Gianfraco Notaro, Il nuovo regime delle indagini difensive: riflessioni a prima lettura

1. Premessa
L’attività investigativa della difesa, ordinariamente ricorrente nel processo penale americano cui il nostro legislatore si è ispirato nel 1988, originariamente trovò una collocazione normativa nell’art.38 disp. att. C.p.p., in toni molto tenui e quindi in modo insoddisfacente.
L’impossibilità di far confluire in dibattimento gli elementi raccolti dalla difesa, la difficoltà di riconoscere ad essi il valore di prove della cui valutazione il giudice dovesse dare conto, l’assenza di previsioni normative sulle forme di documentazione dell’indagine difensiva, e la diffusa quanto aprioristica sospettosità nei confronti dell’avvocato avallata anche dall’ostilità deontologica degli organi disciplinari forensi imponevano alla difesa di mantenere il tradizionale ruolo passivo.

L’esperienza di ben note vicende giudiziarie su scala nazionale suggerì un’integrazione dell’art.38 disp. att., che tuttavia non valse ad eliminare gli inconvenienti propri di tale norma.

Già prima della riforma del 1995 in verità il ceto forense manifestava una più adeguata sensibilità verso le indagini difensive, suggerendo con opportuni accorgimenti la possibilità di utilizzare il dato investigativo al fine di impedire l’emissione delle misure cautelari; la giurisprudenza, dal canto suo, riteneva che il percorso obbligato che gli atti di indagine difensiva dovessero percorrere per giungere alla legittima valutazione del giudice era la loro “canalizzazione” nel fascicolo del P.M., enfaticamente considerato organo imparziale di giustizia alla luce del disposto formale della legge di ordinamento giudiziario, così alimentando una sorta di equivoco per cui il diritto di difesa in fase di indagine si riducesse sostanzialmente alla collaborazione con l’accusa, laddove l’art.24 Cost. faceva e fa chiaramente intendere che un diritto esercitato in siffatti limiti non sarebbe mai suscettibile di violazione; senza dimenticare che alcuni esponenti della magistratura, a testimonianza della persistenza dell’ideologia inquisitoria, continuavano a ritenere che il difensore non avesse alcun potere di acquisizione di prove, dovendo comportarsi semplicemente come un convenuto e resistere alla pretesa punitiva, senza quindi poter offrire il proprio contributo alla ricostruzione dei fatti.

Ciò nonostante, sulla scorta di diverse innovazioni normative, la Suprema Corte espresse in seguito una maggiore apertura, tuttavia assegnando alle ricostruzione investigative dei difensori un ruolo di secondo piano, e ciò soprattutto per la carenza di “fede pubblica” delle dichiarazioni ricevute dal difensore; si era dunque, culturalmente e normativamente ancora lontani dalla partecipazione paritaria di accusa e difesa al procedimento penale auspicata dalla legge delega.

Più di recente, in un clima intessuto di comprensibili preoccupazioni di rapidità ed efficienza repressiva, le sollecitazioni del ceto forense per una rifondazione normativa dell’istituto delle indagini difensive hanno trovato un limitato ascolto, nel senso di indurre il legislatore a prevedere, a beneficio della difesa informata della conclusione delle indagini del P.M., la possibilità di indicare a costui delle indagini da svolgere e di far confluire, nel termine esiguo ( e tuttavia dai giudici ritenuto perentorio ) di 20 giorni dalla ricezione dell’avviso di conclusione delle indagini, la documentazione (in quale forma?) delle indagini difensive nel fascicolo del P.M., per far riflettere questi sulla fondatezza dell’eventuale azione penale: sostanzialmente, una rischiosa discovery non adeguatamente compensata, non avendo tali atti valore probatorio e rimanendo essi estranei al fascicolo dibattimentale, salvo il contrario accordo delle parti ex art.431 C.p.p. ultimo comma (che ben difficilmente avrebbe potuto incontrare l’interesse del P.M.).

Oggi il giurista deve confrontarsi con una rinnovata disciplina delle indagini difensive, emanata in totale abolizione dell’art.38 disp. att., e foriera di rilevanti modificazioni normative.

2. Analisi generale
Da un punto di vista culturale, riteniamo opportuno muovere da una innovazione di carattere sostanziale, e precisamente la creazione del reato di false informazioni al difensore, nell’ambito dei delitti contro l’Amministrazione giudiziaria.

