. Oggi, a norma dell’art. 238 c.p.p., può procedersi all’acquisizione dei verbali di prova assunti, nella pienezza del contraddittorio, in un altro procedimento: ed allora quel è la ratio dell’inutilizzabilità che colpisce, invece, gli atti assunti nello stesso giudizio ma da un diverso collegio? Perchè condizionarne l’acquisizione al consenso delle parti, ed obbligare il "nuovo" collegio a ripercorrere lo stesso itinerario istruttorio con un inevitabile allungamento dei tempi del processo, quando analoga rinnovazione non è prevista per le prove raccolte addirittura nell’ambito di un procedimento diverso?

Non manca, peraltro, una possibile soluzione normativa interna al sistema, idonea a superare i contrasti giurisprudenziali verificatisi al riguardo: la l. 652/1996, introdotta a seguito di una delle modifiche costituzionali dell’art. 34 c.p.p. sulle incompatibilità, prevede espressamente l’acquisizione del materiale istruttorio raccolto con il concorso del giudice astenutosi o ricusato perché incompatibile, fatta salva la facoltà del nuovo collegio di disporre la rinnovazione di singoli atti probatori ove ritenuto necessario secondo un prudente apprezzamento, di cui peraltro deve darsi conto in motivazione. Un’estensione di tale disciplina normativa a tutti i casi di mutamento del giudice monocratico o collegiale (per trasferimento, aspettativa od altro), e non solo a quelli conseguenti all’astensione od alla ricusazione per incompatibilità, non pare irragionevole, ed anzi sarebbe del tutto coerente proprio con il nuovo principio costituzionale che impone un equilibrato contenimento dei tempi processuali.

§ 11.              Un cenno va fatto anche al problema della motivazione, la cui stesura può comportare tempi così lunghi da risultare superiori al termine massimo di 90  giorni previsto dall’art. 544 c.p.p. e da determinare la scadenza degli stessi termini di custodia cautelare, con il rischio di vedere poi pronunciare in appello sentenze di condanna per gravissimi reati di fronte a gabbie vuote. In un sistema accusatorio, improntato al pieno rispetto del contraddittorio ed all’oralità del processo, il valore della motivazione non dovrebbe essere smisurato come accade nel nostro ordinamento, in cui può capitare di dover attendere degli anni per vedere l’irrevocabilità di una sentenza soltanto perché il giudice di appello può avere sbagliato un passaggio della motivazione: di qui il ricorso per cassazione, il giudizio di rinvio e magari una sentenza di tenore identico a quella annullata, anche se meglio motivata.

E’ in un sistema a connotazione più marcatamente inquisitoria che nella motivazione va espresso tutto il percorso logico seguito dal giudice nell’estrapolare una certa decisione dal materiale probatorio, formatosi nel chiuso degli uffici del P.M.: quando invece la prova scaturisce dal contraddittorio tra le parti, non dovrebbero occorrere particolari esercizi di retorica per dimostrare che una pronuncia di assoluzione o di condanna riposa su questa o quella risultanza istruttoria. Tuttavia va fatta una considerazione di fondo: nel momento in cui la riforma recentemente varata con la cd. Carotti mostra di privilegiare un accesso ad nutum al rito abbreviato, indirettamente auspicando una deflazione delle pendenze per tale via, deve inferirsene la necessità di continuare a stendere motivazioni approfondite, trattandosi di dare conto di valutazioni relative a materiale per lo più contenuto nel fascicolo del P.M. e dunque di natura spiccatamente inquisitoria.

Resta, comunque, l’opportunità di una nuova meditazione complessiva su struttura e finalità della motivazione dei provvedimenti giudiziari, anche per gli inevitabili riflessi che ne derivano sui motivi di ricorso per cassazione e quindi, indirettamente, ancora una volta sulla complessiva durata del processo penale.

