Alessandra Cheli, Commento al decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274 in materia di Giudice di pace penale - Parte III - artt. 40-65
** Il Capo VII del decreto legislativo (artt. 40-46), concerne le disposizioni relative all’esecuzione dei provvedimenti emessi in materia penale dal giudice di pace; laddove la disciplina particolare nulla dispone, si applicano le norme ordinarie in forza del rinvio contenuto nell’art. 2 comma 1° d. lgs.
Capo
VII Art.
40. |
1. Salvo diversa disposizione di legge, competente a conoscere dell'esecuzione di un provvedimento è il giudice di pace che l'ha emesso.
** Nell’ambito dell’individuazione del giudice dell’esecuzione competente, è riproposta la regola generale di cui all’art. 665 comma 1° c.p.p. in cui si afferma che “salvo diversa disposizione di legge, competente a conoscere dell’esecuzione di un provvedimento è il giudice che lo ha deliberato”.
2. Se l'esecuzione concerne più provvedimenti emessi da diversi giudici di pace, è competente il giudice che ha emesso il provvedimento divenuto irrevocabile per ultimo. |
** Anche per tale ipotesi si applica la regola generale prevista all’art. 665 comma 4° c.p.p., secondo il quale “Se l’esecuzione concerne più provvedimenti emessi da giudici diversi, è competente il giudice che ha emesso il provvedimento divenuto irrevocabile per ultimo”.
3. Se i provvedimenti sono stati emessi dal giudice di pace e da altro giudice ordinario, è competente in ogni caso quest'ultimo. |
** Tale disposizione riprende invece la disciplina dell’art. 665 comma 4° c.p.p. previgente al decreto legislativo del 1988 n. 51 introduttivo del giudice unico di primo grado, il quale prevedeva che nell’ipotesi di più provvedimenti emessi dal pretore e da altro giudice ordinario competente dell’esecuzione fosse il giudice ordinario. La regola, applicata alla disciplina della esecuzione dei provvedimenti del giudice di pace, si giustifica in considerazione della natura non professionale dello stesso, nonché per il fatto che la sua competenza penale è limitata e che per espressa previsione della legge delega non può applicare sanzioni detentive.
4. Se i provvedimenti sono stati emessi dal giudice di pace e da un giudice speciale, è competente per l'esecuzione il tribunale in composizione collegiale nel cui circondario ha sede il giudice di pace. |
** Nell’ipotesi di concorso di provvedimenti emessi dal giudice di pace e da un giudice speciale, quale ad esempio il tribunale militare, [1] l’applicazione dell’art. 665 comma 4° c.p.p. avrebbe comportato la competenza del giudice di pace, visto che la regola generale è quella della competenza del giudice ordinario. Il legislatore ha tuttavia previsto una parziale deroga a tale regola in quanto, pur confermando la competenza del giudice ordinario, quest’ultima non è stata tuttavia attribuita al giudice di pace, bensì al tribunale nel cui circondario ha sede il giudice di pace. Trattasi di tribunale in composizione collegiale, in quanto si è tenuto conto che anche i giudici speciali presentano tale composizione, nonostante in un primo momento si fosse optato per la scelta del tribunale in composizione monocratica, ossia per lo stesso giudice al quale per legge è devoluto l’appello avverso i provvedimenti del giudice di pace (art. 39 d. lgs.).
5. Il giudice indicato nei commi da 1 a 4 è competente anche se il provvedimento da eseguire è stato comunque riformato. |
** In considerazione della peculiarità del rito innanzi al giudice di pace, in deroga all’art. 665 comma 2° c.p.p., si è stabilito che la competenza individuata secondo le regole suindicate è mantenuta anche nell’ipotesi di riforma del provvedimento da eseguire.
Art.
