Matteo Palazzoli, Abbreviato post-Carotti e limiti al potere di integrazione probatoria del GUP ex art. 441, 5° comma, c.p.p.
1. Introduzione
La riforma del giudizio abbreviato, attuata con la L. n. 479/1999, si inserisce nell’ambito di un intervento a tutto tondo nel campo del processo penale, sorretto dalla consapevolezza che la redistribuzione degli affari penali a favore del giudice monocratico non basti a rendere efficiente il sistema giudiziario. Ne esce confermato, ed almeno nelle intenzioni rafforzato, il disegno strategico di assicurare la tempestiva definizione della maggiorparte delle regiudicande penali attraverso le dinamiche proprie della “giustizia negoziata” – nelle diverse forme del patteggiamento sulla pena ovvero sul rito – in tal modo riservando la garanzia del dibattimento ad un numero limitato di processi. E se il legislatore, sin dal riforma del 1988, aveva mostrato di preferire le forme dell’applicazione della pena su richiesta delle parti, anche per ragioni connesse alle vicende politiche ed alle emergenze giudiziarie degli ultimi anni, con la riforma del 1999 abbandona la prospettiva di ampliare la forme del patteggiamento della pena, per concentrare la propria attenzione in modo particolare sul giudizio abbreviato. Ciò che si concretizza nell’assicurare all’imputato un accesso semplificato alle forme ed ai benefici del procedimento alternativo de quo, per il tramite della eliminazione di qualsiasi vaglio di ammissibilità dello stesso, sia esso pertinente all’organo della pubblica accusa, che al giudice dell’udienza preliminare.
Un indubbio paradosso si celava dietro l’originaria disciplina del giudizio abbreviato: che, cioè, il pubblico ministero, in quanto dominus delle indagini preliminari, godeva di un ampio margine di discrezionalità nella fissazione di quello stato degli atti, alla luce del quale il G.U.P. avrebbe dovuto decidere se ammettere o meno l’imputato al rito alternativo in discorso.
Si auspicava, quindi, che fosse la stessa configurazione del rito, data la direttiva n. 53 della l. n. 81/1987, ad essere sottoposta a revisione; che il rito fosse reso accessibile per effetto della mera richiesta dell’imputato, con utilizzazione piena delle indagini e con l’aggiunta delle prove che il giudice ritenesse indispensabili. Il diritto del pubblico ministero al dibattimento avrebbe quindi ceduto all’interesse dell’imputato ad ottenere lo sconto di pena e l’imputato stesso avrebbe accettato – quale corrispettivo – l’eccezionale valore probatorio degli atti di indagine.
Con la riforma del 1999, pertanto, il giudizio abbreviato perde o, quantomeno, attenua, i suoi connotati di procedimento “a prova contratta”: alla sua base non vi è più – o vi è, ma in misura ridotta rispetto a prima – un patteggiamento negoziale sul rito, a mezzo del quale le parti accettano che la regiudicanda sia definita all’udienza preliminare alla stregua degli atti di indagine già acquisiti, rinunciando a chiedere ulteriori mezzi di prova.
Se il giudice dell’udienza preliminare non è più chiamato, come auspicato da ripetuti interventi della Consulta, a valutare la definibilità del procedimento allo stato degli atti, tuttavia, per far sì che le esigenze deflative non pregiudichino il fondamentale interesse alla verità storica, è stato introdotto, quale corrispettivo, un potere di integrazione attivabile d’ufficio dal G.U.P., laddove questi ritenga che la piattaforma probatoria disponibile non consenta una immediata definizione della regiudicanda.
Già sotto il vigore della pregressa disciplina del giudizio abbreviato era stata proposta una lettura meno restrittiva della nozione di “processo definibile allo stato degli atti”. In talune sentenze, la S.C. era giunta persino ad affermare che il giudice (dell’udienza preliminare) potesse disporre perizia psichiatrica qualora fosse sorto il problema della capacità di intendere e di volere dell’imputato, sul presupposto però che l’accertamento della imputabilità sia inderogabilmente affidato al giudice (per tutte, Cass. sez. I 29 dicembre 1995, Previti, in Cass. penale, 1996, p. 1865).