§ 12.              Se la riforma del giudice unico si propone, tra gli altri, lo scopo di recuperare risorse da impiegare nello smaltimento di una maggiore mole di lavoro, non foss’altro perché per molti reati prima trattati dal collegio per il futuro basterà un solo giudice, non v’è dubbio che ogni sforzo di accelerazione dei tempi della giustizia sarà destinato a restare vano se non si affronta il problema delle impugnazioni, il vero pozzo senza fondo della giustizia italiana. Basti pensare, al riguardo, che per reati puniti con pene inferiori nel massimo a cinque anni di reclusione è oggi sufficiente proporre appello avverso la decisione di condanna, anche se manifestamente infondato ed a scopo puramente dilatorio, per avere la certezza quasi matematica di raggiungere la meta salvifica della prescrizione.

Le Corti di appello sono infatti intasate di fascicoli, ed ormai trascorrono anni tra la data della decisione impugnata e la celebrazione del giudizio di secondo grado; sarebbe forse utile, a tale proposito, che i dirigenti delle stesse istituiscano degli uffici spoglio per una prima valutazione dei singoli appelli, in modo da calibrare secondo criteri prestabiliti - individuati in sede tabellare, ad evitare fenomeni di casualità o, peggio, di "sepoltura" di fascicoli per fini non commendevoli - la composizione delle singole udienze davanti alle varie sezioni, evitando così di sprecare tempo e risorse per trattare appelli inammissibili ovvero reati estinti per prescrizione o per morte del reo. Lo stesso ufficio, ricoperto in maniera turnaria dai giudici con parziale esenzione dal lavoro ordinario, potrebbe peraltro verificare subito la corretta notifica dei decreti di citazione, oggi rimessa di fatto alle cancellerie: con l’inquietante conseguenza che, nel caso in cui un vizio di notifica venga ad essere rilevato solo in sede di udienza, spesso la reiterazione dell’atto può essere già superflua di fronte ad una prescrizione incombente o nel frattempo già maturata.

Più in generale, non sembra possibile un’abolizione tout court del secondo grado di giudizio, che pure di recente è stata ventilata nell’ambito del dibattito in corso all’interno della stessa magistratura. Una soluzione del genere è troppo lontana dalla nostra tradizione e dalla cultura giuridica del nostro Paese per trovare accoglimento, tenuto anche conto che la notevole estensione dell’operatività del giudice monocratico, con l’oggettiva perdita della garanzia connessa alla collegialità, può ben essere compensata proprio dal mantenimento di un controllo di merito ad opera di un altro giudice, stavolta collegiale.

Il problema, tuttavia, è di riservare tale controllo ai casi in cui ciò risponda ad un’effettiva necessità, nei quali l’allungamento dei tempi connessi ad un secondo grado di giudizio sia giustificato dall’esigenza di una maggiore ponderatezza della decisione: ed è chiaro che quest’ultima dipende dalla gravità delle conseguenze connesse alla decisione medesima.

Il legislatore ha già mostrato, recentemente, di volersi muovere su questa linea: alla preesistente inammissibilità dell’appello per le condanne alla pena della sola ammenda è stata affiancata quella per le condanne alla multa, con un forte ridimensionamento dell’area delle decisioni appellabili. C’è stata qualche critica, è vero, soprattutto con riguardo ai profili risarcitori connessi alle pronunce in tema di diffamazione a mezzo stampa: ma non va dimenticato che se l’imputato condannato non potrà gravarsi nel merito contro la sentenza di condanna, nemmeno il P.M. potrà farlo contro la sentenza di assoluzione, in un equilibrio complessivo sul cui sfondo, comunque, resta la considerazione che il giudizio di primo grado si svolgerà nella pienezza del contraddittorio e ad armi pari.

§ 13.              In prospettiva sembra difficile, peraltro, un’ulteriore riduzione dell’area delle decisioni appellabili. Il vero problema, semmai, è quello di una nuova disciplina dell’appello che lo privi di quei caratteri puramente ripetitivi di valutazioni ed attività già svolte in primo grado per trasformarlo in uno strumento di mero controllo esterno rispetto ad un accertamento compiutamente svolto nel giudizio di primo grado, ormai - dopo le norme sul "giusto processo" - decisamente informato al principio del contraddittorio nella formazione della prova.