41. 1. Salvo quanto previsto nel comma 2, nel procedimento di esecuzione davanti al giudice di pace si osservano le disposizioni di cui all'articolo 666 del codice di procedura penale. 2. Contro il decreto del giudice di pace che dichiara inammissibile la richiesta formulata nel procedimento di esecuzione e contro l'ordinanza che decide sulla richiesta, l'interessato può proporre, entro quindici giorni dalla notifica del provvedimento, ricorso per motivi di legittimità al tribunale in composizione monocratica nel cui circondario ha sede il giudice di pace. 3. Il tribunale decide con ordinanza non impugnabile. Si osservano le disposizioni di cui all'articolo 127 del codice di procedura penale. |
** Come espressamente previsto dall’art. 41 comma 1° d. lgs., al procedimento di esecuzione si applica la disciplina generale di cui all’art. 666 c.p.p. Il procedimento è quindi instaurato su richiesta del pubblico ministero, dell’interessato o del difensore. Il giudice di pace deve fissare la camera di consiglio, a meno che non ritenga di poter pronunciare de plano, dopo aver sentito il pubblico ministero, un decreto motivato di inammissibilità dell’istanza per manifesta infondatezza, per difetto delle condizioni di legge ovvero perché mera riproposizione di una richiesta già rigettata e basata sui medesimi elementi. La camera di consiglio, il cui avviso di fissazione deve essere notificato alle parti almeno 10 giorni prima della data prevista per l’udienza, si svolge con la presenza necessaria del pubblico ministero e del difensore; l’interessato detenuto in carcere o agli arresti domiciliari è tradotto in udienza solo se ne fa espressa richiesta, purché si trovi nel circondario ove ha sede l’ufficio del giudice di pace competente, e negli altri casi in cui il giudice lo ritenga necessario; se l’interessato è detenuto o internato in luogo posto fuori da tale circoscrizione, su sua richiesta viene ascoltato dal magistrato di sorveglianza del luogo almeno il giorno prima di quello in cui è stata fissata l’udienza in camera di consiglio. Il giudice di pace, assunte le prove necessarie nel contraddittorio tra le parti, decide sulla questione proposta con ordinanza. L’unica deroga alla disciplina generale è prevista al comma 2° del presente articolo e riguarda la possibilità per l’interessato di ricorrere al tribunale in composizione monocratica nel cui circondario ha sede il giudice di pace, contro il decreto che dichiara inammissibile la richiesta formulata nel procedimento di esecuzione e contro l’ordinanza che decide sulla richiesta stessa. Il ricorso, che deve essere effettuato entro 15 giorni dalla notifica del provvedimento, può essere proposto solo per motivi di legittimità. L’ordinanza con la quale il tribunale decide non è impugnabile e si osservano le disposizioni di cui all’art. 127 c.p.p. relativo al procedimento in camera di consiglio.
Quindi, la deroga all’art. 666 c.p.p., consiste in primo luogo nel fatto che i provvedimenti del giudice di pace in funzione di giudice dell’esecuzione possono essere impugnati solo per motivi di legittimità, mentre la norma ordinaria, riferendosi al ricorso per cassazione, ricomprende anche le ipotesi di mancanza o illogicità della motivazione. In secondo luogo, viene attribuita la competenza a decidere sull’impugnazione al tribunale in composizione monocratica e non alla corte di cassazione. Anzi, il ricorso in cassazione viene escluso dalla previsione della non impugnabilità dell’ordinanza emessa dal tribunale. La diversa disciplina viene giustificata dalla Relazione sia per l’esigenza di rendere più snello il procedimento di impugnazione avverso i provvedimenti emessi in sede esecutiva dal giudice di pace, sia per la necessità di rispettare l’art. 19 della legge delega (poi trasfusa nella disposizione di cui all’art. 39 d. lgs.), secondo il quale sulle impugnazioni proposte contro le sentenze e i provvedimenti penali del giudice di pace è competente il tribunale. Tuttavia, una parte della dottrina non ritiene queste delle giustificazioni valide a tal punto da prevedere una impugnazione limitata ai soli motivi di legittimità, nonché una esclusione del ricorso in cassazione dei provvedimenti di esecuzione del giudice di pace. [2]
Art.
42. 1. Le condanne a pena pecuniaria si eseguono a norma dell'articolo 660 del codice di procedura penale, ma l'accertamento della effettiva insolvibilità del condannato è svolto dal giudice di pace competente per l'esecuzione che adotta altresì i provvedimenti in ordine alla rateizzazione, ovvero alla conversione della pena pecuniaria. |
** L’esecuzione delle pene pecuniarie inflitte dal giudice di pace è disciplinata dalla disposizione generale di cui all’art. 660 c.p.p. e dall’art. 181 disp. att. c.p.p.; entro 30 giorni dal passaggio in giudicato della sentenza, la cancelleria del giudice dell’esecuzione provvede al recupero delle pene pecuniarie e delle spese del procedimento nei confronti del condannato. A tal fine, la cancelleria notifica al condannato l’estratto della sentenza in forma esecutiva all’atto di precetto contenente l’intimazione di pagare entro 10 giorni dalla notificazione le somme indicate nel provvedimento. L’art. 42 d. lgs. prevede una deroga alla regola generale, nell’ipotesi in cui la procedura esecutiva non vada a buon fine. Mentre l’art. 660 comma 2° c.p.p. dispone che se è accertata la impossibilità di esazione della pena pecuniaria o di una rata di essa, il pubblico ministero deve trasmettere gli atti al magistrato di sorveglianza al quale spetta l’accertamento della effettiva insolvibilità del condannato e la conversione della pena, o la sua rateizzazione, l’art. 42 d. lgs. stabilisce che spetta al giudice di pace competente per l’esecuzione (individuato a norma dell’art. 40 d. lgs.), l’accertamento dell’effettiva insolvibilità del condannato, nonché l’adozione dei provvedimenti di rateizzazione ex art. 133 ter c.p. o di conversione della pena pecuniaria.