L’attuale dizione letterale dell’art. 441, 5° comma, c.p.p., pare inequivoca sul punto: quando il giudice ritiene di non poter decidere allo stato degli atti assume, anche d’ufficio, gli elementi necessari ai fini della decisione, specificando poi, il 6° comma, che all’assunzione delle prove, disposte d’ufficio dal GUP, ovvero richieste dall’imputato o dal p.m. a norma dell’art. 438, 5° comma, c.p.p., si debba procedere con le forme dell’udienza preliminare.
La lettera della legge, tuttavia, lascia spazio a numerosi dubbi interpretativi sotto il profilo dei limiti al potere di integrazione probatoria attivabile dal GUP, specie in rapporto al corrispondente potere che l’art. 507 c.p.p. riconosce al giudice del dibattimento.
In particolare, se è chiaro che, nell’ambito del giudizio abbreviato, non rilevi né l’inutilizzabilità cosiddetta fisiologica della prova, cioè quella coessenziale ai peculiari connotati del processo accusatorio, in virtù dei quali il giudice non può utilizzare prove, pure assunte secundum legem, ma diverse da quelle legittimamente acquisite nel dibattimento secondo l’art. 526 c.p.p., né le ipotesi di inutilizzabilità cd. relativa stabilite dalla legge in via esclusiva con riferimento alla fase dibattimentale, ci si chiede se debba essere attribuita piena rilevanza alla categoria sanzionatoria dell’inutilizzabilità cd. patologica, inerente cioè agli atti probatori assunti contra legem la cui utilizzazione è vietata in modo assoluto non solo nel dibattimento, ma in tutte le altre fasi del procedimento, comprese quelle delle indagini preliminari e dell’udienza preliminare, nonché le procedure incidentali cautelari e quelle negoziali di merito.
Sotto il vigore dell’abrogato regime, ammettere, dopo l’instaurazione del giudizio abbreviato, la declaratoria d’inutilizzabilità o di nullità assoluta, significava estromettere definitivamente dallo “stato degli atti” alcune prove che il giudice, magari, avesse ritenuto decisive, ai sensi del vecchio testo dell’art. 440 c.p.p., proprio ai fini dell’ammissibilità del rito. In tal modo, si finiva per creare una sorta di vuoto di conoscenza che, tendenzialmente, non poteva più essere colmato.
Stando così le cose, si delinearono in giurisprudenza due principali orientamenti, tra loro antitetici, i quali, a ben vedere intendevano tutelare specifici e distinti valori, ossia, rispettivamente, quello di legalità del procedimento probatorio e quello di lealtà processuale, in effetti difficilmente conciliabili nel caso di specie.
Pertanto, secondo la tesi più rispettosa della legalità della prova, il giudice del giudizio de quo avrebbe potuto valutare gli atti legittimamente acquisiti durante le indagini preliminari, ad eccezione di quelli colpiti da nullità assoluta od inutilizzabilità “patologica”. In quest’ottica, si rilevava come non potesse essere sostenuta un’implicita rinuncia dell’imputato a far valere l’inutilizzabilità in cambio di un più benevolo trattamento sanzionatorio in caso di condanna, posto che la contropartita alla riduzione di pena consisteva unicamente nella potestà del giudice di decidere sulla base di elementi contenuti nel fascicolo del pubblico ministero, osservando forme diverse da quelle prescritte per il dibattimento, e senza che le parti potessero esercitare pienamente il loro diritto alla prova: in altri termini, il patteggiamento negoziale su cui il rito abbreviato si fonda, si pone essenzialmente in termini di rinuncia, da parte dell’imputato, delle garanzie del contraddittorio nella formazione della prova, accettando di essere giudicato sulla base di atti di indagine assunti unilateralmente dagli organi della pubblica accusa, a fronte del quale gli è riconosciuta la diminuente di cui all’art. 442, 2° comma, c.p.p.
