Alberto Cuccuru, La richiesta di procedimento del comandante di corpo

A fronte del principio secondo il quale la perseguibilità dei reati, comuni o militari, è obbligatoria, mediante l'esercizio dell'azione penale, si collocano una serie di istituti derogatori che costituiscono condizioni di punibilità e di procedibiltà: la querela, la richiesta di procedimento, l'istanza della persona offesa, l'autorizzazione a procedere.

Nell'ambito della legge penale militare assume particolare rilievo la richiesta di procedimento prevista dall'articolo 260 c.p.m.p.

La richiesta di procedimento è l'atto con cui l'autorità pubblica chiede l'instaurazione di un procedimento penale per l'accertamento di un determinato reato.

Come è noto i codici penali militari non prevedono la perseguibilità dei reati da parte della persona offesa, ritenendo che essendo l'azione penale militare diretta in via esclusiva a tutelare il servizio e la disciplina militare e in generale l'interesse dello stato, ciò stesso esclude che il suo esercizio possa dipendere dalla persona offesa o da quella danneggiata.

Nel solco di tale tradizione si è pertanto immesso l'art. 260 del c.p.m.p. secondo il quale i reati per i quali la legge stabilisce la pena non superiore nel massimo a sei mesi di reclusione militare, sono puniti a richiesta del comandante di corpo o di altro ente superiore da cui dipende il militare colpevole.

La facoltà di procedimento di cui all'art. 260 spetta esclusivamente al comandante di Corpo di appartenenza organica anche quando il militare sia temporaneamente aggregato presso altro corpo. [1]

La richiesta di procedimento è stata, ma soprattutto è, al centro di un interessante dibattito volto ad acclarare la fondatezza e la sua ammissibilità definitiva nel nostro ordinamento giuridico.

La richiesta di procedimento rinviene il suo precedente storico nei c.d. sostitutivi disciplinari del diritto penale: Per alcuni fatti la legge penale militare lasciava ai capi militari la facoltà di procedere in via disciplinare, sebbene questi fossero previsti come reati.

Con l'entrata in vigore del nuovo codice militare di pace è posto in rilievo l'aspetto della facoltà discrezionale accordata ai comandanti diretta a somministrare sanzioni disciplinari [2] oppure di provocare l'intervento dell'autorità giudiziaria. [3]

Le ragioni che hanno giustificato tale scelta legislativa sono note, si ricordi le "particolari necessità dell'ambiente militare, l'economia processuale, la esigenza di rafforzare l'autorità dei comandanti, il persistente obiettivo di risparmiare sulle traduzioni e trasferte, la volontà di far acquisire alla sanzione disciplinare una natura più repressiva ed intimidatorie. [4]

Si deve pertanto ritenere , come ha anche affermato autorevole dottrina militare, che la Commissione Ministeriale abbia ritenuto opportuno subordinare la tutela penale di certi interessi militari al preventivo apprezzamento  discrezionale dei capi militati per stabilire se essa sia particolarmente opportuna in relazione alle particolaritàdel fatto che lede, oppure se mette in pericolo quegli interessi". [5]

1.     Natura giuridica.

Il punctum dolens dell'intera questione è stato da sempre costituito dalla possibilità di riconoscere alla pretesa punitiva del comandante  il perseguimento di un interesse privatistico oppure di un interesse pubblicistico.

Una parte della dottrina  ritiene di parlare di atto che proviene da un organo amministrativo e coerentemente questo persegue un interesse pubblicistico. Con questa tesi si inquadra pertanto la richiesta del comandante come un atto amministrativo.

Il ragionamento seguito da questa dottrina ha avuto questa impostazione: l'atto amministrativo è quella manifestazione di volontà posta in essere da un'Autorità amministrativa nell'esercizio di una funzione amministrativa per un caso concreto e per destinatari determinati e determinabili.

