Leonardo Suraci, L’art. 275 bis del Codice di Procedura Penale tra implicazioni sistematiche e risvolti pratici
Con l’entrata in vigore del decreto legge 24 novembre 2000, n. 341 si è, da più parti e con accenti diversi, gridato: arriva il braccialetto elettronico!
L’esclamazione, per vero poco rispondente alla realtà, ha dominato nei mass media.
Evidente l’impressione che deve avere generato l’art. 16 del decreto su menzionato (l’ennesimo decreto anti-scarcerazioni), sotto il profilo delle conseguenze destinate a prodursi nella sfera delle persone che di esso saranno destinatarie.
Ci sarà stato chi, colpito dal c.d. effetto annuncio [1] , avrà già immaginato di vedere il “nemico” (perché debba essere considerato tale non si riesce ancora a capirlo) extra comunitario con un bel braccialetto al piede che indica alla polizia cosa egli stia facendo in quella determinata ora di quella determinata giornata.
E’ proprio sulle conseguenze complessive della norma in esame che questo lavoro si sofferma, poiché soltanto un approccio superficiale potrebbe condurre ad attribuire un rilievo puramente operativo ad una norma in sé destinata a regolare le modalità applicative della misura cautelare degli arresti domiciliari, in particolare consentendo al giudice la prescrizione di peculiari ed innovative tecniche di controllo (talmente innovative che non si sa ancora in che cosa consistano!).
Un esame attento evidenzia invece come la norma introduca delle novità ben più rilevanti rispetto a quelle legate alla materialità della considerazione dell’avvento della tecnologia in funzione di controllo nel settore delle misure cautelari.
Essa rappresenta, forse senza che di questo il legislatore avesse consapevolezza, una produzione ricca di risvolti teorici, dagli effetti destinati ad influire sull’intero sistema delle misure cautelari.
Innanzitutto il testo del nuovo art. 275 bis c.p.p., introdotto dall’art. 16, comma 2 del decreto in questione: <<Nel disporre la misura degli arresti domiciliari anche in sostituzione della custodia cautelare in carcere, il giudice, se lo ritiene necessario in relazione alla natura e al grado delle esigenze cautelari da soddisfare nel caso concreto, prescrive procedure di controllo mediante mezzi elettronici o altri strumenti tecnici, quando ne abbia accertato la disponibilità da parte della polizia giudiziaria. Con lo stesso provvedimento il giudice prevede l’applicazione della misura della custodia cautelare in carcere qualora l’imputato neghi il consenso all’adozione dei mezzi e strumenti anzidetti>>.
Il percorso valutativo che il giudice è chiamato a compiere appare – alla luce del dettato normativo – ricostruibile nel senso che egli debba muovere dalla considerazione che le esigenze cautelari da soddisfare nel caso concreto, ritenute sotto il profilo del grado e della natura, devono essere tali da non rendere necessaria l’applicazione della custodia cautelare in carcere.
Trattasi di una valutazione che nell’economia dell’art. 275 bis c.p.p. assume carattere preliminare, imposta dal più generale “principio di adeguatezza”, così come specificato per effetto dell’inserimento, ad opera dell’art. 16, comma 1, di un comma 1 bis all’art. 275 c.p.p [2] .
Che la modifica da ultimo citata non fosse necessaria, come ammettono gli stessi relatori: <<… è immanente - la considerazione delle possibilità di controllo delle prescrizioni imposte all’imputato - ad ogni valutazione del giudice in materia ma che, finora, non è mai stato normativamente precisato>> è quanto meno dubbio [3] , alla luce della giurisprudenza sul tema formatasi negli ultimi anni. Essa ha escluso che la custodia in carcere possa essere disposta solo sulla base del rilievo che la difficoltà dei controlli richiesti dalla misura degli arresti domiciliari rendeva questi ultimi insufficienti (Cass., 2 febbraio 1996, Presente, CED Cass., n. 204429 e, più chiaramente, Cass., 11 ottobre 1996, Alice, CED Cass, n. 206441 [4] . Nello stesso senso Cass. 6 marzo 1997, Zito, CED Cass, n. 207321). Si aggiunga che trattasi di rilievi quanto mai opportuni, perché non possono farsi ricadere sull’imputato/indagato le conseguenze dell’inefficienza del sistema statuale di controllo (magari determinata da ristrettezze del bilancio dello Stato), pena lo snaturamento del principio stesso, il quale, nella versione fornita dall’art. 275, comma 1 c.p.p. (<<Nel disporre le misure, il giudice tiene conto della specifica idoneità di ciascuna in relazione alla natura e al grado delle esigenze cautelari da soddisfare nel caso concreto>>) indicando nei parametri della natura e del grado delle esigenze cautelari la base e l’essenza dell’analisi giudiziale, si erge a presidio della libertà personale, imponendo al giudice – nell’esercizio del suo potere discrezionale – di applicare quella misura che appaia idonea soddisfare le esigenze cautelari e che restringa – appunto – la libertà personale dell’interessato nella sola misura necessaria e sufficiente a tale scopo, senza sacrifici inutilmente vessatori.
Esclusa dunque l’esigenza di ricorrere alla misura più grave per afflittività, tant’è vero che il giudice ritiene sufficientemente satisfattiva la misura della detenzione domiciliare (…anche in sostituzione della custodia cautelare in carcere…), all’organo decidente si impone una nuova analisi della situazione di fatto sottoposta alla sua cognizione. Deve soffermarsi ulteriormente sulle esigenze cautelari e completare l’opera di “perimetrazione” delle stesse, ossia, delimitatane la gravità verso l’alto (l’organo della cautela non l’ha ritenuta tale da esigere l’applicazione della misura custodiale in carcere) deve definirne la gravità verso il basso. Può darsi, infatti, che le esigenze cautelari in concreto sussistenti siano connotate da una natura ed un grado tali che le restrizioni suscettibili di sostanziare la misura cautelare per tradizione collocata al secondo posto nella scala graduata alla luce del principio di afflittività (arresti domiciliari) non siano in sé sufficienti ad assicurarne il soddisfacimento.