Alla stregua dell’altro, divergente, orientamento giurisprudenziale, ispirato all’esigenza pragmatica di evitare un uso per certi aspetti strumentale del rito abbreviato, si affermava che l’imputato avesse l’onere di eccepire prima dell’ammissione del giudizio de quo le nullità assolute e le inutilizzabilità di cui fossero viziati gli atti investigativi. In maniera tale che, qualora nessun rilievo di invalidità – neppure ex officio – fosse stato effettuato ovvero l’eventuale contestazione fosse stata ritenuta infondata dal giudice, una volta introdotto il rito e, quindi, delimitato con certezza e con il concorso della volontà delle parti il quadro probatorio, non sarebbe stata più consentita la formulazione di eccezioni concernenti la validità degli atti e l’utilizzabilità degli elementi probatori contenuti nel fascicolo del pubblico ministero.
A ben vedere, successivamente alla modifica della disciplina del giudizio abbreviato, la soluzione della questione in esame appare, sotto certi aspetti, più agevole. In effetti, poiché dopo la novella del 1999 il citato procedimento speciale non ha più natura necessariamente “cartolare”, è venuta meno la principale remora di ordine pratico che aveva indotto certa giurisprudenza ad enucleare una serie di limitazioni all’ineccepibilità di nullità assolute od inutilizzabilità delle prove costituenti lo stato degli atti. Invero, nell’innovato assetto normativo, la completezza dello stato degli atti di indagine preliminare, ovvero la definibilità del procedimento allo stato degli atti, non può più qualificarsi quale specifico “presupposto processuale” del giudizio abbreviato, sicchè quest’ultimo può ben instaurarsi pur in presenza, al momento della domanda, di una piattaforma probatoria lacunosa ed antinomica. Ciò che ha indotto la giurisprudenza (Cass., Sez. un., n.16/2000) ad affermare, sul presupposto che “la definibilità del processo allo stato degli atti non si configura più come condizione di ammissibilità della richiesta”, che “il giudice, pur dovendo decidere nel merito senza tener conto di quel materiale probatorio affetto da nullità od inutilizzabilità assolute, ha comunque il potere di assumere anche d’ufficio gli elementi necessari ai fini della decisione nella forme previste dall’art. 422 c.p.p.”.
Sennonché, vi è da chiedersi se la predetta potestà giurisdizionale, ex art. 441, 5° comma, c.p.p., di assumere ex officio elementi necessari ai fini della decisione, sia, in effetti, sempre esercitabile. Dalla lettera della legge sembrerebbe evincersi un potere di integrazione probatoria pressoché illimitato del GUP a fronte delle limitazione cui è soggetta la correlativa richiesta di parte ex art. 438, 5° comma, c.p.p. Tuttavia, a volersi fermare alla lettera della legge, si finisce per far perdere al giudizio abbreviato i suoi peculiari caratteri di rapida e per certi versi sommaria definizione della regiudicanda, inflazionando l’udienza preliminare, a fronte della deflazione del dibattimento.
Considerazioni di ordine generale rendono opportuno tentare di delimitare l’esercizio del potere di cui si tratta, per il tramite della individuazione di parametri che possano indurre il giudice ad attivare il congegno di cui all’art. 441, 5° comma, c.p.p., con prudenza e, comunque, in maniera tale da non esorbitare dal suo ruolo di terzietà ed imparzialità.
In questo contesto, sembra, pertanto, quanto mai opportuno un ridimensionamento de jure condito dell’ambito dei poteri ufficiosi previsti nel procedimento abbreviato: si tratta, in buona sostanza, di individuare un’interpretazione dell’art. 441, 5° comma, c.p.p., che precluda al giudice, dopo la declaratoria di inutilizzabilità o di nullità di prove facenti parte dello stato degli atti, di sostituirsi, di fatto, al pubblico ministero nella ricerca di elementi a carico dell’imputato e di colmare, in questo modo, l’incompletezza delle indagini ovvero di sanarne l’irregolarità.