In particolare, non sembra più ragionevole - nell’ottica dell’art. 111 della Costituzione - consentire all’appellante di chiedere la riassunzione di prove già acquisite nel dibattimento di primo grado: se le norme sul cd. "giusto processo" hanno realmente conferito al giudizio di primo grado quell’oralità e quella pienezza di contraddittorio che costituiscono l’essenza del rito accusatorio, allora non si comprende per quale motivo debba restare inalterata la possibilità di esperire nuovamente prove già assunte, con l’inevitabile corollario dell’allungamento dei tempi processuali. E’ vero che i controlli per evitare errori giudiziari non basterebbero mai, ma occorrerà pur mettere un punto fermo tra le opposte esigenze di celerità e ponderatezza, se si vorrà adempiere al dettato costituzionale del novellato art. 111.

La rinnovazione dell’istruzione dibattimentale potrebbe così essere ristretta ai soli casi in cui la parte chieda l’assunzione di prove "nuove": non solo rispetto al giudizio di primo grado, come deve intendersi sulla base dell’attuale testo dell’art. 603 c.p.p., ma anche rispetto alle conoscenze della stessa parte appellante. Per quei principi di lealtà e correttezza processuale di cui si diceva (v. supra, 5.), non pare ragionevole, infatti, che ad una parte sia consentito chiedere per la prima volta al giudice di appello di assumere mezzi probatori che, sebbene ad essa noti nel corso del giudizio di primo grado, non siano stati a suo tempo dedotti nemmeno sotto il profilo di un sollecito dei poteri officiosi del giudice ex art. 507 c.p.p.. Un’affermazione, quest’ultima, che com’è ovvio riguarda sia l’imputato che il P.M., in qualche modo obbligati da una preclusione di questo tipo a dare fondo nel giudizio di primo grado a tutte le risorse probatorie a propria disposizione, a pena di decadenza.

Un’ulteriore snellimento del giudizio di appello potrebbe derivare da una qualche forma di tipizzazione dei profili oggettivi di tale impugnazione: una questione da tempo oggetto di un vivace dibattito dottrinale e giurisprudenziale e che non sembra aver ancora trovato risposte definitive. Il problema può essere correttamente inquadrato alla luce di un esempio: l’appello in materia cautelare, previsto dall’art. 310 c.p.p., non consente di dedurre per la prima volta davanti al Tribunale per il riesame questioni che non siano già state devolute al giudice di prime cure nell’istanza da questi rigettata, e ciò per intuitive ragioni di economia processuale. Se una regola di giudizio analoga fosse introdotta anche in materia di giudizio di cognizione ordinaria, il processo di primo grado ne guadagnerebbe senz’altro in termini di completezza: nessun imputato o P.M. tralascerebbe di formulare dinanzi al Tribunale richieste che poi, ove omesse, non sarebbero proponibili ex novo dinanzi alla Corte d’appello, con evidente risparmio di tempo e risorse.

La questione, però, è complicata dall’ampiezza del thema decidendum che può essere devoluto al giudice di secondo grado nei motivi di appello: nel senso che non può certo pretendersi, a meno di non snaturare l’istituto, di tipizzare le ragioni dedotte in primo grado a sostegno dell’innocenza dell’imputato per poi tramutarle, verbale d’udienza alla mano, in altrettanti motivi di appello. Quello che è possibile, tuttavia, è separare dal nucleo centrale della responsabilità dell’imputato alcuni profili più strettamente processuali, come quelli attinenti alla nullità od alla inutilizzabilità di un determinato atto: come si è già accennato (v. supra, 6.), potrebbe utilmente prevedersi che queste siano deducibili come motivi di appello soltanto ove già eccepite in primo grado al più tardi nel corso della discussione, in modo da prevenire il più possibile la regressione del procedimento ed il conseguente protrarsi della sua durata.

