Leonardo Suraci, Mutamento della persona fisica del giudice e necessità del consenso delle parti alla rinnovazione del dibattimento mediante lettura

Una recente ordinanza del Tribunale di Locri, Sezione distaccata di Siderno, ha fornito l’occasione per consegnare qualche riflessione sulla tematica – invero molto delicata – delle modalità di rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale nelle ipotesi di mutamento della persona del giudice monocratico o della composizione dell’organo decidente collegiale (1).

Ha inoltre dimostrato come non possa ritenersi esaurita l’elaborazione sulla portata da attribuire ad una norma – l’articolo 525, comma 2 del codice di procedura penale – che, guardata sotto l’aspetto letterale, sembra brillare per chiarezza e perentorietà.

Il cuore del problema è oltremodo noto. L’art. 525, comma 2 c.p.p. fissa il principio della "immutabilità del giudice" per il quale alla deliberazione della sentenza devono concorrere, a pena di nullità assoluta, gli stessi giudici che hanno partecipato al dibattimento.

In forza di questa disposizione, chiaramente preposta alla salvaguardia del principio cardine della "immediatezza"(2), l’organo giudicante in diversa composizione soggettiva rispetto al precedente deve procedere alla rinnovazione del dibattimento e, nel corso degli anni, si è posto il problema se fosse possibile ripristinare la corrispondenza tra giudice del dibattimento e giudice della deliberazione attraverso forme diverse dalla effettiva riacquisizione delle prove già assunte dal giudice diversamente composto (3).

Sul punto varie e diversificate sono state le risposte fornite dalla dottrina e dalla giurisprudenza.

Mentre l’orientamento più rigoroso riteneva necessario, al fine di garantire il principio di immutabilità del giudice, l’effettivo svolgimento dell’attività dibattimentale e quindi le nuove audizioni delle persone già escusse (4), la Corte di cassazione, a partire dalla metà degli anni ’90, ha ritenuto legittimamente praticabili diversi e meno dispendiosi modi di rinnovazione dell’istruzione dibattimentale esperita, agganciando l’art. 525 c.p.p. alla disciplina codicistica delle letture dibattimentali (5).

Nell’ambito di questo orientamento si è posto – in dottrina ed in giurisprudenza – il problema della necessità o meno del consenso delle parti alla rinnovazione del dibattimento mediante semplice lettura delle dichiarazioni già acquisite al fascicolo per il dibattimento (6).

Forti dell’avallo autorevole della Corte costituzionale (7) le Sezioni Unite della Suprema Corte, nella famosa sentenza 15 gennaio 1999, n. 1 (Ric. Iannasso), muovendo dal presupposto che l’art. 511, comma 2 c.p.p. attribuisce alla lettura delle dichiarazioni una funzione integratrice dell’escussione della prova orale (8), hanno ritenuto di individuare una soluzione equilibrata attraverso la valorizzazione del consenso delle parti, pervenendo così all’enunciazione del seguente principio di diritto: <<nel caso di rinnovazione del dibattimento a causa del mutamento della persona del giudice monocratico o della composizione del giudice collegiale, la testimonianza raccolta dal primo giudice non è utilizzabile per la decisione mediante semplice lettura, senza ripetere l’esame del dichiarante, quando questo possa avere luogo e sia richiesto da una delle parti>>.

Ancorché le conclusioni cui si è pervenuti nella sentenza Iannasso abbiano cristallizzato un vero e proprio diritto vivente (9), dalla giurisdizione di merito, ossia la stessa che aveva sollecitato lo scostamento dalla originaria lettura del principio di immutabilità, emergono segnali di insofferenza nei confronti di una soluzione interpretativa che rappresenta un macigno sulla via del perseguimento dei fini del processo penale.

Il Tribunale di Locri, in particolare, riconosce al giudice un potere decisorio sul tema che va ben oltre la semplice certificazione del consenso delle parti alla rinnovazione del dibattimento mediante lettura, attribuendogli la competenza a conoscere della necessità o meno della riacquisizione probatoria richiesta dalle parti. Dotato il giudice di un siffatto potere, l’ordinanza esemplifica alcuni casi in cui il nuovo decidente deve senz’altro disattendere la richiesta di nuova acquisizione probatoria ed a queste ipotesi bisogna fare cenno per comprendere i limiti propri del meccanismo delineato dalle Sezioni Unite.

Innanzitutto il giudicante deve procedere mediante lettura – dice il Tribunale di Locri – relativamente alle prove <<rivelatesi assolutamente ininfluenti per il processo nella precedente assunzione>>.

Si tratta di una conclusione oggettivamente incensurabile poiché frutto di una corretta applicazione di principi immanenti al sistema processuale penale italiano, nel quale è sancita la netta separazione tra il momento dell’ammissione ed il momento, temporalmente e logicamente successivo, dell’assunzione probatoria. Invero, dovendo il processo regredire alla fase della dichiarazione di apertura del dibattimento (art. 492 c.p.p.), si assisterà altresì alla riedizione delle fasi delle richieste di prova (art. 493 c.p.p.) e, quindi, della valutazione giudiziale ai fini dell’ammissione (art. 495 c.p.p.). Conformemente ai criteri delineati dall’art. 190 c.p.p. il giudice deve fondare il proprio provvedimento ammissivo su una valutazione di rilevanza e non superfluità della prova e non pare possa ragionevolmente dubitarsi circa la fondatezza di un giudizio che, anziché guardare alla capitolazione ex art. 468 c.p.p., tenga conto dell’effettivo "risultato di prova" conseguito nel processo precedentemente svoltosi ed immediatamente percepibile attraverso l’analisi del contenuto dei verbali inseriti nel fascicolo per il dibattimento.