Gli elementi sui cui si fonda questo atto sono:

a)    la presenza di una manifestazione di volontà;

b)    la rilevanza esterna, ossia la presenza di una rilevanza giuridica nei confronti di un terzo;

c)     la provenienza da unAutorità amministrativa, cioè da un organo appartenente alla pubblica amministrazione;

d)    l'esercizio della funzione amministrativa, cioè l'esercizio di poteri pubblici volti a soddisfare interessi di natura generale e non particolare o privatistica;

Secondo questa impostazione dunque la richiesta di procedimento penale costituisce sicuramente una manifestazione di volontà, proveniente da un organo amministrativo, avente rilevanza esterna, riferita ad un caso concreto e indirizzata ad un destinatario determinato.

Alla luce di quanto esposto e al fine di effettuare un'analisi critica è opportuno verificare se effettivamente ci troviamo di fronte ad un atto emanato nell'esercizio di una funzione amministrativa.

Cercando di classificare tale atto facilmente si può escludere a priori la discussione volta a rinvenire nella richiesta un'appartenenza alle macro funzioni legislativa, giurisdizionale, amministrativa e  politica o di "indirizzo politico, dal momento che questa classificazione può concernere la sola richiesta ministeriale prevista dagli atrtt. 127 e 313 c.p. [6]

Se la problematica sulla richiesta si è pertanto cristallizzata su detti orientamenti, tale situazione non può essere riscontrata circa la richiesta del Comandante di Corpo.

Infatti, dal momento gli atti politici possono essere emessi solo dal Governo, unico titolare di questa potestà. [7]

Ne consegue che la richiesta di procedimento, per questi autori, può essere soltanto annoverata ed inserita nella branca della funzione amministrativa.

Distinguendo sempre nettamente l'istituto della richiesta di procedimento dalla querela, la Corte di Cassazione ha posto l'accento sull'interesse pubblico che non si esaurisce nella punizione delle offese al servizio ed alla disciplina , ma attraverso di esse, tende, oltre  che ad assicurare la migliore efficienza delle forze armate , anche a tutelare il loro prestigio e la loro dignità evitando, sempre che sia possibile, una qualsiasi loro menomazione."

Alla luce delle superiori argomentazioni, se la richiesta di procedimento ha il carattere e la natura di atto amministativo, il difetto di una sua motivazione si pone in insanabile contrasto con gli artt. 3 e 97 della cost.

Rinviando l'esame della questione più avanti, possiamo preliminarmente soffermarci sul contenuto normativo dell'art. 97 che prevede che l'azione amministrativa venga effettuata nel rispetto dei canoni d'imparzialità e di buon andamento.

Il rispetto di tali principi comporta la necessità di un controllo successivo effettuato da un soggetto terzo che abbia la possibilità di ripercorrere il processo decisionale dell'organo amministrativo e quindi verificare il corretto esercizio discrezionale.

2. La richiesta di procedimento e la querela. Differenze ed analogie.

La richiesta di procedimento, il cui fondamento differisce da quello della querela, perché mentre in questa emergono valutazioni personali dell'offeso del reato, in quella vengono a rilevanza considerazioni di opportunità sociale o "politica" demandata all'organo amministrativo, contiene degli aspetti similari all'istituto previsto dal codice di procedura penale.

La stessa Corte di Cassazione ha costantemente affermato la natura processualistica dell'istituto della richiesta di procedimento assimilandolo per molti aspetti alla querela.

Tale associazione ha avuto in dottrina grandi avversioni, soprattutto da chi sostiene che la querela è una privata manifestazione di volontà con cui il soggetto passivo di un reato per cui non si debba procedere d'ufficio, chiede che si proceda in ordine allo stesso. [8]

La querela quindi appare come un atto essenzialmente facoltativo che persegue interessi privatistici; è rinunciabile; è revocabile. [9]

Non è legata soprattutto a particolari motivazioni o dichiarazioni direte ad esplicare l'effettiva volontà in quanto in caso contrario si provocherebbe una grave disparità di trattamento tra i soggetti più colti o benestanti, in grado di soddisfare efficacemente tale obbligo sia per gli studi compiuti sia, eventualmente, per la possibilità economica di ricorrere ad un professionista privato che predisponga l'atto di querela, rispetto achi, per la semplicità della sua istruzione e per l'impossibilità di rivolgersi ad un avvocato, proporrebbe una querela illegittima, inammissibile in quanto non motivata

Infine non va dimenticato un ulteriore aspetto caratterizzato dall'irrevocabilità della richiesta e dalla mancanza di una qualsiasi forma di autotutela dell'amministrazione e di possibilità di reclamo da parte dell'interessato.