Da ultimo, va segnalata - tra le cause della strutturale inefficienza del giudizio di appello - anche la soppressione, coeva al codice dell’89, della dichiarazione d’inammissibilità dell’impugnazione da parte del giudice a quo, prima prevista dal "vecchio" art. 207 c.p.p. nella forma dell’ordinanza ricorribile per cassazione: nell’ottica di un’accentuata eliminazione degli intralci e degli intoppi che si frappongono ad un proficuo impiego di tempo e risorse soltanto su questioni sostanziali, e non per aggirare manovre dilatorie e defatigatorie, è indubbio che quanto più venga ad essere anticipato lo stralcio degli appelli inammissibili - ovviamente da parte di un giudice fisicamente individuato in un soggetto diverso da quello che ha pronunciato la decisione impugnata - tanto più celere sarebbe la trattazione degli appelli "veri", con un generale recupero di celerità ed efficienza.

§ 14.              Anche la disciplina del ricorso per cassazione dovrebbe essere ritoccata a seguito dell’introduzione nella carta costituzionale del principio della ragionevole durata del processo: pur dovendosi sottolineare che, fra tutte le fasi del giudizio penale, quella dinanzi alla Cassazione è attualmente la più incisiva in termini di prontezza e funzionalità, l’enorme mole di lavoro che si riversa sulla Corte impone l’adozione di qualche correttivo, peraltro già segnalato di recente dalla stessa Assemblea dei suoi giudici.

Un primo profilo riguarda i ricorsi incentrati sui vizi di motivazione del provvedimento impugnato: ferma l’intangibilità di quello relativo alla mancanza di motivazione, che impedisce qualsiasi controllo sul percorso logico seguito dai giudici nella scelta della soluzione di merito adottata, potrebbe forse ridiscutersi l’opportunità di mantenere, quale motivo di ricorso, la manifesta illogicità della motivazione. Il tema è da tempo dibattuto in dottrina ed all’interno della stessa magistratura: tuttavia non sembra configurabile una logica "assoluta" alla cui stregua verificare la correttezza delle opzioni effettuate dai giudici di merito. Il rischio, in sostanza, è quello di sovrapporre la "propria" logica a quella seguita dal giudice della decisione impugnata, con un’inevitabile penetrazione nel merito della vicenda che può condurre addirittura ad un terzo grado di giudizio. Il tutto senza contare che l’annullamento di una sentenza con rinvio ad altro giudice, soltanto per sentire confermare la condanna o l’assoluzione con una motivazione diversa e più appropriata, è forse diventato un lusso al quale oggi potrebbe anche rinunciarsi, in un mutato quadro costituzionale che obbliga tutti i soggetti del processo ad adoperarsi perché questo abbia una durata ragionevolmente contenuta. Altro sarebbe, invece, se l’istituto fosse rimasto nell’alveo che gli è proprio, cioè quello della verifica della coerenza interna del provvedimento impugnato: è chiaro che non basterebbe il vizio di mancanza di motivazione per cassare una sentenza di condanna che sia stata motivata come un’assoluzione, oppure un provvedimento giudiziario che consista in un collage di frasi sconnesso e privo di senso. Ove intesa dalla stessa giurisprudenza in senso letterale e restrittivo, dunque, la manifesta illogicità della motivazione manterrebbe una sua importante funzione "di chiusura" del sistema, restando saldamente ancorata al terreno della legittimità che le è proprio.

E’ poi auspicabile l’introduzione di una sorta di "filtro" che consenta alla Corte di decidere in pubblica udienza, nel contraddittorio tra le parti, soltanto i ricorsi che pongano questioni di diritto di particolare rilevanza, introducendo per gli altri ricorsi una procedura semplificata che veda una maggiore utilizzazione della scrittura oppure un più snello collegio composto da tre e non da cinque giudici, in modo da incrementare ulteriormente la già elevata produttività della Corte.