A voler ragionare diversamente, si finirebbe con il legittimare una finzione processuale: il giudice, cioè, deve "fingere" di ritenere rilevanti e non superflue le prove di cui si chiede la nuova acquisizione pur sapendo che esse non sono, in verità, portatrici di elementi utili ai fini dell’accertamento processuale, in altre parole "superflue".

Delle altre ipotesi individuate dal Tribunale di Locri occorre soffermare l’attenzione su quella che poggia su una visione prospettica della presumibile durata del dibattimento e sulle ripercussioni di essa sulla realizzazione della finalità di garanzia del bene della "immediatezza".

Per comprendere la ratio che guida la scelta del Tribunale occorre soffermarsi sulla ricostruzione, indubbiamente corretta, che emerge dall’ordinanza circa i rapporti intercorrenti tra i due principi cardine del nostro sistema processuale: immediatezza e concentrazione.

L’espressione "immediatezza" è <<formula di sintesi indicativa… di un modello di gnoseologia giudiziaria basato sul rapporto immediato e diretto tra fonte probatoria e chi da essa deve trarre gli elementi del proprio convincimento>> (10) e la sua funzione corrisponde all’esigenza di fare pervenire all’orizzonte gnoseologico del giudice tutti gli elementi idonei a fondare il proprio convincimento: essi, come correttamente evidenzia il Tribunale calabrese, <<sono individuabili non solo nelle frasi dette dal teste, ma anche in tutta una serie di atteggiamenti, gestualità, espressioni, silenzi, incertezze ecc. … che difficilmente sono desumibili dalle trascrizioni o dai verbali>>.

Ma il conseguimento della finalità tipica dell’immediatezza passa attraverso la realizzazione di una adeguata "concentrazione" dell’attività processuale perché una eccessiva dilatazione dei tempi del processo comporta, per i limiti fisiologicamente connessi all’umana capacità di memorizzazione, il pericolo di dispersione degli elementi accessori del fatto dichiarativo. Pertanto, traslando questa constatazione al fatto della rinnovazione, emerge che una riacquisizione che dilatasse eccessivamente i tempi del processo non apporterebbe nulla di nuovo al patrimonio cognitivo del giudice il quale si ritroverebbe, all’esito dell’attività istruttoria rinnovata, a dover decidere sulla base delle emergenze già documentate nelle trascrizioni. In altre parole, quanto maggiore è lo scarto temporale tra l’assunzione della prova e la valutazione di essa, tanto maggiore è il pericolo di dispersione degli elementi accessori alla dichiarazione acquisiti al processo, tanto minore l’utilità della rinnovazione mediante acquisizione ex novo della prova.

Dunque, conclude il Tribunale di Locri, quando il giudice ha ragione di ritenere che l’attività acquisitiva richiesta dalla parte comporterà un eccessivo prolungamento dei tempi del processo, al punto di vanificare l’idoneità funzionale dell’immediatezza, dovrà rigettare l’istanza di riacquisizione delle prove precedentemente assunte e disporre la rinnovazione mediante lettura.

Al di la della valutazione positiva che si potrebbe formulare sulle conclusioni cui è pervenuto il giudice calabrese, le argomentazioni che fondano l’ordinanza in discorso offrono lo spunto per verificare la possibilità di una nuova impostazione – che poi nuova non è, poiché recupera tesi già prospettate in passato – del sistema di ripristino della corrispondenza tra giudice del dibattimento e giudice della deliberazione nell’ipotesi di mutamento della composizione personale dell’organo decidente e, per fare questo, occorre partire dalla denuncia del limite intrinseco al meccanismo delineato dalla sentenza Iannasso.

Invero appare difficile, già a livello di inquadramento nell’ambito di categorie desumibili dalla teoria generale del diritto, individuare il "valore" di pertinenza della parte che attraverso l’offerta di prestazione del consenso alla rinnovazione mediante lettura si intende tutelare. In altri termini, se è vero che la norma giuridica impone o consente determinate azioni finalizzate alla tutela di interessi giuridicamente rilevanti (11), non si capisce quale sia il valore (ossia l’interesse positivamente valutato) "di parte" che l’ordinamento ha assunto a tutela predisponendo un sistema di rinnovazione a modalità alternative e rimesso per intero alla disponibilità delle parti processuali.

La scelta di ancorare la determinazione in concreto della modalità di rinnovazione dell’istruzione dibattimentale al consenso delle parti, unitamente alla considerazione che la parte processuale tipicamente deputata ad impedire il rinnovo mediante lettura è l’imputato, induce alla tentazione di attrarre il meccanismo delineato dalla Corte di cassazione all’alveo delle "garanzie della difesa".

Se così è, non appare dubitabile che la scelta legislativa, come concretizzata dalla giurisprudenza, dia vita ad una soluzione irragionevolmente pregiudicante la funzione del processo penale.

Sotto questo profilo rileva un passaggio della tanto vituperata – dalla classe forense – sentenza n. 361/98 della Corte costituzionale. In esso, individuata la funzione del processo penale nell’accertamento giudiziale dei fatti di reato e delle relative responsabilità e ribadito che <<tale funzione non può essere utilizzata per attenuare la tutela - piena e incoercibile – del diritto di difesa>>, si è sottolineata la censurabilità di <<soluzioni normative che, non necessarie per realizzare le garanzie della difesa, pregiudichino la funzione del processo>>.

Invero, l’irragionevolezza di una soluzione quale è quella delineata dalla sentenza in discorso emerge con chiarezza dalle riflessioni correttamente svolte dal Tribunale di Asti in una ordinanza datata 13 novembre 2000 (12): le dichiarazioni assunte dal giudice in diversa composizione non sono rese in fase di indagini preliminari, né in sede di incidente probatorio, né in un procedimento penale diverso, bensì in una o più udienze dibattimentali dello stesso processo penale e con il pieno esplicarsi del contraddittorio delle diverse parti processuali (13).