Orbene, essendo nei reati militari sempre insita un'offesa alla disciplina e al servizio militare e , quindi, la lesione di un interesse eminentemente pubblico, che, in quanto tale, non può tollerare di rimanere subordinato così come nell'istituto della querela all'eventuale interesse privato.

Proprio su tale specifico presupposto si è preferito attribuire al Comandante di corpo, con l'istituto della richiesta de quo, una facoltà di scelta considerando che vi sono casi in cui, per la scarsa gravità del reato, l'esercizio incondizionato dell'azione penale può causare all'amministrazione difesa un pregiudizio proporzionalmente maggiore di quello prodotto dal reato stesso. [10]

Secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale la richiesta del Comandante di Corpo, necessaria ai fini della procedibilità di reati per il quale il codice penale militare di pace stabilisce la pena della reclusione militare non superiore nel massimo a mesi sei, è subordinata soltanto ai requisiti espressamente richiesti dalla legge penale sostanziale e processuale. [11]

Nel contesto ora delineato è intervenuta, in un certo modo inaspettato, la Cassazione [12] , che ha precisato che nel nostro ordinamento giuridico "non prevede alternatività " tra esercizio di potere disciplinare del Comandante di corpo e potere di richiedere azione penale per lo stesso fatto.

Per i giudici di legittimità la preclusione dell'azione penale è istituto di carattere eccezionale e, perciò, deve costituire oggetto di espressa previsione legislativa, non potendosi desumere indirettamente ed in via analogica da altre disposizioni che si riferiscono a situazioni diverse e non possono trovare applicazioni in base a generici criteri di reciprocità non stabilite normativamente.

La maggioranza degli autori ha altresì cercato una soluzione al problema costituito dall'ipotesi in cui il Comandante del corpo di appartenenza del militare sia anche la persona offesa dall'illecito.

Il problema è stato affrontato dalla Corte Costituzionale [13] la quale ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 260 co. 2, "nella parte in cui non prevede che i reati ivi previsti siano puniti a richiesta del Comandante di altro ente superiore, allorché la persona offesa coincida con il comandante di corpo.

La posizione della Corte, in questo caso, appare quindi pienamente condivisibile: il rispetto del dovere d'imparzialità e neutralità a cui deve sottendere il titolare di un potere coercitivo pubblicistico non è certamente rinunciabile.

3.     La richiesta di procedimento e l'obbligo di motivazione ex L.241/90.

L'interesse eminentemente pubblico che consente al Comandante una facoltà di scelta tra l'adozione di procedimenti di natura disciplinare ed il ricorso all'ordinaria azione penale ha posto degli interrogativi circa la necessità di conformare questa richiesta agli obblighi sanciti dalla legge 241 del 1990, ed in particolare all'obbligo di motivazione stabilito per tutti gli atti amministrativi.

Più segnatamente è legittimo domandarsi se una richiesta senza motivazione possa integrare una violazione del principio di buon andamento della P.A. per la mancanza della motivazione e quindi di un'ipotesi di assenza di imparzialità nonché uguaglianza.

Secondo alcuni autori la mancanza di motivazione si pone in contrasto con gli artt. 3 e 97 della Costituzione in quanto darebbe luogo ad un arbitrario ed insindacabile potere della persona investita del comando di attivare l'azione penale.