In buona sostanza, si tratta di definire i criteri di valutazione che il giudice deve rispettare laddove, ritenendo la regiudicanda non definibile allo stato degli atti, intenda attivare il meccanismo di integrazione probatoria di cui all’art. 441, 5° comma, c.p.p.
È ovvio che il giudice debba attenersi alle regole generali di cui all’art. 190 c.p.p., giusta le quali non potrebbero ammettersi prove vietate dalla legge, manifestamente superflue od irrilevanti. Il disposto dell’art. 441, 5° comma, c.p.p., è poi inequivoco nel ribadire che gli elementi da assumere debbano essere necessari ai fini delle indagini, in parallelo a quanto l’art. 438, 5° comma, c.p.p., stabilisce in riferimento alle istanze di integrazione probatoria cui l’imputato abbia subordinato l’ammissione al rito abbreviato.
Più problematica risulta, per contro, la possibilità di ritenere il giudice vincolato, anche nel caso di specie, alla verifica del requisito della compatibilità dell’integrazione probatoria, pur necessaria ai fini della decisione, con le esigenze di economia processuale richiamate dall’art. 438, 5° comma, c.p.p. La soluzione, in realtà non può che essere negativa, quanto, come taluna dottrina ha lucidamente osservato, “è contrario ai fondamentali principi della giurisdizione e della responsabilità penale che il giudice non possa acquisire e valutare elementi di prova idonei ad influire sul suo convincimento – una volta che ne ravvisi la necessità – per il semplice fatto che la loro assunzione comporterebbe un dispendio in termini di tempo” (Illuminati, Ammissione e acquisizione della prova nell’istruzione dibattimentale, in La prova nel dibattimento penale, Utet, 1999, p. 72).
Per contro, potrebbe prospettarsi una applicazione dell’art. 441, 5° comma, c.p.p., tale per cui il potere di integrazione probatoria ivi contemplato, possa essere esercitato dal giudice dell’udienza preliminare per una sola volta, in ossequio alle fondamentali esigenze di economia processuale, ma senza che vengano nel contempo irrimediabilmente pregiudicate le, spesso divergenti, esigenze di accertamento della verità. Nell’esercizio direi unitario di siffatto potere officioso, il GUP non incontrerebbe alcun altro limite oltre quelli di ordine generale previsti dall’art. 190 c.p.p.
D’altro canto, la questione sopra prospettata della possibile rilevanza degli atti di indagine preliminare viziati da nullità assoluta od inutilizzabili – premesso che ogni utilizzazione probatoria degli stessi è preclusa – riemerge sotto il diverso profilo della verifica del presupposto in presenza del quale il GUP può attivare il potere di cui all’art. 441, 5° comma, c.p.p.: la non definibilità del procedimento allo stato degli atti. Una tale valutazione deve necessariamente prescindere dalle prove invalide, in quanto nulle od inutilizzabili: come lucidamente osserva taluna dottrina “le prove invalide non possono essere affatto valutate dal giudice, neanche quale base di conoscenza per rinvenire prove da assumere ex officio: insomma, simili prove sono per il giudice inutilizzabili non solo ai fini dell’emissione del provvedimento di merito, ma ed è questo l’aspetto più rilevante, anche ai fini di qualsiasi altra decisione, includa quella volta ad ampliare lo stato degli atti” (A. Vitale, Nullità assoluta e inutilizzabilità delle prove nel “nuovo” giudizio abbreviato, in Cass. penale, 2001, 998, p. 2034).