Pertanto, guardando agli esiti del processo da un angolo visuale retrospettivo, non c’è, né potrebbe esserci un interesse della difesa – intesa in senso oggettivo, ossia come pura esplicazione della funzione difensiva – connesso alla rinnovazione del dibattimento mediante la nuova acquisizione della prova, se non quello della dilatazione dei tempi processuali finalizzata a fare maturare i termini prescrizionali e, francamente, pare addirittura fuori luogo pensare che il legislatore, e per esso la Suprema Corte, abbia inteso munire un interesse siffatto di tutela giuridica (14).

Esclusa la strumentalità della scelta giurisprudenziale in funzione di tutela del diritto di difesa, non si può altresì pensare che si sia voluto garantire l’interesse delle parti a fare vivere al giudice atteggiamenti, gestualità, opinioni, silenzi, incertezze che connotarono la deposizione dinanzi al precedente giudicante. I contegni soggettivi del dichiarante sono per loro natura irripetibili, esaurendosi nella loro realità al momento stesso in cui si manifestano ed essendo percepibili esclusivamente dai presenti in quel dato momento storico. Passato quel momento, essi sono suscettibili solamente di rappresentazione. Ne deriva che, per portarli a conoscenza del nuovo giudice, occorre che un soggetto presente sulla preesistente scena processuale glieli riferisca, essendo esclusa ab initio la possibilità di riviverli mediante l’assunzione ex novo della medesima fonte. Essa consentirebbe al giudice di percepire il contegno soggettivo che accompagna la nuova assunzione, ma non quello che accompagnò la precedente.

Detto questo, occorre dare conto altresì della inconferenza del richiamo, contenuto in entrambe le ordinanze considerate, di norme del codice di procedura penale deputate a garantire l’efficacia di prove acquisite in contesti processuali diversamente connotati sotto il profilo della composizione personale dell’organo giudicante (artt. 26 e 33 nonies c.p.p.).

Il richiamo di esse concorre a risolvere la problematica del rapporto tra la nuova fase dibattimentale (ed il patrimonio conoscitivo disponibile al giudice) e le previgenti acquisizioni probatorie, configurandolo in termini di piena legittimità ed utilizzabilità, ma non fornisce elementi in ordine al problema – diverso sotto il profilo logico e dogmatico – delle modalità di attuazione del principio sancito dall’art. 525, comma 2 c.p.p. In altri termini, dire che le prove precedentemente acquisite sono legittime è una cosa, assicurare – per come richiesto dall’art. 525 c.p.p. – la partecipazione del nuovo giudice al dibattimento è un’altra e se si vuole utilizzare a quest’ultimo fine l’art. 511, comma 2 c.p.p. occorre individuare una ragione – diversa dal consenso delle parti – che legittimi la scelta di non dare luogo all’esame del teste già escusso quando esso sia oggettivamente possibile.

La individuazione di una soddisfacente risposta a questo interrogativo deve muovere da considerazioni di carattere generale attinenti a profili che coinvolgono la scelta dei valori ai quali l’ordinamento ritiene di dovere prestare la propria tutela.

Il diritto come insieme di valori dell’agire umano (15) deve darsi – in ogni suo settore, sostanziale e processuale – un assetto compatibile con il quadro degli interessi che, in un determinato momento storico, la comunità prospetta come socialmente rilevanti e dei quali pretende tutela (16).

Può dunque affermarsi che oggi il bene dell’immediatezza – che, si ricordi, la rinnovazione del dibattimento mediante riacquisizione intende garantire nella sua effettività e nella sua inscindibilità rispetto al valore dell’oralità – sottintenda un interesse dalla comunità statuale ritenuto meritevole di tutela con preferenza rispetto ad ogni altro, ivi compresi i valori costituzionali della certezza del diritto e della pena e quelli, che di essi costituiscono il corollario, della funzionalità ed efficienza del processo (17)?

Il valore della legalità, elemento sostanziale del principio cardine del nostro ordinamento giuridico, postula la realizzazione di un sistema processuale efficiente, strutturalmente capace di perseguire – entro limiti di tempo ragionevoli – il fine dell’applicazione del diritto penale sostanziale ai fatti di reato concretamente verificatisi (18).

Sorvolando sull’importanza che al valore in questione ha dato la Corte costituzionale (19), deve sottolinearsi come lo stesso legislatore abbia dimostrato di attribuire valore preminente al bene della legalità e, in diversi casi, manifestamente a discapito proprio dell’immediatezza: basta pensare, quali esempi di immediata percepibilità, alle scelte di estensione delle ipotesi di attivabilità dell’istituto dell’incidente probatorio attuate con la legge 7 agosto 1997, n. 267 e, più recentemente, con la legge 7 dicembre 2000, n. 397 (20).

Si ponga mente, d’altra parte, alla nuova formulazione dell’art. 190 bis c.p.p., introdotta dall’art. 3 della legge 1 marzo 2001, n. 63: <<Nei procedimenti per taluno dei delitti indicati nell’art. 51, comma 3 bis, quando è richiesto l’esame di un testimone o di una delle persone indicate nell’art. 210 e queste hanno già reso dichiarazioni… in dibattimento nel contraddittorio con la persona nei cui confronti le dichiarazioni medesime saranno utilizzate… l’esame è ammesso solo se riguarda fatti o circostanze diversi da quelli oggetto delle precedenti dichiarazioni ovvero se il giudice o taluna delle parti lo ritengono necessario sulla base di specifiche esigenze>>.

E’ la prima volta che il legislatore prende "ordinariamente" posizione in maniera espressa sulla problematica oggetto di analisi (21) e lo fa, come appare evidente, adottando una soluzione ragionevole – ammissiva della legittimità di forme di rinnovazione diverse dalla riacquisizione – e della quale, come vedremo, ci si potrà servire per i fini che ci occupano.