Un consolidato orientamento giurisprudenziale ritiene che la richiesta di procedimento, necessaria ai fini della procedibilità di reati per i quali il codice penale militare stabilisce la pena della reclusione militare non superiore nel massimo a sei mesi, è subordinata soltanto ai requisiti espressamente richiesti dalla legge penale sostanziale e processuale; tali requisiti sino la sottoscrizione dell'autorità competente, la presentazione al P.M. entro un mese dal giorno in cui la detta autorità ebbe notizia del fatto.

Pertanto pur trattandosi di atto soggettivamente amministrativo in quanto proveniente da un organo amministrativo, non può invece definirsi come atto oggettivamente amm.vo bensì come vero e proprio atto processuale, con la conseguenza che ad esso non è applicabile l'obbligo di motivazione imposto dal legislatore per tutti gli atti amministrativi direttamente incidenti su interessi sostanziali del soggetto. [14]

Per questo filone tale linea interpretativa è quindi perfettamente conforme alla ratio dell'istituto e non si pone in antitesi con i principi costituzionali. [15]

Di recente,  il quadro giurisprudenziale si è arricchito con l'apporto di una decisione della Cassazione [16] , che chiamata a decidere su un caso in cui la richiesta di procedimento appariva come illegittima, immotivata e quindi da invalidare con conseguente dichiarazione di non doversi a procedere nei confronti degli imputati, ha stabilito che il " comandante di corpo è portatore dei valori e del prestigio della collettività militare nelle sue singole articolazioni e la sua valutazione circa l'eventualità di richiedere l'azione penale nei casi previsti dalla norma è necessariamente interna, sintetica e non vincolata. Secondo la Corte la richiesta è "da ricomprendere nelle richiesta di procedimento di competenza di autorità amministrativa, che sono caratterizzate da ampia e non vincolata discrezionalità politico-amministrativo".

Diversa è il convincimento di quanti pensano che il non prevedere come obbligatoria la motivazione della richiesta di procedimento può dare luogo a disparità di trattamento apprezzabili sotto il profilo del principio di uguaglianza.

Detta tesi è stata in ogni modo disattesa dalla Corte Costituzionale [17] che ha dichiarato la manifesta infondatezza della questione di legittimità cost. dell'art. 260 in relazione agli artt. 3 e 97 cost., la quale ha affermato che al più, la discrezionalità nell'applicazione della legge può dar luogo a "mere disparità" di fatto in sé inidonee a determinare un'incostituzionalità della norma, con la conseguenza che la disciplina legislativa non appare arbitraria.

L'esigenza di apprestare rimedi efficaci contro tale situazione così controversa, è avvertita anche da molti autori e in questa prospettiva si segnala la posizione di chi ritiene che l'ipotesi contemplata dall'art. 260 dia luogo ad "inammissibili discriminazioni" in quanto per fatti identici può succedere che un militare sia punito disciplinarmente ed un altro, sulla base di una insindacabile e immotivata determinazione del comandante, sia sottoposto a procedimento penale. [18]

Il solo contemplare queste ipotesi, seppur in teoria astratte, potrebbe dare luogo ad arbitrii che mal si conciliano con i vigenti principi democratici. Ciò posto, per quanto sia doveroso accreditare a chi esercita il comando doti di imparzialità e distacco anche in caso di personale coinvolgimento come parte lesa da un reato, non può obiettivamente escludersi che l'aver subito un offesa renda più difficile l'esercizio della scelta circa la via da seguire - penale o disciplinare - per punire l'autore della condotta.

Nondimeno, il Comandante di Corpo è titolare di un potere di notevole forza che può tradursi in un formidabile strumento di pressione e di ricatto. Il militare subordinato, e pertanto tutto il personale militare in forza nell'Ente o reparto, può subire una serie di possibili arbitrii stante la possibilità per il Comandante di corpo di poter scegliere tra l'inoltro della richiesta di procedimento e al tempo stesso procedere disciplinarmente, e inoltrare la richiesta senza irrogare la sanzione disciplinare.