L’opzione va letta come un più adeguato riconoscimento istituzionale sia del rilievo pubblicistico dell’attività difensiva, sia dell’interesse, meritevole della tutela più energica che lo Stato è in grado di offrire, ad avvalersi dell’attività difensiva al fine di raggiungere l’obiettivo della ricostruzione del fatto storico, fine qualificante la giurisdizione penale.

Alla luce della funzione di cd. prevenzione generale positiva, ossia di diffusione di valori socio culturali essenziali alla convivenza, tale innovazione sembra voler anche fare giustizia dell’atavica diffidenza verso la figura del difensore.

Tuttavia la valutazione positiva deve essere temperata da una più attenta considerazione: con siffatta opzione il legislatore, anziché ritornare alle disposizioni della legge delega nel 1987 ed al regime normativo precedente alla l.356/’92 (come pure era stato suggerito), ha semplicemente esteso la norma penale di cui all’art.371-bis c.p. al difensore, e rinunciando invece ad eliminarla.

In definitiva si è trascurato il dato evidente che la garanzia della verità, sulla quale si fonda l’assunto del valore assolutamente secondario delle dichiarazioni ricevute dal difensore, non deriva tanto dalla previsione di sanzioni penali per l’ipotesi di mendacio, quanto dalla maggiore auctoritas che assiste il P.M. e la P.G., in grado che il difensore non pare possa eguagliare.

Nella prospettiva dell’accertamento della verità la normativa mostra di esaltare anche la collaborazione tra accusa e difesa, talvolta attraverso la mediazione del giudice.

Ad esempio, ove una persona a conoscenza di circostanze di rilievo esercitasse il diritto al silenzio nei confronti del difensore investigante, questi potrebbe chiedere ed ottenere dal P.M. la sua audizione coattiva, oppure chiedere l’incidente probatorio.

Nondimeno, anche siffatta scelta normativa non è scevra di inconvenienti: è infatti agevole osservare come il difensore che abbia bisogno di ascoltare il teste recalcitrante è praticamente obbligato ad una discovery a favore dell’accusa, che può essere di pregiudizio al prosieguo delle indagini.

A tal proposito non è fuorviante osservare come il modello adversary statunitense non obbliga affatto il difensore, a differenza dell’accusa, ad avvertire la persona che egli intende ascoltare del diritto di tacere, in quanto vi è la consapevolezza che la parte debole sia la difesa e non l’accusa (laddove l’evoluzione normativa della procedura penale italiana sembra aver tracciato un percorso in senso inverso), e vi è una maggior fiducia nell’idoneità dell’esame incrociato a individuare la menzogna o la fallacia del teste.

La divergenza è altresì utile a evidenziare l’enfasi puramente giornalistica che parla, in termini di assoluta scambievolezza, di indagini difensive e “processo all’americana” o, forse più irriguardosamente rispetto a chi spende le proprie energie in un’attività essenziale per i fini dello Stato, indulge in paragoni con meri simulacri televisivi del vero dramma del processo.

Peraltro, la predetta normativa sembrerebbe esser inficiata da una ulteriore disarmonia giuridica, laddove non ammette il difensore all’audizione coattiva del coindagato o coimputato nello stesso o in diverso procedimento; tenendo presente che il combinato disposto degli artt.363 e 210 comma 2 C.p.p. permette al P.M. di disporre l’accompagnamento coattivo del coimputato o coindagato e di rivolgere loro domande senza possibilità di contraddittorio.

Tuttavia questa limitazione pare giustificarsi con l’intento di evitare che il difensore, nel quadro di una linea difensiva già pianificata da solo (nella veste di difensore anche dei potenziali correi) o concordata con il difensore del coimputato o coindagato, possa compiere manovre illecite e deontologicamente riprovevoli, oltre che per il combinato disposto degli artt.197 lettera a) e 361 C.p.p..