Conduce alla stessa conclusione la considerazione dell’intervento normativo effettuato in via d’urgenza nel 1996, con la legge n. 652 (di conversione del decreto legge 26 ottobre 1996, n. 553) per contenere gli effetti dell’ampliamento delle ipotesi di incompatibilità conseguito agli interventi della Corte costituzionale.

Infatti l’art. 2 della legge predetta ha disposto che le prove acquisite dal precedente giudice – e dunque prima del provvedimento che accoglie la dichiarazione di astensione o di ricusazione – conservano efficacia, potendo il nuovo giudicante, ritenendolo necessario, disporre la rinnovazione totale o parziale degli atti, ovvero limitarsi alla loro utilizzazione mediante lettura.

Questa disposizione è importante sotto due profili:

- da un lato conferma la continuità della tendenza legislativa a considerare legittime le due alternative modalità di rinnovazione del dibattimento, rimettendo all’apprezzamento del giudice la relativa scelta;

- dall’altro evidenzia – come da noi sostenuto in precedenza – che la problematica dell’efficacia degli atti previamente acquisiti va tenuta distinta da quella attinente alla rinnovazione degli atti.

La stessa Corte di cassazione – che già nella sentenza Iannasso ha dimostrato di non considerare il valore dell’immediatezza come assoluto (22) – messa alle strette dall’esasperante e vanificante dilungarsi dei tempi dei processi, ha maturato conclusioni tese a svuotare il valore della immediatezza anche in contesti caratterizzati dalla rinnovazione mediante nuova acquisizione. Il riferimento è al noto orientamento, manifestatosi anche in tempi recenti, che, pur muovendosi nell’orbita della sentenza Iannasso, ha riconosciuto la legittimità di tecniche di rinnovazione effettuate mediante richiesta alle fonti dichiarative precedentemente assunte delle conferma delle dichiarazioni già rese da parte del nuovo giudice (23): è chiaro che, in questa ipotesi, la rinnovazione mediante riacquisizione è soltanto fittizia, arricchendosi la nuova istruzione esclusivamente della dichiarazione di conferma delle fonti personali nuovamente escusse.

Troppo poco e, soprattutto, troppo contraddittorio per garantire l’immediatezza!

Appare evidente, allora, che l’ideologia dominante considera l’immediatezza un valore sì meritevole di tutela, ma destinato a soccombere rispetto ai valori preminenti della legalità e dell’efficienza processuale in tutti i casi in cui la garanzia del primo rischia di pregiudicare la realizzazione dei secondi.

In questo assetto di principi male si incastona la scelta compiuta dalla Suprema Corte nella sentenza Iannasso: essa non solo non realizza la funzione tipica dell’immediatezza ma costituisce, come già detto, un macigno sulla via del perseguimento dei fini del processo penale, dando vita – sulla base di un parametro aprioristico – ad un sistema processuale condannato a rincorrere se stesso, prigioniero di un circolo vizioso in cui la rinnovazione mediante nuova acquisizione dilata i tempi processuali agevolando o addirittura costituendo la premessa per l’operare di fattori di rischio di nuove rinnovazioni.

Occorre a questo punto svelare l’elemento che rappresenta la chiave di volta per la risoluzione del quesito iniziale, da noi individuato nella "natura del rapporto tra i beni dell’immediatezza e della legalità".

Il rapporto tra immediatezza e legalità non si configura necessariamente in termini di contrapposizione poiché l’immediatezza è essa stessa, nella fisiologia del funzionamento del processo, strutturalmente preordinata al conseguimento dei fini processuali, ossia tende finalisticamente alla realizzazione della legalità e proprio in funzione di ciò viene elevata a principio ispiratore del nostro modello processuale (24).

E’ proprio la configurazione che nello specifico contesto processuale assume il rapporto immediatezza-legalità a fornire la base dell’impostazione di un meccanismo di rinnovazione aderente al canone della ragionevolezza: se l’immediatezza non è valore ex sé ma soltanto in quanto funzionale all’accertamento del fatto e delle relative responsabilità e se l’accertamento de qua costituisce il fine del processo penale, la conclusione è che soltanto quando le circostanze concrete sono manifestative della funzione servente dell’immediatezza rispetto alla realizzazione del principio di legalità l’immediatezza stessa merita tutela giuridica.

Ciò significa che, nel caso di mutamento della persona fisica del giudice, essa merita di essere ripristinata mediante l’effettiva acquisizione della prova dichiarativa in precedenza assunta soltanto in quanto emerga la sua funzione naturale, ossia servente rispetto ai fini del processo.

Quando questo non accade, ossia quando l’immediatezza si pone in contrasto con i fini del processo perché, per esempio, manifestamente invocata per finalità dilatorie, essa è "disvalore" e come tale non può pretendere tutela giuridica.

Il corollario di questa impostazione è facilmente intuibile: l’accertamento della connotazione concreta del rapporto tra il valore dell’immediatezza e quello della legalità deve essere demandato all’apprezzamento del giudice il quale, sulla base delle emergenze del fascicolo per il dibattimento ereditato dal precedente giudicante e degli apporti argomentativi delle parti, è organo istituzionalmente deputato alla verifica dell’effettiva utilità della rinnovazione mediante acquisizione ex novo della fonte di prova dichiarativa. Essa è utile se il complesso delle emergenze processuali, valutato alla luce dell’apporto dialettico delle parti, prospetta una pertinente integrazione del patrimonio conoscitivo del giudice, è inutile se appare suscettibile di determinare l’infruttifera dilazione dei tempi del processo.

A questo accertamento sono funzionali i parametri stabiliti dall’art. 190 c.p.p., da applicare però alla luce del complessivo materiale legittimamente disponibile, secondo un criterio di estensione dell’orizzonte valutativo analogo a quello seguito dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 101 del 1993 (25): all’esito di questa valutazione il giudice legittimamente procederà alla rinnovazione mediante lettura delle prove dichiarative qualora ritenga – e di questo suo convincimento dovrà dare compiuta motivazione – la nuova acquisizione superflua, ossia inidonea ad ampliare o modificare in termini rilevanti il proprio patrimonio conoscitivo.