Più nello specifico, andrebbe poi razionalizzata la possibilità, oggi indiscriminata, di proporre ricorso per cassazione avverso ogni sorta di provvedimento giurisdizionale: l’ordinamento prevede che una serie di provvedimenti privi della natura di sentenza e non incidenti sulla libertà personale (i decreti di archiviazione, le ordinanze in materia di sequestro, l’ordinanza di diniego della revoca di sentenza di non luogo a procedere e le ordinanze in materia di sospensione del processo) siano sempre soggetti a ricorso per cassazione, ben al di là dell’espressa previsione contenuta nell’art. 111 della Costituzione. Non sembra irragionevole, dunque, alleviare il già ponderoso carico di lavoro della Suprema Corte prevedendo per quei provvedimenti la possibilità di proporre alle Corti territoriali un appello fondato esclusivamente su ragioni di legittimità. Né una soluzione del genere deve far temere, per tale via, la successiva instaurazione di un sistema di "Corti regionali di cassazione"; anzi, un’interessante linea di tendenza del sistema delle impugnazioni potrebbe essere proprio questa: concentrare presso la Corte di Cassazione i soli profili di legittimità che attengano all’uniforme interpretazione del diritto sull’intero territorio nazionale e decentrare presso le Corti di appello i profili di legittimità preposti soltanto a garanzia delle parti.

Quanto alle sentenze di applicazione della pena, oggi è possibile paralizzarne l’efficacia anche con un ricorso platealmente infondato e spudoratamente dilatorio, in quanto nel tempo occorrente alla sua trattazione - sia pure finalizzata alla mera declaratoria d’inammissibilità - la pena concordata viene ad essere di fatto espiata nelle più favorevoli condizioni degli arresti domiciliari. In armonia con quanto accennato poc’anzi a proposito dell’appello, sarebbe forse utile prevedere in primo luogo la possibilità per lo stesso giudice a quo, diverso da quello che abbia emesso il provvedimento, di dichiarare la manifesta inammissibilità del ricorso. Per altro verso, potrebbe poi introdursi una preclusione per quei motivi di nullità che non abbiano già formato oggetto di una specifica istanza od eccezione dinanzi al giudice di prime cure: ad esempio, se lo stesso imputato, nell’istanza di applicazione della pena, mostra di non curarsi nemmeno dell’astratta possibilità di essere prosciolto con una più favorevole sentenza ex art. 129 c.p.p., non si vede perché debba essergli consentito, come accade attualmente, di impugnare la sentenza da lui stesso richiesta per mancanza di motivazione su quello specifico profilo, di fatto non approfondito dal giudice perché - a ragion veduta - ritenuto privo di interesse per le parti.

Sul piano delle prassi giudiziarie, infine, vanno segnalati i gravi inconvenienti connessi alla frequentissima proposizione di istanze de libertate nelle more del giudizio di cassazione: la conseguente impugnazione al Tribunale per il riesame comporta la necessità di recuperare il fascicolo per trasmettere gli atti come prevedono gli artt. 309 e 310 c.p.p., ma deve constatarsi che in qualche caso ciò comporta un’inammissibile paralisi del giudizio di legittimità per il fatto che le Cancellerie della Cassazione trasmettono alle Corti territoriali il fascicolo in originale, con ciò precludendo la trattazione del ricorso. A loro volta le Corti si guardano bene, per lo più, dall’estrarre copia degli atti e restituire prontamente il fascicolo, che resta nei loro uffici ad eventuale disposizione dei giudici del riesame: il tutto nell’arco di tempo di due o tre mesi che, alle porte del termine massimo di custodia cautelare, può significare la libertà dell’imputato e la sua successiva latitanza, mentre basterebbe - con un minimo aggravio di lavoro - una serie di fotocopie per evitare un rischio del genere.