Il momento collaborativo si esprime anche nell’art.391-quinquies C.p.p., che permette al P.M. di vietare, per non più di 2 mesi, ai soggetti escussi a sommarie informazioni sia della difesa che dell’accusa la divulgazione dei fatti su cui si indaga, avvisandoli della responsabilità penale quantomeno ai sensi del nuovo art.379-bis C.p.; la norma è in astratto idonea a soddisfare anche l’interesse delle difesa, anche se non ci si può attendere che il P.M. intervenga in tal senso quando le esigenze investigative da tutelare appartengano esclusivamente alla difesa: ed è quantomeno singolare che la gestione del bene superiore del segreto investigativo, strumentale all’efficacia delle indagini e quindi alla corretta ricostruzione dei fatti, sia così concesso alla disponibilità di una delle parti del processo.

Senza poi trascurare la brevità del termine massimo del divieto in rapporto all’importanza degli interessi in gioco ed alle risultanze che possono evidenziarsi nel corso delle indagini, specie se confrontate con i più ampi termini ordinariamente previsti per il segreto investigativo (occorre aspettare quantomeno la fine delle indagini preliminari, le quali in genere durano ben più di 2 mesi).

Nel contesto della tutela del segreto investigativo, il legislatore ha inteso anche rafforzare le garanzie di riservatezza e libertà.

Innanzitutto, le garanzie ex art.103 C.p.p., in tema di sequestri ed intercettazioni, sono state estese anche ai documenti, alle conversazioni ed alle comunicazioni degli investigatori privati e dei consulenti tecnici di cui la difesa si avvale.

Tuttavia, vi è da osservare come la normativa condizioni l’operare di siffatte garanzie al fatto che il difensore abbia comunicato all’Autorità giudiziaria procedente (il P.M., nella maggior parte dei casi) il mandato a svolgere le indagini difensive; il che dà l’idea che una garanzia fondamentale, da ritenersi indisponibile perché coinvolge non solo diritti di libertà ma anche l’interesse pubblico processuale, dipenda dal preventivo assolvimento di un onere da parte del difensore.

Fin qui nulla di particolarmente sconvolgente, in quanto è comunque ragionevole e rispondente alle finalità di economia processuale fare in modo che l’Autorità giudiziaria non ponga in essere atti a sorpresa a rischio d’invalidazione; ma il discorso diventa diverso laddove si tenga conto della possibilità, espressamente prevista dalla legge, dell’investigazione preventiva per l’eventualità dell’instaurarsi di un procedimento penale; in tal caso, il mandato investigativo al difensore deve indicare i fatti a cui si riferisce: dunque, vi è una pericolosa discovery obbligata per poter fruire delle garanzie di riservatezza e libertà ora indicate, ma, soprattutto, pare ravvisabile una pericolosissima violazione del nemo tenetur se detegere, perché se è vero che tale dichiarazione scritta non sarebbe utilizzabile in sede di dibattimento, e se è vero che l’onere di indicazione dei fatti oggetto di indagine preventiva è pur necessario al fine di evitare indebite intromissioni del difensore nella vita privata altrui, è altrettanto vero che in questo modo il soggetto è obbligato a confessare a suo detrimento, dovendo indicare quantomeno circostanze poco chiare che gli investigatori potranno utilizzare evitando sforzi, quasi che l’individuo dovesse indicare una notitia criminis a suo carico!

Onde è lecito chiedersi se non fosse migliore la mancata previsione sulla possibilità di indagini preventive, anche alla luce delle già esistenti possibilità di accesso al registro delle notizie di reato.

La protezione della riservatezza investigativa “bilaterale” viene altresì assicurata sia dal già citato art.379-bis C.p., sia dal divieto, da ritenersi sanzionato con l’inutilizzabilità, di chiedere ai soggetti escussi a sommarie informazioni della difesa di fornire informazioni sulle domande ricevute e le risposte date; il che esprime la volontà di evitare manovre scorrette od anche intimidatorie ad opera della parte pubblica: e qui si deve sostanzialmente riporre fiducia sul senso deontologico del magistrato, perché la violazione della norma è possibile attraverso una sapiente attività di verbalizzazione, avvantaggiata dal metus che il soggetto ascoltato è incline a nutrire verso il P.M. o la P.g.; si tratta dunque di una soluzione che non scongiura adeguatamente i pericoli di inquinamento probatorio derivanti dalla possibilità di audizione dei soggetti già ascoltati dalla controparte investigante.