Si tratta di una esigenza per nulla astratta, a cui l'ordinamento dovrebbe dare soddisfazione nel concreto, perché nel concreto che gli abusi possono essere effettivi. In ordine alla questione, la Corte Costituzionale chiamata per verificare la violazione degli articoli 2 e 52 della costituzione, ha negato qualunque fondamento, dal momento che vi è un interesse, attraverso la punizione delle offese al servizio e alla disciplina, ad "assicurare la migliore efficienza della Forze armate alla tutela del loro prestigio e dignità". [19]

Tali autorevoli argomentazioni rimarrebbero però poco persuasive con riferimento soprattutto al difficile ostacolo costituito dal principio di trasparenza che ha informato tutta l'attività dalla Pubblica Amministrazione.

Ebbene accogliere il ragionamento proposto dal Giudice delle leggi significa instaurare da un lato, una palese chiusura anacronistica nei confronti della cd. Società civile, dall'altro, avallare quasi una sorta di occultamento dei fatti penalmente rilevanti sorti all'interno del mondo militare.

Proprio quando da più parti si invoca trasparenza, si ritiene non solo di non sentire questo grido frutto dell'azione democratica di un Paese moderno, ma di negare la tutela dei diritti inviolabili facenti capo a soggetti quali i cittadini.

In altri termini, continuare ad affermare una discrezionalità nell'applicazione della legge reitera una disparità di trattamento inconciliabile con il principio di uguaglianza sostanziale e formale. [20]

Pensare che un processo penale possa rappresentare motivo di discredito per il prestigio della forza armata dimostra ancora una volta che la forma e il decoro è superiore alla volontà di

A nostro avviso la permanenza nel nostro sistema di un atto scevro dal rispetto degli obblighi motivazionali sanciti dalla legge 241 comporterebbe, in primis, la sussistenza di un atto completamente sottratto al controllo giurisdizionale di legittimità, provocando una palese disparità di trattamento rispetto all'emissione di tutti gli altri atti amministrativi soggetti all'obbligo motivatorio.

In secondo luogo, come già ricordato, si cristallizzerebbe la possibilità di porre in essere discriminazioni di trattamento sulla base di fatti assolutamente estranei

Del resto, e a ben vedere, con l'introduzione delle norme in materia di procedimento amministrativo si è evidentemente tenuto ad esaltare l'intriseco "principio di ragionevolezza" dell'azione amministrativa in cui, poi, finalmente, finiscono per confluire gli stessi principi di uguaglianza, di imparzialità e di buon andamento della p.a. e pertanto, ad imporre legislativamente che quest'ultima sia adegui ad un canone di razionalità operativa così da evitare decisioni arbitrarie e, quindi ad assicurare l'emanazione di provvedimenti immuni da censure sul piano della logica.

Sembra inoltre opportuno ribadire che le già richiamate esigenze di trasparenza e pubblicità dell'azione amministrativa ha condotto ad un significativo ampliamento giurisdizionale delle figure sintomatiche dell'eccesso di potere [21] , e tale dovere risponderebbe anche per consentire al giudice destinatario della richiesta, di verificare le argomentazioni addotte dal Comandante e fare una prima verifica circa l'effettiva sussistenza di quell'interesse pubblico che giustifica la sottoposizione del singolo al processo penale.

Queste indicazioni, peraltro, meritano ancora qualche riflessione in rapporto alla circostanza secondo la quale la riscontrata mancanza di tali requisiti comporterebbe la disapplicazione incindentale della richiesta di procedimento ai sensi degli artt. 4 e 5 L. 2248/1865 all. E.

4.     Le patologie della motivazione e i profili di tutela giurisdizionale.

In mancanza di un obbligo legale di motivazione, prima della legge sul procedimento amministrativo, la giurisprudenza riconduceva le disfunzioni attinenti al momento giustificativo del provvedimento nell'ambito del vizio di eccesso di potere, qualificando la carenza o i vizi della motivazione quali figure sintomatiche dello stesso.

Con la legge 241 del 1990 è stato introdotto, come già ricordato, nel nostro ordinamento il dovere generale di motivazione dei provvedimenti amministrativi. Da questo obbligo scaturisce quindi l'onere per la P.A. di indicare i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione, in relazione alle risultanze della istruttoria.