Spetta al giudice di pace competente per l’esecuzione, verificare quindi le ragioni per le quali la procedura esecutiva ha dato esito negativo. Si applica l’art. 182 disp. att. c.p.p. per cui, al fine di accertare l’effettiva insolvibilità del condannato, dispone le opportune indagini nel luogo dove il condannato ha il domicilio o la residenza. Se ha ragione di ritenere che questi possieda beni o cespiti di reddito può richiedere, se necessario, informazioni agli organi finanziari.
Accertato lo stato di insolvenza del condannato, il giudice di pace competente per l’esecuzione può rateizzare la pena. La rateizzazione è effettuata ex art. 133 ter c.p., dividendo il totale della somma per un numero di rate che può andare da un minimo di 3 ad un massimo di 30 e per una somma non inferiore a £ 30.000 ciascuna.
Per ciò che concerne la conversione della pena pecuniaria, questa viene convertita in lavoro sostitutivo se vi è la richiesta del condannato, oppure in obbligo di permanenza domiciliare in base ai criteri ex art. 55 d. lgs. La conversione può essere rinviata per un periodo di 6 mesi, differimento che può essere reiterato se si accerta la permanenza dello stato di insolvenza.
Le giustificazioni fornite dal legislatore a tale deroga al regime ordinario di cui all’art. 660 comma 2° c.p.p. consistente nella competenza in caso di procedura esecutiva negativa del giudice di pace dell’esecuzione e non del magistrato di sorveglianza, sono sostanzialmente quelle di economia processuale che, come si legge nella Relazione, sono “funzionali alla concentrazione delle competenze in executivis. In tal modo, si evitano gli inconvenienti, avvertiti nell’applicazione della disciplina attualmente vigente, derivanti dalla frammentazione delle competenze tra i giudici dell’esecuzione e magistrato di sorveglianza”.
Art.
43. 1. La sentenza penale irrevocabile è trasmessa per estratto a cura della cancelleria al pubblico ministero del circondario ove ha sede l'ufficio del giudice individuato in base all'articolo 40. 2. Il pubblico ministero, emesso l'ordine di esecuzione, lo trasmette immediatamente, unitamente all'estratto della sentenza di condanna contenente le modalità di esecuzione della pena, all'ufficio di pubblica sicurezza del comune in cui il condannato risiede o, in mancanza di questo, al comando dell'Arma dei carabinieri territorialmente competente. 3. Appena ricevuto il provvedimento di cui al comma che precede, l'organo di polizia ne consegna copia al condannato ingiungendogli di attenersi alle prescrizioni in esso contenute. Qualora il condannato sia detenuto o internato, copia dell'ordine di esecuzione è notificato altresì al direttore dell'istituto o della sezione il quale informa anticipatamente l'organo di polizia della dimissione del condannato. In tal caso, la pena comincia a decorrere dal primo giorno di permanenza domiciliare o di lavoro sostitutivo successivo a quello della dimissione. |
** L’esecuzione delle nuove pene applicabili dal giudice di pace quali la permanenza domiciliare ed il lavoro di pubblica utilità, viene disciplinata agli artt. 43 e 44 d. lgs. ed è anche essa ispirata a criteri di semplificazione e funzionalità.
- La cancelleria del giudice di pace trasmette al pubblico ministero competente per l’esecuzione, ossia al pubblico ministero del circondario in cui ha sede l’ufficio del giudice di pace che ha emanato la sentenza, l’estratto della sentenza divenuta irrevocabile.
- Il pubblico ministero emette l’ordine di esecuzione e lo trasmette, con l’estratto della sentenza di condanna contenente le modalità di esecuzione della pena, all’ufficio di pubblica sicurezza del comune in cui il condannato risiede oppure, se questo manca, al comando dell’arma dei Carabinieri competente per territorio.
- L’organo di polizia, ricevuto il provvedimento di esecuzione, ne consegna copia al condannato, ingiungendogli di rispettare le prescrizioni in esso contenute.
- Se il condannato è detenuto o internato (in quanto sottoposto a misura di sicurezza detentiva), l’atto viene notificato anche al direttore dell’istituto o della sezione, il quale ha l’obbligo di informare l’organo di polizia della dimissione del condannato, con conseguente decorrenza della pena dal giorno successivo a quello in cui il condannato viene dimesso dal carcere o dall’istituto.
Art.