Nel quadro di un’area sicuramente allargata di intervento della difesa nella fase delle indagini preliminari, la riforma permette altresì al difensore di chiedere alla Pubblica Amministrazione di prendere visione ed estrarre copia degli atti da essa posseduti; in caso di rifiuto, al di là dei profili penali certo non direttamente rientranti all’interesse investigativo del difensore, tuttavia, la difesa non ha che da rivolgersi al P.M.: e ciò determina una ulteriore discovery a favore dell’accusa, analoga a quella già indicata nell’ipotesi dell’informatore avvalsosi del diritto al silenzio; peraltro si potrebbe anche affermare che queste situazioni siano un po’ il costo fisiologico imposto dalla riforma; se si vuole una difesa attiva anche in fase investigativa, la “parità d’armi” rende inevitabile che anche l’accusa debba, nei dovuti limiti, conoscere quanto controparte intenda sostenere; tuttavia è lecito replicare che la predetta parità, al di là di fuorvianti mitizzazioni, deve essere assicurata essenzialmente attraverso l’equivalenza dell’utilizzabilità del materiale probatorio reperito.

E’ peraltro vero che bisogna pur sempre assicurare un efficace diritto di difesa, e qui qualche riserva può essere avanzata.

La riforma infatti prevede la possibilità anche per la difesa di svolgere indagini integrative successivamente all’emissione del decreto di rinvio a giudizio, ai fini delle eventuali future richieste al giudice del dibattimento; in questo modo di fatto le indagini preliminari sono private del limite temporale: peraltro, proprio perché si tratta di indagini integrative, il P.M. non potrà avvalersi della norma per reiterare atti investigativi già compiuti extra tempus, per i quali dunque la censura di inutilizzabilità rimane in piedi.

Ma il problema è un altro: tali indagini suppletive andranno svolte nell’arco del termine di comparizione, certamente esiguo; il che poi si aggrava laddove si consideri che una circostanza “chiave” può emergere in data prossima alla scadenza del termine, sì che la controparte - difesa (ma il problema, mutatis mutandis, coinvolge anche lo stesso P.M.), sulla stessa non avrà alcuna seria possibilità di una contromossa investigativa; e certo all’inconveniente non pare possa porre rimedio l’obbligo di deposito degli atti di indagine integrativa a carico del P.M.

3. Le modalità dell’investigazione e l’utilizzazione dei risultati
Come già era stato suggerito dagli studiosi, il legislatore, nel disciplinare l’attività d’indagine difensiva, non ha dato vita a previsioni eccessivamente minuziose, che avrebbero costretto la difesa in schemi troppo rigidi e quindi non adeguabili alla mutevolezza delle esigenze del caso concreto.

Naturalmente l’atto investigativo tipico del difensore, come già appariva nella precedente normativa, è costituito dall’assunzione di informazioni da persone in grado di riferire circostanze di rilievo.

Premesso che tale colloquio opportunamente non è stato vincolato ad un preciso contesto spaziale quale poteva ipotizzarsi lo studio del difensore ( tanto è vero che il giudice procedente può autorizzare il difensore a compiere quest’atto anche nei confronti di un soggetto detenuto, anche se coimputato, previo avviso al suo difensore ), e che esso può essere svolto soltanto oralmente od anche essere documentato, sono stati previste alcuni adempimenti essenziali per il difensore, sanzionati dall’inutilizzabilità del materiale raccolto in violazione di legge.

In sintesi, si tratta di oneri informativi: sulla qualità di difensore e sullo scopo del colloquio, sulla possibilità di tacere o riferire per iscritto o di conferire oralmente (con o senza documentazione), sul divieto di rivelare quanto eventualmente già chiesto dalla P.g. o dal P.M., sulle responsabilità in caso di mendacio; in più, l’informatore ha l’obbligo di dichiarare l’eventuale qualità di coindagato o coimputato ma potrà avvalersi della garanzia ex art.63 C.p.p.

Il problema della credibilità ed affidabilità dei risultati del colloquio è stato affrontato innanzitutto vietando all’indagato, all’offeso ed alle altre parti private di assistere al colloquio, e ciò anche al fine di fare in modo che l’atto sia compiuto al riparo da disordini od intimidazioni.