Tale incombenza ci sembra debba avvenire anche nell'ipotesi fin qui affrontata, e in tal senso assume un rilievo centrale l'istruttoria quale imprescindibile momento di acquisizione dei presupposti di fatto e degli interessi coinvolti nell'esercizio del potere.

La funzione della motivazione in quanto diretta alla ricostruzione del complessivo iter logico seguito dall'organo emanante, è riconducibile come abbiamo visto all'obiettivo primario di consentire ai cittadini un controllo democratico sulla correttezza dell'azione amministrativa.

Ciò detto, a questo punto, di fronte ad una richiesta di provvedimento non motivata si pone il problema della tutela giurisdizionale del militare e se sia possibile il ricorso al giudice amministrativo per l'annullamento dell'atto illegittimo ovvero se sia sufficiente

Riguardo la prima ipotesi di tutela, la giurisprudenza ha affermato che l'ampia formulazione dell'art. 3 nel fissare non solo l'obbligo di motivazione, ma anche parametri contenutistici di riferimento, preclude all'amministrazione il ricorso a motivazioni tautologiche o apodittiche consistenti nell'apposizione di mere clausole di stile inidonee a consentire un'adeguata tutela delle ragioni del privato (nel nostro caso del militare).

In questo caso l'atto sarebbe viziato per violazione di legge mentre si configura il vizio di eccesso di potere in tutti i casi di motivazione insufficiente (in quanto risultano pretermessi taluni elementi rilevanti), contraddittoria ( in quanto priva di coerenza logica, incongrua(in quanto basata su di un'indebita valenza attribuita ad alcuni profili) o dubbiosa ( in quanto richiama fatti qualificati come incerti).

Complessivamente è stato osservato che il nesso tra l'ampiezza e l'esaustività contenutistica dell'obbligo motivazionale, da un lato, e il principio di buon andamento, quale requisito normativo dell'azione amministrativa, dall'altro, determinano un ampliamento del campo conoscitivo del G.A., rendendo così effettiva l'indagine sull'intero sviluppo argomentativo e sul corrispondente retroterra sostanziale.

Risulta in questo modo un potere di controllo più penetrante in ordine alla congruità e logicità dell'azione pubblica, in questo caso affidata al Comandante di Corpo.

Altra ipotesi di tutela è quella richiamata in precedenza e affidata al G.O.  che in sede di valutazione sulla motivazione della richiesta di procedimento può disapplicarla ex articolo 5 della legge 2248/1865, allegato E. Si tratta di un ipotesi in cui il giudizio ordinario ha a oggetto un rapporto giuridico la cui esistenza o conformazione discende da un provvedimento amministrativo, per cui il giudice ordinario per decidere sul rapporto verifica incidenter tantum la legittimità di tale atto e, qualora ne riscontri l'illegittimità, può disapplicarlo, decidendo, cioè, la controversia considerando l'atto tanquam non esset.

In tale ipotesi, la giurisprudenza più recente ritiene che l'autorità giudiziaria ordinaria eserciti un sindacato sostanzialmente non dissimile da quello operato dal giudice amministrativo in sede di giurisdizione generale di legittimità: potrà, dunque, disapplicare l'atto in presenza di vizi della motivazione, sia che gli stessi rendano l'atto illegittimo per violazione di legge, sia che configurino sintomi del vizio di eccesso di potere.

- avv. Alberto Cuccuru - febbraio 2002

(riproduzione riservata)


[1] Cass.pen. n. 12127 del 13/12/85.

[2] Per quanto riguarda la legittimazione costituzionale delle sanzioni disciplinari restrittive della libertà personale non c'è uniformità di opinioni: mentre un recente indirizzo sostiene la radicale incostituzionalità di queste restrizioni, in quanto disposte al di fuori delle garanzie previste dall'art. 13 della Cost. ( in questo senso BEVERE,CALOSA-GALASSO in AA.VV, I diritti del soldato, Milano 1978, pag. 92), e un orientamento diametralmente opposto, ma superato dalla stessa legge 382/1978, le giustifica sulla basa dell'estraneità alla materia militare dl diritto sancito dalla costituzione.