44. 1. Le modalità di esecuzione della permanenza domiciliare e del divieto di cui all'articolo 53, comma 3, eventualmente imposto, nonché del lavoro di pubblica utilità, stabilite nella sentenza emessa dal giudice possono essere modificate per motivi di assoluta necessità dal giudice osservando le disposizioni dell'articolo 666 del codice di procedura penale. 2. La richiesta di modifica non sospende l'esecuzione delle pene; in caso di assoluta urgenza, le modifiche possono essere adottate con provvedimento provvisorio revocabile nelle fasi successive del procedimento. |
** L’art. 44 d. lgs. regola l’ipotesi di eventuali modifiche delle modalità di esecuzione di tali sanzioni. Durante l’esecuzione della sanzione dell’obbligo di permanenza domiciliare o della pena del lavoro di pubblica utilità, il pubblico ministero e l’interessato (o il suo difensore), possono chiedere di modificare le modalità di esecuzione delle pene, ovvero il divieto di accedere a specifici luoghi; la richiesta è però subordinata alla presenza di ragioni di assoluta necessità. La procedura da rispettare è quella di cui all’art. 666 c.p.p., ossia il procedimento camerale. Al fine di evitare interruzioni nell’esecuzione, il comma 2° dell’art. 44 d. lgs. stabilisce che la richiesta di modifica delle modalità di esecuzione non comporta sospensione dell’esecuzione della pena, a meno che non vi siano ragioni di assoluta urgenza; ed in tal caso il giudice di pace può disporre delle variazioni con provvedimento di natura provvisoria, revocabile anche nelle fasi successive del procedimento camerale. Precisa la Relazione che ”la disciplina è analoga a quella oggi vigente per la modifica delle modalità di esecuzione della semidetenzione e della libertà controllata (che, al contrario delle pene edittali paradetentive previste per i reati di competenza del giudice di pace, hanno natura di sanzioni sostitutive), con la differenza che la competenza è stata attribuita al giudice di pace, anziché al magistrato di sorveglianza. Considerata la peculiare natura delle sanzioni non pecuniarie previste per i reati di competenza del giudice di pace e tenuto conto della specifica disciplina della loro esecuzione, appare evidente che non possono trovare applicazione le disposizioni di cui all’art. 656 c.p.p.”
Art.
45. 1. Nei certificati del casellario giudiziale rilasciati a norma dell'articolo 689 del codice di procedura penale non sono riportate le iscrizioni relative alle sentenze emesse dal giudice di pace. |
** L’art. 17 comma 1° lett. p) della legge delega, stabiliva la “previsione di una particolare disciplina delle iscrizioni nel casellario giudiziario e dei loro effetti, assicurando tra l’altro che i certificati richiesti dall’interessato non riportino le iscrizioni delle condanne per reati la cui competenza è attribuita al giudice di pace”. Gli artt. 45 e 46 d. lgs., a tal fine, disciplinano la procedura delle iscrizioni nel casellario giudiziario derogando la disciplina generale del codice di rito. Nel rispetto del criterio di delega, l’art. 45 d. lgs. stabilisce che nei certificati del casellario giudiziario richiesti dall’interessato non siano riportate le iscrizioni relative alle sentenze emesse dal giudice di pace. A questo proposito, si hanno opinioni divergenti in dottrina circa l’operatività o meno della disposizione nell’ipotesi in cui il reato sia stato giudicato da altro giudice, ad esempio per effetto del regime di connessione di cui all’art. 6 d. lgs. Secondo una prima opinione, “nella direttiva contenuta nella delega, che fa riferimento ai reati attribuiti al giudice di pace, l’effetto della non iscrizione nel casellario giudiziario discende dalla natura particolare della fattispecie, per cui la disposizione opera ancorché il reato sia stato giudicato da diverso giudice. In tali casi, pertanto, come disposto dall’art. 63 comma 2°, il giudice professionale applicherà in caso di condanna per reati compresi nel catalogo dell’art. 4, la particolare disposizione in materia di iscrizione di cui all’art. 45 (come anche quella del successivo art. 46)”. [3] Al contrario, si afferma invece che, poiché l’art. 45 prevede espressamente la non menzione solo delle sentenze emesse dal giudice di pace, questa ipotesi non può essere estesa a quelle emesse dal giudice ordinario eventualmente competente per connessione. [4]
Art.
46. 1. Fermo quanto previsto
dall'articolo 687 del codice di procedura penale, sono altresì eliminate
le iscrizioni relative: |
** Le varie ipotesi di eliminazione delle iscrizioni nel casellario giudiziale sono disciplinate dall’art. 687 c.p.p., ma l’art. 46 d. lgs., amplia tali ipotesi, prevedendo:
1. l’eliminazione delle sentenze di proscioglimento per difetto di imputabilità, trascorsi 3 anni dal giorno in cui la sentenza è divenuta irrevocabile; l’art. 687 comma 2° lett. b) c.p.p., prevede invece l’eliminazione solo dopo 10 anni in caso di delitto e dopo 3 anni in caso di contravvenzioni; 2. l’eliminazione di tutte le sentenze di condanna trascorsi 5 anni dal giorno in cui la sanzione è stata eseguita se è stata inflitta la pena pecuniaria o 10 anni se è stata inflitta una pena diversa, sempre che nei periodi indicati non sia stato commesso un ulteriore reato. La Relazione precisa come tale disposizione intenda, da un lato, favorire l’esecuzione delle sanzioni inflitte dal giudice di pace, apprestando un meccanismo che colleghi alla tempestiva esecuzione delle pene effetti favorevoli per il condannato, dall’altro, tenuto conto della natura dei reati devoluti a tale giudice e delle relative sanzioni, contenere nel tempo l’efficacia di precedente penale di tali pronunce. Inoltre, la previsione che l’eliminazione è subordinata alla mancata commissione di ulteriori reati potrà avere un effetto deterrente in ordine alla reiterazione della condotta criminosa. |
** Il capo VIII del decreto legislativo (artt. 47-51), concerne le norme di coordinamento e di attuazione della disciplina processuale.