§ 15.              Con quest’ultimo argomento si è sfiorato il tema, anch’esso al centro di un vivacissimo dibattito, dell’eventuale esecutorietà della sentenza di appello. Va subito detto che la presenza nel nostro ordinamento della presunzione d’innocenza di cui all’art. 27 Cost. pare incompatibile con qualsiasi ipotesi di generalizzata esecutorietà della sentenza prima che questa sia divenuta irrevocabile, per cui il problema va impostato in termini diversi e schiettamente individualizzati, avuto riguardo alla specificità del singolo reato oggetto di condanna almeno in grado di appello ed a conferma di quella resa in primo grado.

Occorre, in altri termini, prendere atto che quella stessa presunzione di innocenza fino alla sentenza irrevocabile è pur sempre una presunzione, suscettibile cioè di una certa graduazione: ad esempio, sarà fortissima nella fase delle indagini, un po’ meno dopo il rinvio a giudizio, meno ancora dopo una condanna in primo grado e decisamente flebile dopo una conferma della stessa in appello. Quello che resta, a tutti gli effetti, un presunto innocente anche in quest’ultimo caso risulterebbe, nondimeno, gravato da una mole di elementi probatori tale da giustificare la sua doppia condanna, che la Cassazione potrebbe annullare esclusivamente per ragioni formali e senza entrare nel merito.

Tale assetto pare compatibile, dunque, con un regime cautelare fortemente differenziato rispetto a quello ordinario, nel quale al giudice d’appello sia non consentita ma imposta, contestualmente alla propria decisione di merito, l’adozione della misura cautelare ritenuta più opportuna in considerazione della pena in concreto irrogata, a meno che sussistano precise ragioni contrarie da motivare specificamente. In tal guisa la generalizzata presunzione di non colpevolezza non verrebbe meno per l’applicazione della misura cautelare: la vera novità sarebbe allora costituita dall’inversione non di quella presunzione, ma dell’ordinario regime cautelare, ampiamente giustificata sia dalla doppia valutazione conforme degli elementi a carico, sia dalla pericolosità desumibile dalla pena irrogata in concreto - da ancorare, ovviamente, a parametri di una certa gravità -.

Altra strada potrebbe invece essere quella di modificare il capoverso dell’art. 275 c.p.p., estendendo il necessario giudizio di proporzionalità della misura cautelare dall’entità del fatto e dalla sanzione irroganda allo stato ed al grado del procedimento: non può considerarsi allo stesso modo "cautelare", per vero, la custodia di chi si trovi in attesa di giudizio e di chi, invece, abbia già subìto due condanne e si trovi ad un passo dall’irrevocabilità di quella d’appello. 

 

§ 16.              A conclusione di questo excursus non può non farsi cenno ad un tema che può apparire soltanto indirettamente collegato alla ragionevole durata del processo, ma che in realtà costituisce il rovescio della medaglia dell’attuale lentezza e farraginosità del sistema giudiziario penale: la prescrizione. Anzi, può porsi tra i due concetti una sorta di relazione biunivoca, nel senso che, fino a quando resterà immutata l’aspettativa della prescrizione, l’intera modifica processuale prevista dalla Carotti e fondata soprattutto sul consenso dell’imputato (all’abbreviato, al patteggiamento, all’utilizzabilità degli atti) rischierà di crollare.

Ciò non può significare, com’è fin troppo ovvio, che la durata della prescrizione debba essere sintonizzata sull’attuale durata, esasperatamente lunga, del processo: una soluzione del genere avrebbe il sapore dell’ipocrisia, perché sarebbe una dimostrazione di impotenza ed attesterebbe il sostanziale fallimento proprio dello spirito riformatore sotteso al principio della ragionevole durata.