Ecco l’innovazione: il giudice può prescrivere una particolare modalità d’attuazione della misura degli arresti domiciliari, imponendo (!) l’utilizzo di strumenti di controllo di natura elettronica o di altri – indefiniti – strumenti tecnici.
Invero, dall’innovazione normativa ed in particolare dall’univocità del parametro che sorregge la valutazione giudiziale delle esigenze cautelari – natura e grado di esse – emerge che il giudice può trovarsi a dover fronteggiare esigenze catalogabili in tre categorie (chiaramente l’analisi è limitata alle misure coinvolte dalla modifica normativa oggetto d’esame):
Ø esigenze cautelari di gravità massima, suscettibili di soddisfacimento esclusivamente attraverso l’applicazione della misura custodiale in carcere;
Ø esigenze cautelari di gravità media, tali che, per il soddisfacimento di esse, non è necessaria la custodia in carcere essendo sufficiente la misura degli arresti domiciliari con prescrizione di modalità tecniche di controllo;
Ø esigenze cautelari di gravità minima, al soddisfacimento delle quali provvede con sufficienza la misura degli arresti domiciliari, più o meno afflittiva a seconda delle imposizioni giudiziali disposte tra quelle previste dall’art. 284 c.p.p.
Un aspetto va subito assicurato alla chiarezza. Gli arresti domiciliari con prescrizione di accorgimenti tecnici di controllo non costituiscono un’autonoma misura cautelare, intermedia rispetto agli arresti domiciliari “tradizionali” ed alla custodia cautelare. Infatti, al soddisfacimento delle esigenze cautelari di gravità media provvede la misura di cui all’art. 284 c.p.p., connotata da prescrizioni ultronee a quelle dalla stessa norma previste.
Ostano alla configurazione di un’autonoma misura coercitiva la chiarezza del dettato normativo – si tratta, come testualmente recita la rubrica dell’art. 275 bis c.p.p. di <<particolari modalità di controllo>> delle prescrizioni imposte all’imputato/indagato (rileva, sotto questo profilo, il rapporto con l’ art. 275, comma 1 bis c.p.p.) – nonché la circostanza che l’applicazione concreta degli strumenti tecnici di controllo è subordinata al consenso dell’imputato/indagato. Invero è estraneo ad un sistema cautelare che affida la verifica dei presupposti applicativi e le scelte conseguenti esclusivamente al giudice (salvi i limiti insiti nella necessaria richiesta del pubblico ministero) un meccanismo di individuazione (della tipologia) della misura “adeguata” fondato su una manifestazione di volontà vincolante dell’imputato/indagato. La stessa relazione fornisce una “interpretazione autentica” della volontà legislativa, ove precisa che <<non si tratta di creare nuove misure alternative alla detenzione o alla custodia cautelare in carcere, quanto, piuttosto, di disciplinare un nuovo strumento di controllo applicabile, nei casi in cui ciò sia possibile, alle misure esistenti>>. Certo, resta da capire la ragione dell’inserimento di un nuovo articolo nel capo I (Disposizioni generali) del Libro IV. In fin dei conti, la norma contempla prescrizioni concernenti le modalità applicative di una misura ben definita (arresti domiciliari), di natura - a quanto pare – non dissimile da quelle contenute nell’art. 284 c.p.p. (anche se dal testo dell’art. 275 bis c.p.p. non emerge con chiarezza se trattasi di prescrizioni di sostanza della misura ovvero di accorgimenti volti a consentire un più efficace controllo dell’osservanza delle prescrizioni tipiche degli arresti domiciliari) e non sarebbe stato traumatico dal punto di vista sistematico un ampliamento della norma da ultimo citata. Ma forse il legislatore ha voluto predisporre già da oggi un contenitore idoneo ad accogliere – con pochi accorgimenti di carattere formale – le novità scaturenti dall’estensione ad altre misure cautelari delle procedure di verifica tecnica oggi (!) utilizzabili soltanto in relazione agli arresti domiciliari (Si legge nella relazione governativa: <<…anche in considerazione dello stato attuale dell’evoluzione tecnica, appare preferibile per il momento limitare il suo impiego alle sole misure alternative alla detenzione… che non prevedano fisiologicamente mobilità sul territorio della persona ad esse sottoposta, e quindi agli arresti domiciliari ed alla detenzione domiciliare).
Sgombrato il campo da possibili - quanto improbabili – equivoci, si impone una riflessione che mette in evidenza un salto teorico di notevole rilievo e frutto di gravi ripercussioni sul piano pratico.
L’art. 275 bis c.p.p. è una norma efficace dal giorno della pubblicazione del decreto [5] , tuttavia allo stato inapplicabile nel suo profilo operativo, non potendo il giudice ordinare l’utilizzo di “inesistenti” strumenti tecnici di controllo delle prescrizioni imposte all’imputato/indagato agli arresti domiciliari. Di questo il legislatore è ben consapevole, tanto da delegare ad un decreto del Ministro dell’Interno la determinazione delle <<modalità di installazione ed uso>>, nonché l’individuazione dei <<tipi e delle caratteristiche dei mezzi elettronici e degli altri strumenti tecnici>> preposti al controllo dei soggetti in stato di detenzione domiciliare (art. 19). Inoltre, una volta varato il decreto ministeriale (quando? Non è fissato nemmeno un termine per l’attuazione della delega!) occorrerà attendere che gli strumenti di controllo siano materialmente costruiti e quindi posti a disposizione della polizia giudiziaria (la disponibilità da parte della quale deve essere previamente accertata dal giudice).
La norma dell’art. 275 bis c.p.p. – tuttavia – è perfettamente applicabile nella parte in cui amplia lo spettro delle valutazioni che il giudice della cautela è chiamato a compiere in sede di determinazioni inerenti alla scelta della misura da applicare al caso concreto, non rinvenendosi da nessuna parte una norma che ne sospenda l’efficacia, magari in attesa che il Ministero dell’Interno abbia assolto al proprio compito.