Questa impostazione non pregiudica il ruolo delle parti, peraltro in una fase estremamente delicata quale è quella della rinnovazione dell’istruzione dibattimentale. Esse sono certamente indebolite dalla perdita di un ingiustificato ed irrazionale potere di veto, ma allo stesso tempo sono garantite, da un lato, conservando uno spazio processuale all’interno del quale argomentare sulle ragioni per le quali ritengono necessaria una nuova assunzione di una o di tutte le fonti dichiarative già escusse nella precedente fase processuale, dall’altro attraverso il compiuto esercizio dell’obbligo giudiziale di motivazione (26).

La correttezza della soluzione da noi prospettata – che, come detto, mira al recupero di un orientamento pregresso della Suprema Corte – appare confermata dall’innovazione legislativa – contenuta nella legge 1 marzo 2001, n. 63 – cui sopra si faceva cenno.

Invero, seguendo la logica che sorregge il brocardo ubi lex voluit dixit, ubi noluit taquit, si potrebbe argomentare che, poiché il legislatore ha limitato oggettivamente la portata della modifica ai procedimenti per delitti di cui all’art. 51, comma 3 bis c.p.p., nei procedimenti per delitti diversi si è inteso escludere un autonomo potere valutativo del giudice.

L’erroneità di questa conclusione viene svelata dalla valorizzazione – peraltro frutto dello sviluppo di una argomentazione del Tribunale di Asti esplicitata nell’ordinanza del 13 novembre 2000 – del dato sistematico alla luce anche delle modifiche apportate all’art. 238, comma 2 bis c.p.p. dalla legge attuativa dei principi costituzionali inerenti al "giusto processo".

Invero l’art. 238, comma 5 c.p.p., nel completare la disciplina dell’acquisizione di verbali di prove di altro procedimento, riconosce alle parti il diritto di ottenere l’esame delle persone le cui dichiarazioni sono state acquisite a norma dei commi precedenti, subordinando però l’ammissione del nuovo esame ad un provvedimento giudiziale emesso ai sensi degli artt. 190 e 190 bis c.p.p. e dunque, in generale, alla valutazione di rilevanza e non manifesta superfluità; nei casi particolari contemplati dall’art. 190 bis c.p.p., ad un giudizio di (oggi non più assoluta) necessità.

Come giustamente rilevato dal Tribunale di Asti, sarebbe stato illogico assicurare all’imputato maggiore tutela in un contesto (per lui) maggiormente garantito. Non si capiva perché, infatti, doveva attribuirsi al giudice un potere valutativo nel caso di previa acquisizione di dichiarazioni rese nel contesto dibattimentale inerente ad un diverso processo ed escludere un potere analogo nell’ipotesi, maggiormente garantita, della provenienza delle dichiarazioni dal dibattimento inerente allo stesso processo.

La tesi, può sembrare paradossale, riceve ulteriore vigore dalla modifica di cui sopra si parlava. Infatti, generalizzando il principio secondo il quale l’utilizzabilità delle dichiarazioni rese in ambito processuale diverso presuppone la partecipazione del difensore alla relativa assunzione (art. 238, comma 2 bis c.p.p.), si è creato un (quasi) perfetto parallelismo rispetto all’ipotesi di acquisizione nell’ambito dello stesso processo e con questo quadro male si coordina una differenziazione dei poteri giudiziali di verifica sulla richiesta di riassunzione probatoria.

A ciò si aggiunga che la collocazione materiale dei verbali di dichiarazioni acquisite è in entrambi i casi identica: infatti il meccanismo acquisitivo dei verbali di dichiarazioni rese aliunde delineato dal codice processuale fa sì che, al momento in cui il giudice è chiamato a valutare la richiesta ex art. 238, ultimo comma c.p.p., i verbali stessi siano già acquisiti al fascicolo per il dibattimento (27), facendo legittimamente parte di esso così come legittimamente ne fanno parte i verbali documentativi degli atti istruttori compiuti dinanzi al precedente giudicante. Seguendo la tesi delle Sezioni Unite si avrebbe allora una disciplina diversa per situazioni analoghe, ossia la verificazione di una scelta irragionevole.

Dunque, se il sistema vuole conservare una impostazione coerente, non può farsi a meno di trasporre all’esterno il sistema del "doppio binario" sanzionato dall’art. 238 c.p.p., ossia concludere che la modifica dell’art. 190 bis c.p.p. non ha valenza preclusiva di una valutazione giudiziale della richiesta di rinnovazione mediante acquisizione formulata in procedimenti per reati diversi da quelli ivi contemplati ma, più semplicemente, tende a diversificare il parametro di valutazione: <<necessità>> anziché <<rilevanza>> e <<non superfluità>>

Resta da vedere quali sono i soggetti del processo che, ritenendo percorribili strade diverse da quelle indicate nella sentenza Iannasso e cristallizzate nel diritto vivente, devono assumere un ruolo trainante per sollecitarne il recepimento da parte della Suprema Corte.

Appare indubbio che questo compito grava innanzitutto sui titolari della funzione giusdicente di merito i quali, alla fine, sono gli operatori del diritto che si trovano a dovere gestire le concrete evenienze processuali.

Sotto questo aspetto, i giudici sbagliano ad assecondare, pur non condividendolo affatto, l’orientamento della Corte di cassazione.

Si dice questo perché spesso la giurisdizione manifesta contegni chiaramente incompatibili con sentimenti di effettiva adesione ad un orientamento a cui, però, nonostante tutto, si adegua: l’esperienza fornisce infatti molti esempi di situazioni in cui il giudicante, dopo avere ricevuto il diniego del difensore alla rinnovazione mediante lettura, mostra segni di insofferenza per la scelta difensiva (è il caso proprio di dire) subita.