Il legislatore, inoltre, ha affrontato il problema che più volte la giurisprudenza aveva evidenziato, e cioè l’assenza di forme di documentazione dell’attività d’indagine: nel caso del colloquio, il difensore o un suo sostituto redigeranno ( probabilmente avvalendosi di moduli prestampati, più che avvalersi di ausiliari di fiducia per l’opera materiale ) una relazione attestante in modo essenziale l’attività svolta, ivi compreso l’avviso circa il diritto al silenzio.

Occorre tuttavia anche osservare come il legislatore nulla abbia disposto circa l’applicazione anche alle sommarie informazioni raccolte dal difensore della normativa dettata in tema di incompatibilità, facoltà di astensione e segreto, in analogia a quanto era già stato previsto per il P.M. dall’art.361 C.p.p.; d’altro canto, l’impossibilità di ascoltare coimputati e coindagati, la necessaria assenza delle parti private e l’improbabile audizione di magistrati e loro ausiliari sembrano colmare la lacuna attinente all’incompatibilità ex art.197 C.p.p.; quanto alla facoltà di astensione, essendo la stessa preordinata ad evitare deposizioni a danno dell’indagato con possibili ripercussioni intrafamiliari, può ritenersi che essa non sussista innanzi al difensore dell’indagato, e che questi non sia tenuto ad avvertire i suoi prossimi congiunti e soggetti analoghi, onde non ricorrerà la nullità ex art.199 comma 2 C.p.p.; sembra invece corretto e conforme alla ratio della norma ritenere che il segreto possa essere opposto anche al difensore, salvo chiedersi se anch’egli abbia la possibilità di verificarne la fondatezza così come il magistrato può fare.

Tuttavia una perplessità rimane: certo, né il P.M. né la difesa possono ascoltare coimputato o coindagati in via di sommarie informazioni, ma soltanto il P.M., attraverso gli artt.363 e 210 C.p.p., può aggirare il divieto attraverso l'interrogatorio, anche avvalendosi della forza pubblica per il caso di assenza.

La formalizzazione è garantita anche in occasione del compimento di altre attività; infatti è prevista la verbalizzazione degli accessi a fini investigativi ( autorizzabili dal giudice procedente ove il titolare dello ius excludendi non acconsenta ), che si svolgono con forme analoghe all’ispezione locale; peraltro la documentazione di siffatti accessi confluisce nel fascicolo del P.M. e, ove siano stati compiuti accertamenti irripetibili, addirittura nel fascicolo dibattimentale, al pari di quanto erà già previsto per il P.M.

Quanto detto in tema di formalizzazione degli atti sposta poi l’attenzione sulla utilizzabilità dei risultati documentati dell’indagine difensiva; ed anche qui il legislatore sembra aver prestato attenzione alle sollecitazioni rivoltegli.

La formalizzazione delle indagini difensive consente di elevarle a veri e propri atti del procedimento, assistiti dunque da una più marcata valenza probatoria nelle fasi inquisitorie.

Infatti il difensore può, in fase di indagini preliminari o di udienza preliminare (così come al giudice del riesame, secondo il già preesistente orientamento giurisprudenziale), presentare tali risultanze direttamente al giudice che debba adottare una decisione che richieda l’intervento della parte privata; tale diritto può essere esercitato anche sulla base della semplice conoscenza del procedimento penale sì da invitare il giudice a tenerne conto ove dovesse emettere una decisione che non preveda la presenza dell’assistito: in questo modo sembra definitivamente tramontare la “teoria della canalizzazione”, che ha addirittura trovato un riconoscimento normativo nel corpo dell’art.415-bis C.p.p., non essendovi più bisogno del paradossale tramite del P.M. per far sì che l’attività difensiva preprocessuale giunga agli occhi del giudice.

Ed invero, il legislatore stabilisce chiaramente che anche le dichiarazioni raccolte dal difensore oggi possono essere utilizzate per le contestazioni e le letture in caso di sopravvenuta irripetibilità; e non va comunque trascurato poi il già citato art.431 ultimo comma C.p.p..

Per quanto riguarda poi le rappresentazioni di situazioni ed eventi naturali od anche di enunciati esecutivi (promesse od ordini), il loro ingresso in dibattimento è assicurato dalla natura documentale che ad esse può agevolmente riconoscersi, e quindi anche prescindendo dalla sussistenza di accertamenti irripetibili.