Tanto premesso, come dovrebbe orientarsi un giudice qualora ritenga che i fatti concreti sottoposti alla sua cognizione – ai fini della verifica della sussistenza delle condizioni di applicabilità di una misura cautelare – facciano emergere esigenze cautelari di gravità media, ossia satisfattibili attraverso l’applicazione degli arresti domiciliari con prescrizione di accorgimenti tecnici di controllo?
Le due soluzioni possibili sono entrambe insoddisfacenti:
Ø si applica la misura degli arresti domiciliari “semplici” (art. 284), lasciando così privo di copertura un margine di esigenze cautelari, esattamente quello che avrebbe dovuto essere soddisfatto con l’applicazione in concreto degli strumenti tecnici di verifica giudizialmente prescritti (oggi impossibile);
Ø si applica la custodia cautelare in carcere, imponendo così all’imputato/indagato un surplus di afflizione, chiaramente ingiustificato ed inutilmente vessatorio (con buona pace dell’esigenza, che nella relazione governativa si dice di avvertire, che il ricorso alla permanenza in carcere <<costituisca ciò a cui è possibile pervenire solo quando altri mezzi per conseguire gli scopi voluti siano preclusi>>).
Presupposto che, qualunque sia la soluzione prescelta, il principio di adeguatezza (art. 275, comma 1 c.p.p.) risulterà violato, la conclusione cui pervenire alla luce della considerazione della natura di principio fondamentale che la tutela della libertà personale assume nel nostro ordinamento (essa è definita – lo si ricorda – “inviolabile” dall’art. 13 della Costituzione) [6] , considerazione che ispira – come più volte riconosciuto dalla Corte costituzionale [7] – lo stesso sistema processuale cautelare [8] , è che il giudice dovrà necessariamente optare per la prima soluzione, a nulla valendo ragionamenti fondati su possibili sillogismi desumibili dall’art. 275, comma 3: poiché la custodia cautelare in carcere è applicabile qualora <<ogni altra misura cautelare risulti inadeguata>> e poichè il frammento di esigenze cautelari satisfattibile attraverso gli accorgimenti tecnici di controllo rende “inadeguata” la misura degli arresti domiciliari, non residua altra scelta che l’applicazione della custodia cautelare in carcere. Il rilievo che questa norma sia una specificazione del principio generale stabilito dall’art. 275, comma 1 c.p.p. e la ratio di garanzia da esso sottesa dovrebbero essere sufficienti ad escludere simili conclusioni.
In ogni caso, il percorso argomentativo che sorregge la statuizione del giudice dovrà essere esplicitato nella parte motiva dell’ordinanza e sarà indispensabile – nonchè giuridicamente corretto anche in funzione della garanzia di effettività del diritto di difesa, inteso nel profilo di <<facoltà di scegliere il quomodo difensivo previa valutazione informata e consapevole>> (Corte costituzionale, sent. 265/94) – una esplicita indicazione delle “effettive” esigenze cautelari – se sono di grado medio bisogna ammetterlo – e delle ragioni per le quali si opta per l’applicazione di una determinata misura, con l’aggiunta, per come richiesto dall’art 292, comma 2, lett. c bis c.p.p. nell’ipotesi in cui si applichi la custodia in carcere, della <<esposizione delle concrete e specifiche ragioni per le quali le esigenze di cui all’art. 274 non possono essere soddisfatte con altre misure>>.
Sarebbe apprezzabile che i giudici ammettessero in maniera chiara – nel motivare le loro ordinanze – che il ricorso alla custodia cautelare in carcere è determinato dalla mancanza degli strumenti tecnici di controllo i quali, ove esistenti, avrebbero evitato all’imputato/indagato una inutile afflizione, smascherando così il poco ortodosso utilizzo del proprio potere normativo da parte del legislatore.
Ancora meglio sarebbe se, prestando adesione all’orientamento della Corte di cassazione su esposto e cogliendo nella sua pienezza la ratio di garanzia del principio di adeguatezza, applicassero la misura degli arresti domiciliari nella versione oggi possibile, facendo gravare sul legislatore la “circolazione” sul territorio dello Stato di esigenze cautelari insoddisfatte.
La cosa peggiore che i giudici potrebbero fare sarebbe attuare scelte deliberatamente protese al “camuffamento” della vera natura e grado delle esigenze cautelari in concreto esistenti, magari adagiandosi sugli orientamenti della Corte di cassazione che, nonostante le novità apportate all’art. 292 c.p.p. dalla legge 8 agosto 1995, n. 332 ritengono <<necessario e sufficiente che emerga dalla motivazione del provvedimento che la custodia cautelare in carcere è l’unica misura idonea a fronteggiare le esigenze processuali nel caso concreto [9] .
Le perplessità non mancano nemmeno volgendo lo sguardo oltre la realtà, ossia considerando attuale l’era dell’evoluzione tecnologica applicata al settore delle misure cautelari.
In altre parole, anche a voler ritenere applicabile nella sua parte operativa la disposizione contenuta nel nuovo art. 275 bis c.p.p. – fingendo che la polizia giudiziaria abbia già a disposizione i congegni tecnici di controllo che la norma prefigura – il grado di perplessità legato alle scelte contraddittorie del legislatore rimane elevato.
Anche questa analisi muove dalla lettera della legge: <<Con lo stesso provvedimento il giudice prevede l’applicazione della misura della custodia cautelare in carcere qualora l’imputato neghi il consenso all’adozione dei mezzi e strumenti anzidetti>> (art. 275 bis c.p.p., comma 2).
Dunque, qualora il giudice ritenga la sussistenza di esigenze cautelari (da noi definite) di grado intermedio, applicherà la misura degli arresti domiciliari disponendo che il controllo dell’osservanza delle relative prescrizioni avvenga attraverso l’impiego di strumenti tecnici, previa verifica della disponibilità di essi da parte della polizia giudiziaria.