Capo
VIII Art.
47. 1. Nell'articolo 6 del codice di procedura penale, dopo le parole: "alla competenza della corte di assise" sono aggiunte le seguenti: "o del giudice di pace.". |
** L’aggiunta al codice di procedura penale si rende necessaria al fine dell’aggiornamento dell’elenco dei giudici tra cui è ripartita la competenza per materia, nell’ambito dell’esercizio della giurisdizione penale, di modo tale che l’art. 6 c.p.p. viene così formulato: “Il tribunale è competente per i reati che non appartengono alla competenza della corte d’assise o del giudice di pace “. La Relazione specifica che in tale norma del codice di rito sono giustamente omessi sia il tribunale militare, sia il tribunale per i minori; il primo, in quanto è un giudice speciale consentito dalla stessa Costituzione ex art. 103 e VI disposizione transitoria e finale, il secondo, perché ad esso è assegnata una competenza ratione personae. Per ciò che concerne invece il giudice di pace, non ci sarebbe ragione di omettere la presenza di tale giudice tra gli organi titolari di giurisdizione penale ordinaria.
Art.
48. 1. In ogni stato e grado del processo, se il giudice ritiene che il reato appartiene alla competenza del giudice di pace, lo dichiara con sentenza e ordina la trasmissione degli atti al pubblico ministero. Le prove acquisite dal giudice incompetente sono utilizzabili nel processo davanti al giudice di pace. |
** Tale disposizione ribadisce la cognizione esclusiva del giudice di pace nell’ambito dei reati a questi assegnati, esclusività che subisce deroga solo nelle ipotesi di connessione eterogenea dovuta a concorso formale dei reati a favore del giudice togato (art. 6 d. lgs.) e di reato commesso da minore, nel qual caso la competenza è attribuita al tribunale per i minorenni (art. 4 comma 4° d. lgs).
L’art. 48 d. lgs. in esame, si riferisce quindi al giudice togato il quale si rende conto che il reato per il quale sta procedendo appartiene alla competenza del giudice di pace. La regola generale vuole che se il giudice si trova a dover decidere su un reato attribuito ad un giudice di competenza inferiore, trattiene comunque a sé il giudizio; in relazione invece ai reati devoluti alla competenza del giudice di pace, il giudice togato dovrà trasmettere gli atti al pubblico ministero, il quale provvederà ad investire del reato stesso il giudice di pace. Secondo la Relazione, volutamente non è stata precisata la ragione dell’incompetenza, perché questa può verificarsi per qualunque causa: conflitto di competenza, mutamento dell’imputazione nel corso dell’udienza preliminare, del giudizio abbreviato o del dibattimento di primo grado, rilevata erroneità della qualificazione giuridica nel giudizio di merito o in quello di legittimità.
E’ opportuno sottolineare come la disposizione si applichi in ogni stato e grado del processo e come venga nella sostanza ribadita la regola di cui all’art. 23 c.p.p., come emendato dalla Corte Costituzionale con sentenza del 1993 n. 73. Si sarebbe potuto adottare la soluzione di imporre al giudice del procedimento ordinario la trasmissione diretta degli atti al giudice di pace, perché anche in tal modo nessun pregiudizio poteva essere arrecato all’imputato. Si è tuttavia preferito stabilire che la dichiarazione di incompetenza sia seguita dalla trasmissione degli atti al pubblico ministero, ribadendo la regola prevista dall’art. 23 c.p.p. in quanto la trasmissione degli atti direttamente al giudice di pace non avrebbe assicurato un consistente risparmio di tempo, per cui si è optato per la regola generale che offre oltretutto il vantaggio dell’uniformità.
Le prove acquisite dal giudice incompetente sono utilizzabili nel processo davanti al giudice di pace. Pertanto, nessuna delle prove assunte dal giudice togato poi dichiaratosi incompetente viene perduta, e viene rispettato totalmente il principio di conservazione degli atti.
Art.