Se così non fosse la posizione di imparzialità e terzietà del giudice risulterebbe irrimediabilmente compromessa. Egli, infatti, potrebbe, in ipotesi, acquisire ex officio tutta una serie di prove, finché non sia in grado di ricostruire il medesimo apporto conoscitivo cui conduceva proprio la prova dichiarata inutilizzabile. Mentre le prove inutilizzabili od assolutamente nulle, per l’estrema gravità del vizio che le inficia, devono essere considerato da tutti gli uffici del processo penale ed, in particolare dal giudice, tamquam non essent.
2. Il fascicolo del pubblico ministero
Fra le ipotesi di inutilizzabilità, rilevabile anche d’ufficio, in ogni stato e grado del procedimento, devono farsi senz’altro rientrare, per costante applicazione giurisprudenziale, gli atti di indagine preliminare che il pubblico ministero non abbia trasmesso al GUP con il fascicolo di cui all’art, 416, 2° comma, c.p.p.
Già la Corte costituzionale, con la sentenza n. 145/1991 – interpretativa di rigetto – aveva avuto modo di affermare come la disposizione da ultimo richiamata dovesse essere interpretata nel senso di porre a carico del pubblico ministero un vero e proprio obbligo di trasmettere al GUP tutti gli atti attraverso cui l’indagine preliminare si è sviluppata e che concorrono a formare il fascicolo processuale nella sua interezza.
Nel far propria tale impostazione, la S. C. ha ulteriormente specificato che l’inutilizzabilità degli atti non trasmesso al giudice dell’udienza preliminare ai sensi dell’art. 416, 2° comma, c.p.p., è una sanzione di carattere generale, non limitata ad una sola fase processuale, bensì rilevabile, anche d’ufficio, in ogni stato e grado del procedimento (Cass. pen. sez. I, 7 giugno 1997, n. 5364). D’altronde alcun’altra sanzione processuale sarebbe ipotizzabile, non essendo prevista un’autonoma sanzione di invalidità per il mancato deposito degli atti, indipendentemente dalla loro utilizzazione.
Ciò posto, si tratta di stabilire se, nell’esercizio dei poteri ufficiosi di integrazione probatoria che l’art. 441, 5° comma, c.p.p. espressamente gli riconosce, una volta ammesso il giudizio abbreviato, il GUP possa disporre ex officio l’acquisizione degli atti di indagine preliminare non inseriti nel fascicolo di cui all’art. 416, 2° comma, c.p.p. e se, alla luce degli stessi, possa, oltre che fondare la decisione di merito, anche valutare l’opportunità o la necessità dell’acquisizione di ulteriori elementi di prova.
La soluzione più corretta, per evitare che il giudice dell’udienza preliminare si sostituisca al p.m., tornando ad esercitare funzioni paragonabili soltanto a quelle dell’esautorato giudice istruttore, è senz’altro quella negativa. Il GUP non è chiamato a colmare le lacune degli organi della magistratura requirente, anche se soltanto imputabili ad una mancata trasmissione nei termini e, pertanto, oltre a non poter decidere, all’esito dell’udienza di abbreviato, sulla scorta degli atti di indagine non inseriti nel fascicolo del p.m., non ne può disporre neppure l’acquisizione ex officio; in tal modo, finirebbe, infatti, per sanare un vizio per contro rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del procedimento.
Da ultimo, detti atti non possono essere neppure presi in considerazione quale parametro dell’eventuale valutazione di definibilità della regiudicanda “allo stato degli atti” ex art. 441, 5° comma, c.p.p. Stante la loro illegalità, deve ritenersi, con una praesumptio juris et de jure, che in esse s’annidi quel bacillo disgregatore della giustizia che è l’errore giudiziario; di conseguenza, devono subito e definitivamente essere estromesse dal processo se davvero si vuole evitare che quel “bacillo”, per vie traverse, riesca a incapsularsi entro la corteccia del giudicato.