Ed allora si tratta, piuttosto, di operare quei minimi adeguamenti che consentano di restituire all’istituto della prescrizione i suoi connotati di civile baluardo a tutela dell’imputato dallo strapotere dell’Autorità Giudiziaria, libera altrimenti di perseguire penalmente fatti che, per il decorso di un cospicuo lasso di tempo, abbiano ormai perso ogni attuale profilo di pericolosità sociale. Per altro verso, va disincentivata la "rincorsa" alla prescrizione cui pure spesso si assiste nelle aule di giustizia, con la proposizione di impugnazioni puramente dilatorie e defatigatorie dirette al solo scopo di guadagnare quel all’imputato quel beneficio, con un’evidente strumentalizzazione delle finalità proprie dell’istituto.

Ed allora, sul piano sostanziale che meno si presta ad interventi troppo invasivi - perché comunque la loro efficacia non potrebbe essere retroattiva, integrando una garanzia rilevante ex art. 2 c.p. - potrebbe essere sufficiente una semplice rilettura del criterio di determinazione del tempo necessario a prescrivere di cui al 2° comma dell’art. 157 c.p.. La norma è rimasta sostanzialmente intatta dal 1930, nonostante le rilevanti modifiche intercorse prima in tema di disciplina delle circostanze del reato e poi in termini di regole per la determinazione della competenza sulla scorta della gravità delle pene edittali: si pensi che, mentre per il computo della prescrizione si tiene conto anche delle circostanze attenuanti generiche, per determinare la competenza del giudice ex art. 4 c.p.p. oppure la possibilità di adottare misure cautelari ex art. 278 c.p.p. si tiene conto delle sole circostanze per le quali la legge stabilisce una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato e di quelle ad effetto speciale.

Senza arrivare a tanto, basterebbe escludere dal novero delle circostanze utili a determinare il tempo necessario a prescrivere le sole attenuanti generiche, il cui computo appare privo di qualsiasi fondamento. Se infatti il parametro del massimo aumento per le aggravanti e della minima diminuzione per le attenuanti esprime su un piano assolutamente oggettivo la gravità intrinseca del reato ai fini della prescrizione, tanto da prenderne in esame - con una fictio juris - ogni aspetto anche circostanziale, non si vede quale ruolo svolgano in tale contesto le attenuanti generiche, manifestamente incentrate sul piano soggettivo e prive di sostanziale rilievo ai fini di ogni altro istituto processuale che non sia preposto alla determinazione della pena. Se si considera che non è raro veder concedere le attenuanti generiche, in mancanza di altri elementi, al solo fine palesemente equitativo di adeguare il trattamento sanzionatorio alla personalità del reo, al di là delle connotazioni oggettive ed edittali del fatto-reato, allora balza evidente l’inconferenza di tale parametro nel contesto dell’art. 157, 2° comma, c.p.: il riconoscimento - spesso addirittura "virtuale" ed anticipato, come prevede, non a caso in chiave deflattiva, il recente art. 226 del D.Lgs. 51/1998 - delle attenuanti generiche può dunque avere oggi la valenza ambigua di un atto di clemenza del tutto discrezionale da parte del giudice, cui in sostanza si conferisce il potere di decidere ad nutum se un imputato debba essere perseguito ovvero sottratto all’azione penale per il decorso del tempo.

La pratica conseguenza della soluzione qui proposta avrebbe il pregio di attrarre all’area della prescrizione decennale fatti di notevole allarme sociale: si pensi, per tutti, all’omicidio colposo plurimo, alla truffa aggravata ai danni dello Stato ed alle lesioni volontarie gravissime, che per effetto della concessione delle attenuanti generiche vengono di fatto parificati - sotto il profilo del tempo necessario a prescrivere - ad un reato punibile con la sola multa quale l’ingiuria.