Sotto questo profilo, quindi, la normativa merita una valutazione positiva perché riesce a garantire una corretta par condicio tra accusa e difesa in relazione alla pratica utilizzabilità dei risultati delle indagini parallele.

A questo punto la stessa norma di cui all’art.415-bis sembra privata di significato sostanziale e quindi meritevole di abolizione, almeno per ciò che riguarda il giudizio ordinario, in quanto, da un lato non ha più alcun senso, ove mai ne avesse avuto, stimolare i poteri d’indagine del P.M. per ricercare prove a discarico, mentre dall’altro la ponderatezza della scelta di esercitare l’azione penale, su cui la difesa non è almeno di regola in grado di influire, rimarrà come sempre affidata alla maggiore o minore avvedutezza dell’accusa; ed il soggetto che volesse rendere interrogatorio preferirà affidarsi al giudice e non alla parte pubblica, anche attraverso una memoria ex art.121 C.p.p..

4. Considerazioni conclusive
Molteplici, dunque, sono gli aspetti su quali occorre riflettere, e che le righe seguenti hanno cercato di individuare in estrema sintesi, nella convinzione dell’utilità ai fini di un sereno dibattito.

Come accade in casi consimili, occorrerà anche valutare l’impatto pratico delle nuove disposizioni e la loro applicazione concreta da parte degli operatori.

Occorre, peraltro, sottolineare come nel quadro di una difesa che si vuole efficace sin dalle prime battute, è necessario considerare anche il risvolto economico che lo svolgimento delle investigazioni difensive comporta, in quanto potrebbero verificarsi delle situazioni in cui possa emergere una intollerabile disparità di trattamento nella fruizione del diritto di difesa in ragione delle diverse condizioni economiche; è quindi da considerare l’opzione, già da tempo realizzata negli U.S.A. , di far rientrare nel gratuito patrocinio anche l’attività investigativa della difesa.

Il difensore, inoltre, viene chiamato a fornire un ennesimo contributo in termini di professionalità ma anche di deontologia, sia per i risvolti penalistici del suo operato (tanto più che i rapporti tra l’attività difensiva ed il reato di favoreggiamento non sempre sono delineabili con nettezza), sia per la credibilità da cui egli, al pari dell’informatore da lui introdotto in dibattimento, deve essere circondato.

Resta pure da interrogarsi, sulla scorta dell’esperienza americana in tema di ineffective assistance, sugli eventuali profili di responsabilità civile, penale e disciplinare del difensore che abbia omesso di svolgere indagini in prospettiva utili al corretto assolvimento del mandato: già in passato non era mancato chi aveva ipotizzato la configurabilità, nel caso in questione, del reato di patrocinio infedele.

V’è infine da osservare che allo stato dei fatti, l’udienza preliminare, luogo in cui elettivamente il materiale raccolto dalla difesa confluirà, conferma sempre la sua deformazione da filtro giurisdizionale di imputazioni azzardate a fase processuale inquisitoria, sui cui vengono riposte molte delle speranze di deflazione della giustizia penale: l’abiura del disegno originario del codice, impostato sull’oralità e sull’immediatezza, sembra essere confermata dal fatto che, in realtà, il metodo dialogico di formazione della prova è abbandonato a favore di una doppia inquisizione, ossia dalla estensione al difensore dello stesso perverso metodo monologico che caratterizzava ieri il giudice istruttore, oggi il P.M.; ci si augura almeno che il G.u.p., che oggi deve, lui, controllare i risultati formati da altri in sua assenza, si mantenga aderente alla sua figura imparziale e non risenta di influenze “di casta”: il problema della separazione delle carriere, che certo avrebbe meritato più attenta considerazione rispetto a quanto evidenziato dall’ultima consultazione referendaria, riemerge impregiudicato nella sua urgenza.

Tutto ciò pare evidenziare ancora una volta l’insussistenza (la pratica irrealizzabilità?) di un sistema accusatorio puro: oggi come oggi, si manifesta una continuità con la tradizione del sistema misto, in una versione un po’ più rispondente ai principi costituzionali; nondimeno, rimangono intatte tutte le riserve di metodo gnoseologico, che pure erano state considerate da quanti meritoriamente, ma a questo punto invano, vollero un nuovo processo penale.

Gianfranco Notaro - gfnotaro@libero.it - gennaio 2001

(riproduzione riservata)


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