49. 1. Ai fini dell'emissione della citazione a giudizio di cui all'articolo 20, il pubblico ministero richiede al giudice di pace di indicare il giorno e l'ora della comparizione. 2. La richiesta del pubblico ministero e l'indicazione del giudice di pace sono comunicate anche con mezzi telematici. |
** Ai fini dell’emissione della citazione a giudizio nel procedimento ordinario, il pubblico ministero deve richiedere al giudice di pace competente l’indicazione del giorno e dell’ora della comparizione, in quanto la citazione a giudizio deve contenere altresì tali elementi a norma dell’art. 20 coma 2° lett. d) d. lgs. Per consentire inoltre un rapido ed efficiente collegamento tra i due uffici interessati, si è stabilito che la richiesta del pubblico ministero e l’indicazione del giudice di pace sono comunicate, ove disponibili, con mezzi telematici.
Art.
50. 1. Nei procedimenti
penali davanti al giudice di pace, le funzioni del pubblico ministero
possono essere svolte, per delega del procuratore della Repubblica presso
il tribunale ordinario: 2. Nei casi indicati nel comma 1, la delega è conferita in relazione ad una determinata udienza o a un singolo procedimento. 3. La delega è revocabile nei soli casi in cui il codice di procedura penale prevede la sostituzione del pubblico ministero. 4. Si osservano le disposizioni di cui all'articolo 162, commi 1, 3 e 4, del decreto legislativo 25 luglio 1989, n. 271. |
** L’art. 17 comma 1° lett. m) della legge delega, prevedeva che “le funzioni di pubblico ministero in udienza siano delegate dal procuratore della Repubblica presso il tribunale che non le eserciti personalmente, ad uno dei soggetti di cui all’art. 72 dell’ordinamento giudiziario, approvato con regio decreto del 30 gennaio 1941 n. 12, e successive modificazioni”. Si è quindi previsto che le funzioni di pubblico ministero nell’udienza dibattimentale siano delegate dal procuratore della Repubblica, che non intenda svolgerle personalmente, ad uditori giudiziari, vice procuratori addetti all’ufficio, ufficiali di polizia giudiziaria diversi da quelli che hanno svolto le indagini preliminari e frequentanti il secondo anno della scuola di specializzazione per le professioni legali.
Inoltre, si è prevista anche la delegabilità delle funzioni di pubblico ministero a vice procuratori onorari anche per l’intervento nel procedimento ordinario e in quello su ricorso del querelante e nei procedimenti di esecuzione, camerali e di opposizione al decreto del pubblico ministero di liquidazione del compenso a periti, consulenti tecnici e traduttori.
La Relazione giustifica la disposizione in quanto già nell’attuale disciplina la delega è ammessa per la richiesta di decreto penale di condanna (che rappresenta una modalità di esercizio dell’azione penale) e nei procedimenti in questione; la delegabilità delle funzioni di pubblico ministero anche in queste ipotesi appare inoltre funzionale a consentire agli uffici di procura di svolgere in modo efficiente e sollecito le proprie funzioni dinanzi al giudice di pace. Analoga previsione non è invece necessaria in relazione ai praticanti avvocati. A norma dell’art. 7 comma 1° della legge del 16 dicembre 1999 n. 479, i praticanti avvocati abilitati al patrocinio possono infatti esercitare l’attività professionale nelle cause di competenza del giudice di pace, ivi comprese quelle di natura penale.
Art.
51. 1. Con regolamento emanato
ai sensi dell'articolo 17, comma 3, della legge 23 agosto 1988, n. 400,
entro centocinquanta giorni dalla pubblicazione del presente decreto legislativo,
il Ministro della giustizia adotta le disposizioni regolamentari relative
ai procedimenti penali davanti al giudice di pace, che concernono: 2. Il parere del Consiglio di Stato sul regolamento previsto nel comma 1 è reso entro trenta giorni dalla richiesta. 3. La disciplina sulla tenuta in forma automatizzata dei registri e delle altre forme di registrazione in materia penale è adottata con decreto del Ministro della giustizia. |
Nel termine di 150 giorni dalla data di pubblicazione, il ministero della giustizia, con regolamento emanato ai sensi dell’art. 17 comma 3° della legge del 23.08.1988 n. 400 (legge di disciplina generale dell’attività di Governo e ordinamento della Presidenza del Consiglio dei Ministri), previo parere del Consiglio di Stato, adotta le necessarie disposizioni sulla modalità di formazione e tenuta dei fascicoli degli uffici giudiziari, rilascio dei certificati del casellario giudiziale da parte degli uffici del giudice di pace e ad ogni altra attività necessaria per l’attuazione del decreto. Inoltre, l’art. 51 comma 3°, prevede che con decreto ministeriale verrà disciplinata la tenuta dei registri relativi al procedimento davanti al giudice di pace.