Sotto il profilo processuale, invece, diverse sono le possibili opzioni per razionalizzare l’incidenza del susseguirsi delle vicende processuali sulla durata del tempo necessario a prescrivere. Da taluni si auspica una definitiva interruzione del corso della prescrizione con la condanna di primo grado, che rappresenterebbe una sufficiente attestazione dell’interesse dello Stato a perseguire quel fatto rispetto alla quale sarebbero irrilevanti i successivi sviluppi del processo, legati per lo più a meccanismi attivati dall’imputato. Le forti obiezioni sollevate dall’Avvocatura ad una soluzione del genere sono forse superabili mantenendosi sul più elastico piano della sospensione del corso della prescrizione, la cui disciplina presenta già nell’attuale assetto qualche interessante spunto di interesse.

In particolare, creando un più netto parallelismo tra l’art. 159 c.p., già novellato in senso estensivo nel 1995, e l’art. 304 c.p.p. sulla sospensione dei termini di custodia cautelare, potrebbe prevedersi che la sospensione della prescrizione - che però dovrebbe essere pronunciata con un’apposita ordinanza poi soggetta a revoca, ad evitare che i complessi calcoli ad essa conseguenti si perdano nella mole dei documenti volta a volta inseriti nel fascicolo - operi nei casi in cui la sospensione dei termini di custodia cautelare sia prevista - e non soltanto imposta, come recita oggi l’art. 159 c.p. - da una particolare disposizione di legge.

Per tale via si porrebbe forse un freno a molte tecniche anche indirettamente dilatorie che oggi vengono sostanzialmente "premiate" dall’avvicinarsi della prescrizione, e che sono richiamate nel primo comma del citato art. 304: il rinvio del dibattimento per impedimento o su richiesta dell’imputato o del suo difensore, semprechè non supportato da esigenze istruttorie o di garanzia; il rinvio del dibattimento per la mancata presentazione, l’allontanamento o la mancata partecipazione all’udienza di uno o più difensori che rendano privo di assistenza uno o più imputati - e qui potrebbe introdursi, in una alla disciplina dell’astensione dalle udienze degli avvocati, una specifica ipotesi ulteriore che preveda in tal caso la sospensione del corso della prescrizione fino alla materiale ripresa del processo, quale indefettibile "contropartita" di tale forma di sciopero altrimenti privo di costi per l’imputato -; la pendenza del termine previsto dall’art. 544 c.p.p. per il deposito delle motivazioni della sentenza di primo e secondo grado, simmetricamente a quanto già previsto per la ben più grave sospensione dei termini di durata massima della custodia cautelare.

Va infine segnalata, nella stessa ottica di arginare le tante impugnazioni meramente strumentali, la proposta del collega Nappi di modifica dell’art. 129 c.p.p. la quale, senza incidere sul piano dell’irrevocabilità della sentenza - ad evitare che ne risultino impedite, insieme con le impugnazioni defatigatorie, anche quelle che integrano il legittimo esercizio del diritto di difesa -, si limiti a prevedere che l’estinzione del reato per prescrizione, ove sopravvenuta alla sentenza impugnata, non possa essere dichiarata dal giudice di appello o dalla Corte di cassazione quando l’impugnazione risulti inammissibile. In tal modo, invero, nessuno avrebbe più interesse ad ingolfare le Corti di merito e quella di legittimità di impugnazioni puramente pretestuose, venendo a mancare in radice l’interesse primario ad attingere il "traguardo" della prescrizione.

Si è così cercato di porre in luce alcune tra le più rilevanti cause della troppo elevata incidenza del fattore tempo sul corso del processo penale. La conclusione che può trarsene è che senz’altro spetta alla magistratura il gravoso onere di ripensare criticamente, in chiave di maggiore celerità ed efficienza, alle modalità con cui opera ed ai criteri con cui organizza il lavoro giudiziario; è vero anche, però, che ogni sforzo in tal senso risulterà vano se il quadro normativo di riferimento, ordinamentale e processuale, non sarà reso congruente rispetto alle sue stesse linee guida e finalizzato all’obiettivo precipuo di rendere funzionale e dunque tempestivo il servizio giustizia.

                                                                          

- Massimo CUSATTI - Giudice del Tribunale di Genova - gennaio 2001

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