Invero il provvedimento impositivo del giudice non è in sé sufficiente a produrre le conseguenze materiali in esso prescritte. L’utilizzo dei mezzi tecnici di controllo è infatti condizionato al consenso dell’interessato.
Un consenso – si badi – che ha una duplice valenza condizionante in senso sospensivo: da un lato, il suo sopravvenire condiziona l’applicazione della misura degli arresti domiciliari, dall’altro il suo diniego condiziona l’applicazione della custodia cautelare.
Come si vede, nella procedura applicativa di misure cautelari fa il suo ingresso il negozio giuridico!
E sì, perché il co-elemento di (attribuzione di piena) efficacia del provvedimento giudiziale è un vero e proprio negozio giuridico processuale attraverso il quale si realizzano i convergenti interessi dei soggetti interessati: quello del privato ad evitare il carcere e quello dello Stato a fare un po’ di spazio negli istituti penitenziari (di questa esigenza vi è traccia – peraltro – nella relazione governativa: <<… avvertita l’esigenza che il ricorso alla permanenza in carcere, anche per i riflessi sul delicato problema del sovraffolamento degli istituti…>>.
Il provvedimento del giudice, nella parte in cui dispone l’applicazione della misura detentiva domiciliare con prescrizione di verifiche mediante mezzi tecnici è sospeso nella sua efficacia fino alla conclusione del sub-procedimento da esso ingenerato, conclusione da individuare – probabilmente nella maggior parte dei casi – nell’accettazione dell’interessato, quest’ultima disciplinata in modo dettagliato dal decreto (art. 275 bis, comma 2 c.p.p.).
Dunque, un negozio unilaterale e solenne!
Accettando l’applicazione degli accorgimenti tecnici proposti, il cittadino “si sottopone” agli obblighi propri della misura coercitiva prevista dall’art. 284 c.p.p., assumendo altresì il dovere di agevolare la procedura di installazione degli strumenti di controllo e di osservare le ulteriori prescrizioni impostegli (da chi?) (art. 275 bis, comma comma 3 c.p.p.).
Per contro, lo Stato vede sorgere in capo a sé il “potere” di applicare in concreto la misura degli arresti domiciliari all’imputato/indagato.
Può sembrare improprio posticipare il momento dell’insorgenza del potere statuale di applicare la misura, dal momento che la fonte è sempre il provvedimento del giudice, ma non sembra prospettabile altra costruzione teorica: lo Stato, con il provvedimento giudiziale, ordina che ad un determinato soggetto venga applicata la misura degli arresti domiciliari. La sua pretesa è, però, paralizzata fin quando l’interessato, sciogliendo la riserva, non avrà realizzato la condizione sospensiva dell’effetto giuridico.
Si può parlare, chiudendo sul punto, di provvedimento giudiziale “condizionato” [10] .
Se questa è l’impostazione, appare quanto mai riduttivo affermare – come fa il legislatore – che <<l’imputato accetta i mezzi e gli strumenti di controllo di cui al comma 1 ovvero nega il consenso all’applicazione di essi>>. Se manca il consenso dell’imputato/indagato il giudice non potrà applicare l’unica misura disposta in via diretta con il suo provvedimento (l’applicazione della misura della custodia cautelare è soltanto “prevista”), ossia gli arresti domiciliari. Quindi l’imputato/indagato accetta o nega il consenso all’applicazione di una determinata misura cautelare, paralizzando in parte l’efficacia del provvedimento giudiziale.
Invero, quanto è stato in precedenza definito estraneo al sistema cautelare – ossia il coinvolgimento del potere negoziale privato – non lo è poi così tanto e ciò immette notevoli contraddizioni nel sistema
Infatti, se le finalità perseguite dal sub-sistema processuale cautelare hanno carattere pubblicistico, legate alla tutela di beni di primaria importanza per la conservazione stessa della comunità sociale, lascia sul campo non pochi dubbi l’idea dell’attribuzione di un’efficacia vincolante l’applicazione di una misura cautelare alla volontà del soggetto fonte del pericolo da cui cautelarsi.
Né vale ribattere che, comunque, l’interesse pubblico sarebbe garantito dall’applicazione della misura della custodia in carcere, perché il meccanismo delineato dal legislatore riverbera effetti pratici notevoli anche su tale profilo del provvedimento cautelare.
Infatti, per come congegnata, la norma da per scontato che il provvedimento cautelare pervenga alla conoscenza del destinatario (con le modalità previste dall’art. 293 c.p.p.) e ci siano quindi le condizioni materiali affinchè l’imputato/indagato possa manifestare le proprie determinazioni.
Se non che, il meccanismo normativo è su questo punto lacunoso e rischia di ingenerare un circolo vizioso in cui il contatto diretto con il destinatario del provvedimento cautelare funge da presupposto per il completamento della procedura applicativa. Quid iuris, infatti, se l’ufficiale o l’agente di polizia giudiziaria incaricato di eseguire l’ordinanza dispositiva della misura, non avendo rintracciato l’interessato, non ha potuto procedere ai sensi dell’art. 293 c.p.p.?
Teoricamente (ma non solo) l’intera procedura sarebbe bloccata e, non potendosi muovere alcun addebito all’imputato/indagato, non sarebbe possibile nemmeno dichiararne la latitanza.
Infatti, da quale misura si sarebbe volontariamente sottratto? Certamente non dagli arresti domiciliari, poiché il provvedimento è in parte qua ineseguibile e tale rimarrà fin quando non sarà intervenuto il consenso richiesto in ordine all’utilizzo di mezzi tecnici di controllo. Ma nemmeno dalla misura custodiale in carcere, essendo la sua applicazione soltanto “prevista” per l’ipotesi in cui l’imputato/indagato neghi il consenso all’utilizzo degli strumenti tecnici di controllo. Ed il diniego – si badi bene – deve, al pari del consenso, essere dichiarato in maniera espressa (lo dice esplicitamente il decreto: <<… ovvero nega il consenso all’applicazione di essi, con dichiarazione espressa …>>), essendo insufficienti meri fatti concludenti. Perché ciò accada, occorre però la materiale presenza dell’interessato, essendo – la facoltà di cui all’art. 275 bis c.p.p. – atto personalissimo insuscettibile, nel silenzio della legge, di formare oggetto di procura speciale.