Questo modo di fare è a dir poco inaccettabile poiché tende a gravare il difensore delle conseguenze – dirompenti sotto il profilo processuale – di altrui scelte errate, dimenticando che la scelta difensiva di dilatare i tempi del processo (anche) al fine di conseguire i benefici della prescrizione è incensurabile sotto il profilo giuridico e deontologico. Invero, ad essere fiscali, si potrebbe ritenere che il difensore che presta il consenso alla rinnovazione mediante lettura della prova già formata in un processo dagli esiti presumibilmente negativi per l’imputato e in prossimità del maturare del termine prescrizionale non ha certo difeso "gli interessi della parte assistita nel miglior modo possibile" (art. 36 codice deontologico forense).

Se al difensore si lascia aperta una porta egli fa bene, all’occorrenza, ad attraversarla. Altri dovrebbero provvedere a chiuderla!

Censurare la condotta del difensore che esige la nuova acquisizione della prova dichiarativa precedentemente assunta è il modo peggiore – anche perché improduttivo – di riconoscere l’inadeguatezza dell’orientamento al quale comunque si presta adesione.

Occorre che i giudici di merito si dotino di maggiore coraggio nell’esercitare con pienezza la loro libertà interpretativa: <<Iura novit curia>>.

Ma, ancora prima, occorre che il legislatore verifichi se effettivamente c’è corrispondenza tra l’astratta procedura penale ed il concreto processo penale. Facendo questo si renderà conto che l’art. 525, comma 2 c.p.p. esprime un principio che postula un processo penale completamente diverso da quello che la realtà quotidianamente ci consegna.

Del processo che il legislatore immaginava e che l’art. 477 c.p.p. fotografa – ossia un processo destinato ad esaurirsi in una sola udienza, al massimo due da tenersi (la seconda) nel giorno seguente non festivo (rispetto al giorno in cui si è tenuta la prima) – non c’è traccia nella realtà.

Carlo Nordio, in un suo recente scritto, afferma che per fare funzionare il sistema processuale accusatorio occorre che alcuni miti vadano abbandonati (28).

E se ci si accorgesse, dopo tanto arrovellarsi, che il principio di immutabilità del giudice è un mito?

Leonardo Suraci - aprile 2001

(riproduzione riservata)


(1) L’ordinanza cui si fa riferimento è datata 3 novembre 2000 e la si può reperire sul sito Internet Penale.it.

(2) Sulla funzione servente del principio di immutabilità rispetto al principio di immediatezza cfr. in giurisprudenza, tra le tante, Cass. penale, 8 agosto 1995, Capone. Di recente V. Santoro, L’anomalia degli accertamenti tecnici irripetibili, in Guida al diritto, 13 gennaio 2001, n. 1, pp. 78 ss. ha definito il principio di immutabilità del giudice una <<specifica variante>> del principio di immediatezza.

(3) Per una sintesi degli orientamenti giurisprudenziali sul tema della configurazione e dei limiti del principio di immutabilità del giudice v. G. Lattanzi-E. Lupo, Codice di procedura penale, Sub art. 525, Milano, 1997, pp. 309 ss.

(4) In questo senso cfr., tra le altre, Cass. penale, 9 maggio 1996, Scialla, per la quale la semplice lettura degli atti di istruzione probatoria in precedenza ammessi e raccolti da altro giudice da parte di quello che decide non è sufficiente a garantire il principio di immutabilità del giudice. Nello stesso senso, Sez. II, 8 luglio 1998, n. 9815.

(5) Nel fare questo la Suprema Corte ha recepito le sollecitazioni provenienti dalla giurisdizione di merito. Cfr., sul punto, Tribunale di Vibo Valentia, 21 novembre 1995, Pititto; Tribunale di Cosenza, 14 novembre 1991, Bevilacqua; Pretura di Rieti, ord. 9 maggio 1996; Pretura di Siracusa, 23 ottobre 1995, Iacono; Pretura S. Angelo dei Lombardi, 19 aprile 1996, Falbo; Pretura di Roma, 27 febbraio 1997, Nencini.

(6) Cfr., in giurisprudenza, Cass. penale, Sez. VI, 22 settembre 1998, n. 11065; Sez. V, 17 dicembre 1997, n. 2414; Sez. III, 12 dicembre 1996, Musina.

(7) La Corte costituzionale, nella sentenza n. 17 del 1994, ha infatti affermato che i verbali delle dichiarazioni rese nella precedente fase dibattimentale <<fanno già parte del contenuto del fascicolo per il dibattimento a disposizione del nuovo giudice; tale contenuto, infatti, non è cristallizzato in quello indicato nell’art. 431 del codice, ma è soggetto a notevoli variazioni, sia nella fase degli atti preliminari al dibattimento, sia, soprattutto, nel corso del dibattimento medesimo, e certamente si arricchisce del verbale delle prove assunte nella pregressa fase dibattimentale, la quale, pur soggetta a rinnovazione… conserva comunque il carattere di attività legittimamente compiuta. Ne deriva, pertanto, la integrale applicabilità della disciplina dettata dall’art. 511 del codice in tema di lettura degli atti compiuti nel fascicolo per il dibattimento…>>. Questo orientamento della Corte, già espresso in precedenza nella sentenza n. 101 del 1993, è stato ribadito nell’ordinanza n. 99 del 1996.

(8) Con ciò recuperando l’insegnamento della Corte costituzionale – espresso nella celebre sentenza n. 255 del 1992 – per la quale il metodo orale non costituisce affatto il veicolo esclusivo di formazione della prova in dibattimento.