Per sostenere la tesi contraria non potrebbe neppure farsi valere quella giurisprudenza la quale, pur ribadendo che l’art. 416, 2° comma, c.p.p. configuri un vero e proprio dovere di allegazione, la cui inosservanza determina l’inutilizzabilità degli atti non trasmessi, specifica poi che detti atti possono essere acquisiti, e conseguentemente utilizzati, dal giudice del dibattimento ex art. 507 c.p.p., attesa la natura sostanziale di tale norma che è diretta all’accertamento della verità, indipendentemente dalle vicende processuale che determinano la decadenza della parte al diritto alla prova. Oltre a trattarsi comunque di un orientamento giurisprudenziale e come tale soggetto a rapidi mutamenti, certamente non si adatta alla fattispecie del giudizio abbreviato, stante i peculiari connotati di siffatto procedimento alternativo. Se, infatti, nell’ambito dell’istruzione dibattimentale, gli atti di indagine preliminare non contenuti nel fascicolo per il dibattimento non assurgono al rango di prova, se non nelle ipotesi tassativamente disciplinate dalla legge, per contro, nel giudizio abbreviato, essi costituiscono la prova. Pertanto, altro valore assumerà l’inosservanza delle disposizioni che ne prescrivono anche soltanto obblighi di trasmissione.
In definitiva, posto che il giudice dell’udienza preliminare non può, in alcun modo, neppure ai fini delle determinazioni di cui all’art. 441, 5° comma, c.p.p., considerare gli atti non inseriti nel fascicolo del p.m., si tratta di stabilire, in assenza di una specifica regolamentazione, quali conseguenze possa determinare l’inosservanza di siffatto precetto.
Si potrebbe, a tal fine, ricorrere alla categoria della cd. invalidità derivata, dalla dottrina accuratamente studiato con riguardo al vizio del provvedimento di merito dipendente da una prova inutilizzabile.
Sviluppando ulteriormente questa tesi, non sarebbe azzardato sostenere l’inutilizzabilità della prova “a valle”, cioè di quella che il giudice, motu proprio, ha individuato e, poi, assunto, in base ad una prova “a monte” inutilizzabile. In termini più chiari, dall’inutilizzabilità della prova discenderebbe direttamente la nullità dell’ordinanza che dispone l’assunzione di un’altra prova, laddove nell’esercizio dei poteri ufficiosi di cui all’art. 441, 5° comma, c.p.p. e nella valutazione del presupposto di tale esercizio – la definibilità del processo allo stato degli atti – il giudice dell’udienza preliminare abbia tenuto conto di prove inutilizzabili o viziate da nullità assoluta: così nel caso in cui venga disposto l’esame testimoniale di soggetti, i cui nomi risultino da verbali di intercettazioni telefoniche effettuate fuori dei casi consentiti dalla legge, ovvero non trasmesse al Gup ai termini dell’art. 416, 2° comma, c.p.p. In maniera tale che poi risulterà impugnabile sotto tale profilo la decisione sul merito della regiudicanda che tenga conto della prova cd. “a valle”.
Detta soluzione deve essere accolta con l’avvertimento che non sempre sarà agevole dimostrare che l’ammissione d’ufficio di una certa prova sia fondata esclusivamente su un’altra prova inutilizzabile. Tuttavia, anche a questo proposito, è prospettabile l’uso di un apposito rimedio, concretatesi in un più generalizzato ed effettivo ricorso all’obbligo di motivazione dei provvedimenti in materia di prova.
In definitiva, le prove inutilizzabili, non soltanto non possono essere considerate nella motivazione della sentenza che, in caso contrario sarà soggetta a mezzo di gravame, ma neppure possono essere tenute presenti nella motivazione delle ordinanze con cui il giudice dispone d’ufficio l’assunzione di nuove prove, giacchè, anche in questo caso, quantunque indirettamente, la sentenza sarà nulla, ovviamente nei limiti in cui dalla motivazione della sentenza emerga che la decisione sul merito sia stata determinata dalle prove così assunte.
- dott. Matteo Palazzoli - gennaio 2002
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