Dunque, se l’interessato non presta il consenso all’applicazione degli strumenti tecnici di controllo, finisce inevitabilmente in carcere.
Apparentemente, si potrebbe pensare all’introduzione di una ulteriore ipotesi riconducibile all’art. 276 c.p.p. [11] . Si verserebbe però in errore, poiché la norma da ultimo citata ha inteso risolvere in termini generali il problema delle conseguenze dell’inosservanza delle prescrizioni che costituiscono il contenuto delle singole misure cautelari diverse dalla custodia in carcere, prevedendo la possibilità di sostituzione o cumulo delle stesse. Trattasi dunque di una norma sanzionatoria con cui l’ordinamento reagisce al comportamento trasgressivo dell’imputato/indagato al quale è già stata applicata una misura.
Invero, nel caso previsto dall’art. 275 bis c.p.p. manca il presupposto della trasgressione di prescrizioni correlate ad una misura già imposta.
Merita approfondimenti ulteriori, invece, la verifica della possibilità di riferire la fattispecie all’istituto previsto dall’art. 299, comma 4 c.p.p [12] .
Questa norma, prescindendo dalla previa violazione di prescrizioni connesse ad una già applicata misura cautelare (è questo il senso delle eccezione formulata in apertura dalla disposizione in esame. Cfr. Cass., 23 dicembre 1996, Amuzu, CED Cass., n. 206881) rappresenta una coerente applicazione del principio di adeguatezza, il quale esige che in ogni stato e grado del procedimento la misura applicata sia necessaria e sufficiente a soddisfare le esigenze di cui all’art. 274 c.p.p. Pertanto il giudice, sulla base di una valutazione fondata esclusivamente sul grado delle esigenze cautelari può, su richiesta del pubblico ministero, sostituire la misura applicata con una più grave, ovvero disporne l’applicazione con modalità più gravose.
Un primo rilievo: anche questa norma presuppone che una misura cautelare sia in corso di applicazione, il che non è necessariamente richiesto dall’art. 275 bis c.p.p.
Ma a parte ciò, è da verificare se la ratio delle due disposizioni sia identica, ossia se anche l’art. 275 bis c.p.p. tende a fronteggiare un aggravamento di esigenze cautelari.
A tal proposito nessun aiuto perviene dalla relazione, la quale si limita ad evidenziare che, in caso di mancato consenso l’imputato/indagato finisce in carcere, quasi ad acclamare una portata sanzionatoria della norma, simile a quella che caratterizza l’art. 276 c.p.p.
Occorre allora ricostruire il possibile percorso intellettuale del legislatore alla luce del sistema ed in particolare del principio fondamentale di adeguatezza: il legislatore sembra postulare una situazione di fatto in cui le emergenze di cautela siano tali da richiedere – quale misura adeguata – gli arresti domiciliari con prescrizione di strumenti tecnici di controllo. La circostanza che il soggetto interessato non presti il proprio consenso all’utilizzo di siffatti strumenti dovrebbe operare da elemento di aggravamento delle esigenze cautelari originariamente esistenti. Dunque, l’esigenza cautelare originaria più il diniego danno vita ad una quadro esigenziale nuovo, di grado superiore rispetto a quello originario e sopprimile soltanto attraverso la detenzione in carcere.
Se questa è il ragionamento “immaginabile” che sorregge l’art. 275 bis c.p.p., non può negarsi l’identità di ratio tra le due norme.
Rimangono però una serie di interrogativi: come può considerarsi causa di aggravamento delle esigenze cautelari l’esercizio di una facoltà che l’ordinamento riconosce all’imputato/indagato? Egli, infatti, ha “diritto” di sottrarsi all’applicazione degli strumenti tecnici di controllo e, se teniamo conto del fatto che molteplici possono le ragioni di una scelta siffatta, non si vede come possa da ciò desumersi una spiccata inclinazione del soggetto a sottrarsi alla misura cautelare domiciliare.
E’ inoltre singolare che una misura cautelare sia disposta per fronteggiare esigenze cautelari nel loro grado e nella loro struttura non ancora attuali al momento in cui, con un unico provvedimento vengono disposte le due misure cautelari alternative.
Per vero, è già accaduto che un giudice applicasse con un unico provvedimento distinte misure. Si trattava però di misure destinate a succedersi l’una all’altra ed in tempi stabiliti, secondo un predefinito programma cautelare (Trib. Termini Imerese, 20 marzo 1993, Nicolosi) elaborato sulla base di una pronosticabile – al momento del titolo – degradazione successiva di esigenze cautelari. Ma, come si vede, il provvedimento era legato ad un pronostico di degradazione dell’entità delle esigenze cautelari e, in considerazione di ciò, si prevedeva una successione di misure progressivamente meno afflittive. Nel caso in esame, invece, riscontriamo una imposizione alternativa di misure che prescinde da qualsiasi valutazione in concreto in ordine all’andamento futuro delle esigenze cautelari (ed anzi si fonda su un’astratta previsione di accrescimento delle stesse) e che passa alla fase applicativa all’esito di una manifestazione di volontà negoziale del soggetto sottoposto al potere cautelare dello Stato.
C’è, poi, da rilevare che il passaggio dalla misura degli arresti domiciliari alla custodia in carcere avviene in forza di un automatismo legale che sembra privare il giudice di poteri di apprezzamento della situazione concreta: il giudice della cautela applica, infatti, due misure alternative, condizionando l’applicazione dell’una o dell’altra alla manifestazione di volontà dell’imputato/indagato.
Ciò sembra dover fare il giudice anche nell’ipotesi in cui il pubblico ministero si sia limitato, nella sua domanda di cautela, a chiedere gli arresti domiciliari.