[3] La richiesta è presentata per iscritto al Procuratore Militare della Repubblica entro il termine di un mese a decorrere "dal giorno in cui l'autorità ha avuto notizia del fatto costituente reato. Non è necessario, perché decorra detto termine che siano noti tutti gli autori del reato.

[4] Venditti osserva che per lungo tempo la dottrina e la giurisprudenza si sono limitate a fornire analisi meramente esegetiche dell'istituto, evitando di affrontare i numerosi profili critici inerenti la funzione assunta dallo stesso nel sistema penale. Pag. 599

[5] Nel sistema dell’art. 260 azione disciplinare e azione penale sono mantenute distinte: né deriva che la punizione disciplinare non impedisce la successiva richiesta di procedimento, sempre che questa sia ancora nei termini di legge

[6] Su questo specifico problema si sono formati nella giurisprudenza di legittimità due diversi orientamenti interpretativi. Il promo, meno recente (cass. 12/5/72; Cass. 20/02/1980; Cass. 3/6/1988) ritiene che la richiesta ministeriale sia "un atto di mera natura amministrativa" che esula dal novero degli atti concernenti la suprema direzione della cosa pubblica. Il secondo orientamento, più recente (Cass. 15/04/1993; Cass. 22/04/1994) afferma che il Ministro di Grazia e Giustizia "è preso in considerazione non già come persona ma come organo politico rappresentante del Governo nella specifica materia", sicchè la richiesta di procedimento del Ministro di Grazia e Giustizia deve essere qualificata come un atto avente "carattere di discrezionalità politica".

[7] Sul punto il Consiglio di Stato si è chiaramente pronunciato, per tutte C.d.S. 29/2/1996 n. 217) argomentando sul base del testo desumibile dall'art. 31 R.D. 26/6/1924 n. 1054 che qualifica gli atti politici come "atti o provvedimenti emanati dal Governo nell'esercizio del potere politico".

[8] La querela consiste in una dichiarazione mediante la quale, personalmente o a mezzo di un procuratore speciale, il soggetto che ha il diritto di proporla manifesta la volontà che si proceda in ordine ad un fatto previsto dalla legge come reato.

[9] A questo proposito occorre ricordare la remissione della querela, consistente nella dichiarazione di volontà con la quale il querelante revoca l'atto già proposto al fine di annullarne gli effetti, nonché la rinuncia, ossia la manifestazione di volontà abdicativa alla quale consegue la decadenza del diritto di porre in essere l'atto.

[10] Cfr. C.Cost. 16.12.1996 n. 396.

[11] I caratteri fondamentali sono la discrezionalità intesa come valutazione di convenienza e l'iirevocabilità intesa come valutazione di utilità che non ammette ripensamenti.

[12] Cass. Sez. I del 19/11/1998.

[13] C. Cost. 4/12/1991 n. 449.

[14] Cass. Pen. I sez. n. 728, dep. 3/2/97, P.G. mil in proc. Gargiulo c. Bonagura..

[15] Sent. N. 13998 del 6/12/98.

[16] Cass, pen sez.I 20/05/1998, pres. Fazzioli, rel. Bardovagni.

[18] Si pensi al caso in cui due militari si scambino reciproche ingiurie ed il loro Comandante richieda il procedimento penale per uno solo di essi, non promuovendo per l'altro alcunché, magari perché legato da rapporto di amicizia od altro.

[19] Corte Coct. 22/7/1976 n. 189.

[20] L'esigenza che colui il quale deve attivare la condizione di promovibilità dalll'azione penale sia il più possibile estraneo ai fatti per cui si procede è indispensabile corollario del combinarsi dei richiamati principi di imparzialità e di ragionevolezza.

[21] Art. 3 L. 7/8/1990 n. 241.

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