(9) Tra le ultime sentenze della Suprema Corte attestatesi sull’impostazione della sentenza Iannasso cfr. Sez. III, 24 maggio-3 agosto 2000, n. 8828; Sez. II, 15 giugno-2 settembre 2000, n. 9389; sez. I, 5 magio-14 giugno 2000, n. 7040.

(10) AA.VV., Le innovazioni in tema di formazione della prova nel processo penale: commento alla legge 7 agosto 1997, n. 267, Milano, 1997, p. 87. Il principio di immediatezza è ritenuto inscindibile da quello della oralità <<per la semplice considerazione che la garanzia della raccolta dei dati di conoscenza dalla viva voce del narrante perde quasi completamente di significato se colui che escute la fonte di prova non è altresì l’organo deputato a valutare le informazioni da questa trasmesse>>.

(11) Questo insegnamento inerisce alla teoria della norma giuridica di A. Falzea, Voci di teoria generale del diritto, Milano, 1985, pp. 334 ss.

(12) Con l’ordinanza in questione l’interpretazione fornita dalla sentenza Iannasso è stata sottoposta a verifica di costituzionalità. Anche questa ordinanza è reperibile sul sito Internet Penale.it.

(13) Il dato processuale della integrità del contraddittorio vale a differenziare – dal punto di vista teleologico – l’ipotesi problematica in discorso dall’esigenza di fare salvo il diritto dell’imputato a partecipare al processo a suo carico, garantito, tra l’altro, dall’art. 487 c.p.p.(oggi art. 420 quater). Sulla comparabilità tra la situazione che ci occupa e l’incidente probatorio cfr. Cass. pen., Sez. I, 6 dicembre 1996, n. 11170 per la quale <<la disciplina relativa all’assunzione e utilizzabilità delle prove mediante l’incidente probatorio è particolare a tale mezzo istruttorio e non può essere estesa alle prove assunte nel dibattimento per le quali si applicano i principi della immediatezza della deliberazione e dell’immutabilità dei giudici che hanno partecipato al dibattimento>>.

(14) Si sottolinea che questa opinione poggia su una visione retrospettiva del processo, ossia riferita all’attività già svolta in sé considerata. La necessità di arricchire il quadro conoscitivo di elementi ulteriori e diversi, desumibili dalla fonte già escussa in precedenza, inerisce a profili attinenti alla futura attività processuale e deve essere vagliata, come si dirà meglio in seguito, alla luce dei criteri che governano l’immissione di elementi di prova nel processo penale.

(15) E’ la nota definizione "assiologica" del diritto formulata da A. Falzea, Introduzione alle scienze giuridiche, I, Il concetto del diritto, Milano, 1992, p. 393: il diritto come <<insieme di valori dell’agire umano derivanti da una vita comune e resi manifesti da una comune esperienza e cultura>>.

(16) A. Falzea, Introduzione alle scienze giuridiche, cit., pp. 394 ss., costruisce il concetto del diritto come sintesi di due momenti: il momento sostanziale degli interessi e valori sociali e il momento formale della loro manifestazione in un campo di pubblica evidenza. Approfondita l’analisi del momento sostanziale, l’A. evidenzia come i valori giuridici sono necessariamente valori sociali mentre non è sempre vero il contrario, chiarendo che <<dire che un valore è sociale significa assumere che la situazione alla quale il valore nella sua struttura relazionale si riferisce è importante per la società; e una situazione è importante per la società se influisce, positivamente o negativamente, sugli interessi che nella loro connessione e globalità definiscono un dato tipo di vita sociale>>.

(17) Già la circostanza che il valore della legalità è assunto a tutela a livello costituzionale dovrebbe fare intuire la risposta. Sempre A. Falzea, Introduzione alle scienze giuridiche, cit., p. 406, fornisce insegnamenti utili allo scopo che ci prefiggiamo: <<Tutti gli interessi sociali concorrono a formare l’interesse fondamentale, ma ciò che soprattutto vale a caratterizzarlo è l’insieme degli interessi che stanno al vertice della gerarchia. Gli interessi sommi, le opzioni essenziali delle comunità umane, conferiscono al tipo di vita i suoi tratti caratteristici e lo differenziano dal tipo di vita di ogni altra comunità di uomini… in ragione della loro superiore importanza le società contemporanee riconoscono a questi interessi una posizione diversificata nel sistema giuridico rispetto ai restanti interessi, consacrandoli in principi dotati all’interno del sistema di una validità e di una efficacia non soltanto incondizionata, ma anzi in grado di condizionare la validità e l’efficacia di tutte le altre regole nelle quali si rispecchiano giuridicamente tutti gli altri interessi sociali. Il corpus di tali principi fondamentali, di solito anche topograficamente separato nella trama formale dell’ordinamento giuridico, va a costituire nelle società odierne l’aspetto eminente di quell’insieme di regole superiori alle quali viene dato il nome di Costituzione>>

(18) L’importanza del fattore tempo nel processo penale è messa in evidenza da M. Cusatti, Il decorso del tempo ed il processo penale alla luce del nuovo art. 111 della Costituzione, Documento Internet in Penale.it, per il quale <<solo un processo che assicuri una sanzione effettiva e relativamente celere può costituire un idoneo deterrente rispetto a tecniche dilatorie o addirittura ostruzionistiche, perché altrimenti nulla potrà mai realmente "sterilizzare" l’incidenza del decorso del tempo rispetto all’esito del processo penale>. Per l’Autore <<può dirsi "ragionevole la durata di un processo penale che risulti necessaria e sufficiente, nel contempo, a verificare la fondatezza dell’ipotesi d’accusa e ad assicurare il rispetto delle garanzie per la difesa ritenute irrinunciabili in un dato contesto storico>>.