Appare evidente l’incongruenza sistematica: il giudice applica, in questa specifica ipotesi, una misura non richiesta dal pubblico ministero, con evidente deroga al principio della “domanda cautelare”, principio ispiratore del sistema delle misure cautelari. [13]
La costruzione, come si vede, presenta crepe in più punti sicchè, per cercare di attenuare lo stress del sistema, occorre verificare la percorribilità di strade alternative.
Si potrebbe pensare, abbandonando l’impostazione su esposta, che il legislatore abbia ragionato nei termini seguenti: l’esigenza da soddisfare richiede l’applicazione degli arresti domiciliari con prescrizioni tecniche di controllo e tale rimane, sotto il profilo della gravità, anche dopo il dissenso dell’interessato. Tuttavia la manifestazione di volontà negativa renderebbe applicabili soltanto gli arresti domiciliari come configurati dall’art. 284 c.p.p., i quali però sono inadeguati rispetto all’esigenza cautelare in concreto esistente. Ecco allora, sulla scorta di una interpretazione letterale dell’art. 275, comma 3 c.p.p., crearsi i presupposti legittimanti l’applicazione della custodia in carcere.
Questa impostazione forse salverebbe la coerenza interna al sistema delineato dall’art. 275 bis c.p.p., ma comporterebbe una palese violazione del principio di adeguatezza con una conseguente ingiustificata afflizione suppletiva.
Residuerebbe una ulteriore, possibile costruzione teorica: il legislatore – si potrebbe pensare – ha ritenuto che le esigenze cautelari concrete siano satisfattibili con una qualsiasi delle due misure e pertanto, restando indifferente all’applicazione dell’una o dell’altra, ne rimette la scelta all’interessato. Così ragionando però, si darebbe vita ad una grave contraddizione interna all’art. 275 bis c.p.p. (il quale, è bene ricordarlo, parte dal presupposto che la misura applicabile sia quella degli arresti domiciliari) e, fatto ancor più grave, si postulerebbe l’esistenza di esigenze cautelari parimenti satisfattibili con due misure fortemente differenti in termini di afflittività. Trattandosi delle due misure poste al vertice della scala gerarchica, il principio di inviolabilità della libertà personale non potrebbe che condurre ad una dichiarazione di incostituzionalità della misura col grado afflittivo massimo (la custodia cautelare in carcere) perché per definizione inutilmente vessatoria.
In conclusione, la previsione del consenso dell’imputato/indagato quale condizione di applicazione degli accorgimenti tecnici di controllo dell’osservanza delle prescrizioni inerenti agli arresti domiciliari ha prodotto non poche contraddizioni all’interno del sistema normativo.
Probabilmente il legislatore, nell’elaborare il decreto (sul punto convertito senza modificazioni) si è lasciato suggestionare dall’immagine di un soggetto che tenta con tutte le forze di divincolarsi dalla morsa degli agenti che, tenendolo fermo, gli applicano il famoso braccialetto.
Ma, a parte la scarsa suggestione che ingenera l’identica scena con protagonista il soggetto che, scovato dagli agenti nel luogo di latitanza, lotta per non “andare in carcere”, occorre chiedersi se il consenso fosse complemento giuridicamente necessario. Per alcuni profili la risposta ci è fornita dalla relazione governativa: <<… Né il ricorso a forme di monitoraggio elettronico, ovvero di altri meccanismi che consentono la verifica a distanza dell’adempimento degli obblighi, deve temersi possa conculcare diritti non comprimibili. Se è vero infatti che il rispetto della vita privata e familiare rappresenta un contenuto eminente dei diritti riconosciuti dalla Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali, tuttavia proprio l’art. 8 della Convenzione che tali diritti fonda legittima, al comma 2, l’ingerenza dell’autorità pubblica con misure previste dalla legge quando ciò sia necessario alla difesa, tra l’altro, dell’ordine e alla prevenzione dei reati>>.
Rimane scoperto l’aspetto della compatibilità con il principio della “inviolabilità della libertà personale” di un sistema di applicazione coattiva dello strumento di verifica tecnica.
Premesso che, sul punto, molto dipende dal tipo di strumentazione utilizzata e dal grado più o meno intenso del coinvolgimento del corpo umano nell’installazione di essa, è fondamentale compiere una breve analisi sull’ampiezza della tutela apprestata dall’art. 13 della Costituzione.
L’attenzione si appunta, innanzitutto, sul comma 4 della norma citata, a tenore del quale: <<E’ punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà>>. Emerge dai lavori preparatori che il Costituente non intese dotare la norma di portata assoluta, essendo essa il frutto di una mediazione che accettava nella sostanza le diverse proposte presentate; in particolare, quella dell’On. La Pira: <<Ogni forma di rigore e coazione, che non sia necessaria per venire in possesso di una persona o per mantenerla in stato di detenzione, così come ogni pressione morale o brutalità fisica specialmente durante l’interrogatorio, è punita >> e quella dell’On. Moro: <<E’ proibita ogni forma di violenza contro ogni cittadino fermato, arrestato o detenuto>> [14] . Dunque, dalla disposizione in esame non derivano impedimenti di carattere dirimente, potendosi far ricorso a forme di coazione per mantenere un soggetto in stato di detenzione (anche domiciliare).
Alla stessa conclusione si perviene se si guarda all’art. 13 nel suo complesso senza eccessive rigidità, tenendo sempre conto di quel rapporto di mutua alimentazione che lega le fonti di grado diverso e per il quale le fonti di grado inferiore concorrono nel definire il significato dei principi espressi dalle fonti di rango superiore. Quest’approccio induce a tenere presenti, nel momento in cui si legge l’art. 13, le istanze di sicurezza che promanano dal corpo sociale in un determinato momento storico e che il legislatore ordinario fa proprie [15] . Se ci si attiene a questa impostazione anche l’art. 13 della Costituzione, complessivamente considerato, fa salva la possibilità di un intervento coattivo.