Titolo
II |
** La direttiva di cui all’art. 14 della legge delega, imponeva al Governo l’adozione di un apparato sanzionatorio dei reati devoluti alla competenza del giudice di pace secondo i principi previsti dall’art. 16 della stessa delega, i quali stabilivano l’obbligo per il legislatore delegato di rispettare determinati criteri.
1. Di prevedere, in luogo delle pene detentive vigenti, la sola sanzione pecuniaria per un importo non superiore ai 5 milioni, ovvero, nei casi di maggiore gravità o di recidiva, di sanzioni alternative alla detenzione quali la prestazione di attività non retribuita o altre forme di lavoro sostitutivo per un periodo non superiore a 6 mesi, l’obbligo di permanenza in casa per un periodo non superiore a 45 giorni, ovvero misure prescrittive specifiche determinando la misura o il tempo della sanzione indipendentemente dalla commisurazione con le attuali pene edittali.
2. Di prevedere, per le pene pecuniarie non pagate, un meccanismo di conversione in lavoro sostitutivo per un periodo non inferiore ad un mese e non superiore a 6 mesi, nonché l’applicabilità delle disposizioni di cui agli artt. 102 comma 4°, e 108 comma 1° della legge 24.11.1981 n. 689.
3. Di prevedere uno specifico delitto, punito con pena detentiva fino ad un anno non sostituibile, per le gravi inosservanze o le violazioni reiterate degli obblighi connessi alle sanzioni alternative alla detenzione, da attribuire alla competenza del tribunale.
Sulla base di tali criteri dettati dalla legge delega, il legislatore delegato ha quindi provveduto a creare un sistema sanzionatorio autonomo. Le nuove sanzioni infatti, non possono dirsi appartenenti alla categoria delle misure alternative alla detenzione in senso proprio, ma, per espressa disposizione dell’art. 52 d. lgs., costituiscono pene principali, tanto che la stessa Relazione precisa come, nonostante l’art. 16 lett. a) e c) della legge delega faccia richiamo alle misure alternative alla detenzione, in realtà questo deve essere inteso in senso atecnico, il quale sta solo ad indicare l’intenzione del legislatore di bandire la pena detentiva dall’armamentario sanzionatorio del giudice di pace.
** L’art. 52 d. lgs., contiene le nuove previsioni edittali, consentendo però, come afferma la Relazione, la “conservazione delle vecchie, secondo lo schema di doppia cornice”. Il legislatore ha optato per l’introduzione di un sistema sanzionatorio esterno al codice penale con conseguente autonomia di tale sistema, ma in modo tale che le previsioni del codice penale, saranno “riutilizzate”, così come la stessa distinzione tra delitti e contravvenzioni, nell’ipotesi in cui il reato ritorni alla cognizione del giudice ordinario, ad esempio per effetto della presenza di aggravanti o in caso di connessione a norma dell’art. 6 comma 2° d. lgs.
Secondo la Relazione, la soluzione di incidere direttamente sul dettato del codice penale, modificando gli editti sanzionatori delle singole fattispecie, sarebbe stata sì agevole da realizzare, ma avrebbe generato un effetto grave di disorientamento nel lettore, in antitesi con la naturale aspirazione di qualunque codice. “In altri termini, sarebbe risultato difficile per il cittadino cogliere la ragione per cui fatti meno gravi avrebbero continuato ad essere previsti secondo le attuali previsioni, e fatti più gravi sarebbero stati invece alleggeriti sotto il profilo sanzionatorio. A titolo semplificativo, si segnala l’inestetismo di un codice che avrebbe visto comminata per la lesione dolosa ex art. 582 c.p. una sanzione pecuniaria (multa da 1 a 5 milioni), a fronte di quella detentiva (da 3 mesi a 3 anni), residuata per la corrispondente ipotesi colposa perseguibile d’ufficio”.
Il fatto che comunque sia stata prevista una doppia cornice edittale con il mantenimento della cornice edittale vecchia nell’impianto normativo del codice penale e con la creazione di nuove previsioni edittali all’interno del decreto, non elimina di sicuro la disarmonia, la quale è comunque una conseguenza inevitabile in quanto imposta dalla legge delega. Tuttavia, è più giustificabile non incidere sul codice penale ma inserire le nuove previsioni edittali solo all’interno del decreto legislativo, perché quest’ultimo traccia una sorta di “microsistema di tutela integrata”, ossia un meccanismo in cui le funzioni conciliative dl giudice di pace condizionano la creazione di un sistema di diritto penale più mite dal punto di vista delle sanzioni applicabili. Il fine ultimo che si è inteso perseguire, e che emerge dalle linee dello schema legislativo è dunque la realizzazione di una giustizia più semplice e più vicina anche alla comprensione dei cittadini. In ciò, un ruolo essenziale è svolto proprio dalle sanzioni. Il modello di giustizia prescelto, gioca quindi le sue carte non più sulla minaccia astratta di una pena detentiva (destinata sempre più frequentemente a rimanere sulla carta ovvero ad applicazioni casuali e quindi sperequative), quanto sull’effettività della risposta, e soprattutto sulla supplenza da parte di modelli latu sensu compensativi, che antepongono le aspettative dei cittadini alla pretesa punitiva dello Stato, come tradizionalmente intesa.