(19) Basta pensare, per rendersene conto, alla serie di sentenze che, a partire dalla famosa 255/92 ed in nome del principio di non dispersione della prova, ha modificato in maniera profonda l’assetto del codice di procedura penale del 1988. Sul tema è ritornato, giorni fa, il Tribunale di Firenze il quale, con una ordinanza datata 4 aprile 2001 (documento reperibile sul sito Internet Penale.it ) ha sollevato una questione di legittimità costituzionale dell’art. 500, comma 2 c.p.p. nel testo introdotto dall’art. 16 della legge 63/2001.

(20) La contraddittorietà delle scelte effettuate nell’art. 391 bis, ultimo comma c.p.p. rispetto ai principi fondanti il processo penale accusatorio è stata evidenziata da V. Santoro, L’anomalia degli accertamenti tecnici irripetibili, cit., pp. 78 ss., ove si parla espressamente di vulnus ai caratteri essenziali del processo accusatorio: <<I cardini fondamentali del rito accusatorio (parità delle parti, oralità e immediatezza) passano qui in secondo piano ed è singolare che ciò avvenga a opera di una legge che per più versi persegue l’obiettivo opposto, imprimendo maggior peso e significato alle indagini difensive e concorrendo alla più incisiva delimitazione dei connotati di "parzialità" dell’organo della pubblica accusa… compare una norma che va in controtendenza, realizzando in un solo contesto una notevole collezione di vistose deroghe: … al principio di immediatezza, il quale esige, in sé e nella specifica variante del principio di immutabilità e identità fisica del giudice, che vi sia piena e puntuale coincidenza tra colui che acquisisce la prova e colui che decide sull’innocenza e la colpevolezza>>.

(21) Appare evidente l’applicabilità di questa disposizione alle ipotesi di mutamento della persona fisica del giudice, anche se questo aspetto sembra sfuggire a E. Marzaduri-D. Manzione, Nuove contestazioni per un reale contraddittorio, in Guida al diritto, 13 gennaio 2001, n. 1, pp. 78 ss.

(22) Infatti ha fatto salva l’ipotesi in cui la riassunzione sia divenuta impossibile.

(23) E’ una tesi recentemente ribadita e che si incontra già in Cass. penale, 11 maggio 1992, Cannarozzo.

(24) Soltanto una visione superficiale del processo penale può fare pensare che sia indifferente al processo stesso ed alle sue finalità la connotazione personale dell’organo giudicante. Nel sistema processuale italiano il giudice non è mero spettatore di una contesa tra parti contrapposte, ma dispone di poteri istruttori particolarmente rilevanti ed il cui modo di esercizio ha talvolta rilievo determinante ai fini dell’accertamento dei fatti. Per esempio, capita spesso nell’esperienza giudiziaria che l’inattendibilità di un testimone venga smascherata, anziché dalle parti durante il controesame, dal giudice. Dunque non è indifferente, per il perseguimento dei fini stessi del processo, che la conduzione del dibattimento sia affidata ad un giudice anziché ad un altro ma per valorizzare questo profilo dell’immediatezza anche nell’ambito della vicenda del mutamento della persona fisica del giudice occorre necessariamente affidare al nuovo giudicante funzioni di direzione effettiva del processo, il che può accadere soltanto rinnovando il dibattimento mediante l’effettiva acquisizione della prova dichiarativa.

(25) Chiamata a decidere su una questione di legittimità costituzionale degli artt. 487, 5 comma e 446, 1 comma del codice processuale, nella parte in cui non consentivano all’imputato dichiarato contumace che avesse successivamente, prima della decisione, fornito la prova del suo legittimo impedimento, di chiedere il patteggiamento, la Corte fece ricorso all’istituto della restituzione in termine (art. 175 c.p.p.) per ammettere la richiesta di patteggiamento sopravvenuta, con questa precisazione: <<…l’istituto dell’applicazione della pena su richiesta delle parti… deve subire un inevitabile adattamento, ricavabile dal sistema. Invero, tale evenienza certamente non può comportare alcuna sorta di annullamento dell’attività legittimamente compiuta… Deve, pertanto, ritenersi da un lato che nulla impedisce che il rito speciale in esame, nella ipotesi di restituzione nel termine ai sensi dell’articolo 175 del codice di procedura penale, trovi collocazione nel corso del dibattimento e, dall’altro, che in tal caso esso non possa non operare alla luce della istruzione dibattimentale svoltasi sino a quel momento, con la conseguenza che sia il consenso delle parti, sia il controllo del giudice… dovranno avvenire sulla base del complesso degli atti fino allora compiuti>>.

(26) Spetta alle parti saper valorizzare questo momento di dialettica processuale perché, a meno che non lo si voglia appiattire al rango di mera fictio, esso, come tutti i momenti deputati ad ospitare il contributo delle parti <<offre la concreta misura delle rispettive prospettazioni, fornendo al giudice quel patrimonio di conoscenze che ben può porlo in condizione di operare, ratione cognita, le scelte previste dalla norma>> (Corte costituzionale, sent. n. 91 del 1992). Spetta invece alla Suprema Corte vigilare affinché il dovere motivazionale del giudice non sia eluso attraverso il ricorso a formule di rito del tipo: <<ritenuto non necessario procedere alla rinnovazione mediante nuova acquisizione…>>. Il giudice dovrà – per assolvere con pienezza al proprio ruolo – esplicitare il proprio convincimento su ogni specifica esigenza prospettata dalle parti e su ogni argomentazione che sorregge la richiesta di riassunzione della prova.

(27) Recita infatti l’art. 495, comma 2 c.p.p.: <<Quando è stata ammessa l’acquisizione di verbali di prove di altri procedimenti, il giudice provvede in ordine alla richiesta di nuova assunzione della stessa prova solo dopo l’acquisizione della documentazione relativa alla prova dell’altro procedimento>>.

(28) C. Nordio, Per assicurare un futuro al giusto processo una nuova Costituzione senza più compromessi, in Guida al diritto, 7 aprile 2001, n. 13, p. 5.

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