D’altra parte, anche nella giurisprudenza costituzionale è dato individuare elementi di sostegno alla tesi che si afferma. Infatti, nelle sentenze nn. 20 e 30 del 1962 e n. 54 del 1986 la Corte ha ritenuto esclusa dall’ambito di operatività della garanzia costituzionale le limitazioni alla libertà fisica <<di lieve entità>>.
E’ utile, ancora, un esame comparato della norma che si commenta (art.275 bis c.p.p.) con l’art.349, comma 2 c.p.p.: <<Alla identificazione della persona nei cui confronti vengono svolte le indagini può procedersi anche eseguendo, ove occorra, rilievi dattiloscopici, fotografici e antropometrici, nonché altri accertamenti>>. Questa norma, come si vede, contempla un tipo di attività eseguibile dalla polizia giudiziaria di propria iniziativa (e quindi meno garantita di quella caratterizzata dall’intervento giurisdizionale), coattivamente ed anche al di là – almeno si ritiene – dei presupposti indicati ne comma 4.
Un cenno, infine, all’opinione dottrinale formatasi in relazione all’art. 277 c.p.p. [16]
La norma, intesa ad affermare <<un principio di civiltà elementare ma non tanto ovvio da essere sempre osservato>> [17] , costituisce un baluardo a difesa dei diritti della persona sottoposta ad una misura cautelare. Tuttavia, si specifica come la tutela non sia illimitata, dovendo circoscriversi a quelle situazioni giuridiche il cui esercizio non sia incompatibile con la misura sicché la restrizione appaia giustificata al fine di garantire le esigenze di cautela del caso concreto [18] .
Alla luce di quanto esposto, appare chiaro che, essendo l’applicazione degli strumenti tecnici di controllo immediatamente necessaria ai fini della cautela, sussistono ampi margini per l’ammissibilità dell’impiego (anche) coattivo di mezzi (anche) direttamente coinvolgenti il corpo della persona [19] .
Non possono però negarsi le evidenti ragioni di opportunità che stanno alla base della scelta governativa: è infatti ragionevole ritenere che il soggetto a cui sia stato applicato “con la forza” il famoso braccialetto lo distruggerà non appena saranno andati via gli agenti.
Sul piano giuridico sarebbe stato, però, probabilmente sufficiente affidarsi all’efficacia general-preventiva che promana dalla norma di diritto penale sostanziale contenuta nell’art. 18 del decreto.
Anzi, a non voler arrivare a tanto, sarebbe bastata una formulazione più meditata degli artt. 16, comma 3 e 17 del decreto.
Perché, diciamocelo con franchezza, cosa non si farebbe per evitare il carcere!?
Leonardo Suraci - gennaio 2001
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[1] Trattasi di espressione utilizzata, in modo pertinente, da G. Frigo, Rimedi apparenti e nuove involuzioni, in Guida al diritto, 16 dicembre 2000, n. 45, pp. 88 ss.
[2] Sulla ratio di garanzia di questo principio si esprime in termini cristallini G. Amato, Commentario Amodio-Dominioni, vol. III, 2, p. 42: <Il principio di adeguatezza delle misure cautelari esprime l’esigenza che vi sia una necessaria corrispondenza tra le ragioni cautelari da tutelare nel caso concreto e la misura al riguardo adottata o da adottare, di tale che il giudice, nell’esercizio del suo potere discrezionale, deve applicare quella misura che appare idonea a soddisfare le esigenze cautelari e che restringa la libertà personale dell’imputato nella sola misura necessaria e sufficiente a tale scopo, senza sacrifici inutilmente vessatori>>.
[3] La ritiene, invece, <<una letterale specificazione di qualcosa che già poteva e doveva ricavarsi dall’art. 275, comma 1, del codice di procedura penale>>, G. Amato, Prove generali per il braccialetto elettronico, in Guida al diritto, cit., pp. 78 ss. Per cui, dice lo stesso A. <<volendosi dare un senso operativo e cogente a una disposizione che, come si è visto, non costituisce altro che un’ulteriore puntualizzazione del principio di adeguatezza, bisogna intenderla nel senso che, ora, il giudice è tenuto a coinvolgere necessariamente, nella procedura di adozione delle misure diverse dalla custodia cautelare, o, almeno, di quella degli arresti domiciliari, gli organi di polizia preposte al controllo delle prescrizioni, onde verificare, in via preventiva, ma concreta, l’idoneità della misura stessa a essere verificata nella sua esecuzione>>.
[4] Si apprezzi la chiarezza della massima: <<L’astratta possibilità che per l’inefficacia dei controlli l’indagato possa allontanarsi dal domicilio non vale ad escludere l’idoneità degli arresti domiciliari a prevenire le esigenze di cautela>>.
[5] Sul carattere bizzarro di simile scelta si esprime G. Frigo, Rimedi apparenti e nuove involuzioni, cit.: <<E il primo che osi dire che questo è uno scherzo in procedura penale avrà i guai suoi!>>.
[6] Inoltre, sia la Convenzione europea per la Salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà Fondamentali sia il Patto internazionale sui Diritti Civili e Politici, sia, infine, la Carta dei Diritti dell’Unione Europea ne fanno oggetto di un vero e proprio diritto dell’individuo. Sul punto cfr. P. Caretti, Libertà personale, in Dig./Pub., IX, pp. 232 ss., il quale, dopo aver citato un complesso di disposizioni costituzionali, mette in evidenza come da esso emerge <<non solo un’articolata trama di garanzie di ordine formale, ma che toccano in profondità gli stessi presupposti dell’azione repressiva dello Stato, dando corpo ad una nozione di libertà personale quale situazione soggettiva caratterizzata da un contenuto, in linea di principio, non suscettibile di subire interferenza, e dunque quale diritto soggettivo perfetto sia nei confronti dei privati che nei confronti dei pubblici poteri>>.
[7] Della quale v., per una chiara applicazione del principio, da ultimo, le sentenze nn. 232 e 292 del 1998.
[8] E’ in proposito sintomatico che il Patto internazionale sui Diritti Civili e Politici, nella stessa norma che proclama il diritto dell’individuo alla libertà personale, specifichi che <<La detenzione delle persone in attesa di giudizio non deve costituire la regola…>>. Sul punto v., ancora, P. Caretti, cit., il quale desume il carattere eccezionale della custodia cautelare – ma le valutazioni sono idonee ad estendersi a tutte le forme di restrizione ante iuditium – dall’art. 294 c.p.p. (il quale fissa un termine perentorio per l’interrogatorio del custodito, pena l’estinzione della misura) nonché dall’art. 3°3 c.p.p. (il quale fissa termini di durata relativi a ciascuna fase del procedimento).
[9] Cfr., Cass., 14 marzo 1996, Shkelquim, CED Cass. n. 205457, nonché Cass., 29 maggio 1996, Senesi, CED Cass., n. 205474. In queste decisioni, non senza confusione, si è arrivati ad affermare che la precisazione introdotta nell’art. 292, comma 2, lett. c) c.p.p. dall’art. 9, comma 1, l. 8 agosto 1995, n. 332, nella parte in cui si dispone debbano essere esposte <<le concrete e specifiche ragioni per le quali le esigenze di cui all’art. 274 non possono essere soddisfatte con altre misure>>, non ha sostanzialmente modificato la disciplina precedente, espressa dal principio fissato dall’art. 275, comma 3 c.p.p. Molto più garantista Cass., 21 luglio 1992, Giardino, la quale, sebbene antecedente alla modifica citata, ha affermato che <<nel caso in cui venga richiesta la sostituzione della misura della custodia in carcere con quella degli arresti domiciliari, l’indagine che il giudice deve compiere volta ad accertare l’adeguatezza di quest’ultima presuppone l’individuazione delle esigenze cautelari da soddisfare e l’indicazione delle ragioni per le quali essa viene ritenuta, in ipotesi, non idonea allo scopo>>.
[10] Nel senso che, mentre il provvedimento giudiziale è perfettamente efficace nella parte in cui determina l’insorgenza, in capo agli ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria, dell’obbligo di attivarsi in funzione della sua concreta applicazione (ottemperando a quanto richiesto dall’art. 293 c.p.p.), non lo è a sufficienza per poter determinare ex sé l’applicazione della misura. Gli organi di polizia, infatti, venuti a contatto con il destinatario del provvedimento (se ciò non accade sono guai, ma ci si occuperà di questo profilo tra breve), non potranno compiere l’atto produttivo di effetti prescrittivi a suo carico, dovendone prima raccogliere il consenso.
[11] L’articolo (Provvedimenti in caso di trasgressione alla prescrizioni imposte), nella versione antecedente al decreto in questione, prevedeva:<<In caso di trasgressione alla prescrizioni inerenti a una misura cautelare, il giudice può disporre la sostituzione o il cumulo con altra più grave, tenuto conto dell’entità, dei motivi e delle circostanze della violazione. Quando si tratta di trasgressione alle prescrizioni inerenti a una misura interdittiva, il giudice può disporre la sostituzione o il cumulo anche con una misura coercitiva>>.
[12] Il quale testualmente recita: <<Fermo quanto previsto dall’art. 276, quando le esigenze cautelari risultano aggravate, il giudice, su richiesta del pubblico ministero, sostituisce la misura applicata con un’altra più grave ovvero ne dispone l’applicazione con modalità più gravose.
[13] Cfr., sul punto, Cass., 6 settembre 1990, Palma. Nonché, per il caso particolare dell’aggravamento delle esigenze cautelari, Cass., 14 febbraio 1992, Scuderi. In dottrina: G. Ciani, in Commento Chiavario, vol. III, p. 159; Dubolino-Baglioni-Bartolini, Il nuovo codice, 537; S. Ramaioli, Le misure cautelari (personali e reali) nel codice di procedura penale, 1993, 82-83. Gli A. evidenziano come, nella normativa prevista per l’adozione delle misure cautelari, trova esplicazione la stessa opzione di fondo del sistema accusatorio. G. Amato, in Commentario Amodio-Dominioni, vol. III,117-118, evidenzia come la preclusione ad ogni iniziativa ex officio da parte del giudice opera anche nel caso in cui si tratti di disporre una modifica in peius dello status libertatis, quando le esigenze cautelari risultino aggravate (è quanto accade, seguendo l’impostazione data, nel caso in esame)ovvero quando l’imputato abbia trasgredito alle prescrizioni impostegli con una misura cautelare.
[14] I riferimenti ai lavori preparatori sono tratti da V. Falzone, F. Palermo, F. Cosentino, La Costituzione della Repubblica italiana, Roma, 1948, p.45.
[15] E’ significativo quanto dice in proposito P. Caretti, cit.: <<… correggere la tendenza la tendenza a definire in termini eccessivamente rigidi ed onnicomprensivi quella nozione (ossia la nozione costituzionale di libertà personale) sulla base dei soli dati testuali disponibili, evitando così il rischio di una sua cristallizzazione astratta, insuscettibile di recepire i significati diversi ed aggiuntivi che possono derivare dagli sviluppi concreti che l’ordinamento assicura al quadro complessivo dei principi costituzionali correlati alla tutela della libertà personale>>.
[16] Cass., 10 maggio 1995, D’Ambrosi, definisce la norma in questione norma di chiusura, della quale non può non tenersi conto al momento di applicare una misura coercitiva.
[17] Così si esprime la Relazione al progetto preliminare del codice di procedura penale del 1988.
[18] G. Amato, in Commentario Amodio-Dominioni, vol. III, 2, p. 57. E. Zappalà, Le misure cautelari, in Diritto processuale Siracusano e altri, I, p. 462 ritiene la norma in questione una particolare applicazione del principio di adeguatezza, il quale implica la scelta delle modalità applicative più rispettose della garanzia del soddisfacimento di tutti i diritti della persona che in concreto non risultino strettamente incompatibili con gli scopi cautelari.
[19] E’ sottinteso che, comunque, va salvaguardata l’integrità fisica della persona.