Art.
52. 1. Ai reati attribuiti alla competenza del giudice di pace per i quali è prevista la sola pena della multa o dell'ammenda continuano ad applicarsi le pene pecuniarie vigenti. |
** L’esigenza di sostituire l’apparato sanzionatorio si è manifestata solo con riguardo ai reati che avrebbero comportato l’applicazione della pena detentiva; l’art. 16 comma 1° della legge delega alla lettera a), esordisce affermando “in luogo delle attuali pene detentive”. Per questo, si è stabilito che ai reati attribuiti alla competenza del giudice di pace per i quali è prevista la sola pena della multa o dell’ammenda continuano ad applicarsi le pene pecuniarie vigenti.
2. Per gli altri reati
di competenza del giudice di pace le pene sono così modificate: |
** Riguardo gli altri reati devoluti alla competenza del giudice di pace per i quali erano in precedenza previste pene detentive, i criteri di conversione previsti da tale disposizione danno luogo ad una sorta di scala di gravità suddivisa in tre fasce.
1. Per i reati puniti con la pena detentiva alternativa a quella pecuniaria, la pena prevista è solo la corrispondente pena dell’ammenda o della multa, da £ 500.000 a £ 5.000.000; solo se la pena detentiva edittale è superiore nel massimo a 6 mesi di arresto o di reclusione, oltre alla pena pecuniaria è prevista in alternativa la permanenza domiciliare da 6 a 30 giorni o la pena del lavoro di pubblica utilità da 10 giorni a 3 mesi.
2. Per i reati puniti solo con la pena detentiva, la pena prevista è quella pecuniaria della specie corrispondente (ossia ammenda per le contravvenzioni e multa per i delitti), da £ 1.000.000 a £ 5.000.000, ovvero, in alternativa, la permanenza domiciliare da 15 a 45 giorni o la pena del lavoro di pubblica utilità da 20 giorni a 6 mesi.
3. Per i reati puniti congiuntamente con pena pecuniaria e detentiva, la pena prevista è quella pecuniaria della specie corrispondente, da £ 1.500.000 a £ 5.000.000, ovvero la permanenza domiciliare da 20 a 45 giorni o la pena del lavoro di pubblica utilità da 1 a 6 mesi.
3. Nei casi di recidiva
reiterata infraquinquennale, il giudice applica la pena della permanenza
domiciliare o quella del lavoro di pubblica utilità, salvo che sussistano
circostanze attenuanti |
** Quando si ha recidiva reiterata infraquinquennale a norma dell’art. 99 comma 2° lett. a) e comma 3° c.p., il giudice applica la pena della permanenza domiciliare o del lavoro di pubblica utilità, ossia le sanzioni più gravi che ha a disposizione. Tuttavia, il giudice potrà applicare la sola pena pecuniaria quando, a seguito del giudizio di bilanciamento delle circostanze di cui all’art. 69 c.p., le circostanze attenuanti saranno ritenute prevalenti o equivalenti alla recidiva.
4. La disposizione del comma 3 non si applica quando il reato è punito con la sola pena pecuniaria nonché nell'ipotesi indicata nel primo periodo della lettera a) del comma 2. |
** Nei reati puniti con la sola pena pecuniaria e nei reati in cui la pena detentiva sia solo alternativa a quella pecuniaria, è esclusa l’operatività della recidiva, per cui non si ha l’applicazione della pena della permanenza domiciliare o del lavoro di pubblica utilità. Questo, per evitare che l’applicazione delle sanzioni più severe dia luogo ad un trattamento deteriore rispetto alle sanzioni previgenti.
Art.
53. 1. La pena della permanenza domiciliare comporta l'obbligo di rimanere presso la propria abitazione o in altro luogo di privata dimora ovvero in un luogo di cura, assistenza o accoglienza nei giorni di sabato e domenica; il giudice, avuto riguardo alle esigenze familiari, di lavoro, di studio o di salute del condannato, può disporre che la pena venga eseguita in giorni diversi della settimana ovvero, a richiesta del condannato, continuativamente. 2. La durata della permanenza domiciliare non può essere inferiore a sei giorni né superiore a quarantacinque; il condannato non è considerato in stato di detenzione. 3. Il giudice può altresì imporre al condannato, valutati i criteri di cui all'articolo 133, comma secondo, del codice penale, il divieto di accedere a specifici luoghi nei giorni in cui non è obbligato alla permanenza domiciliare, tenuto conto delle esigenze familiari, di lavoro, di studio o di salute del condannato. 4. Il divieto non può avere durata superiore al doppio della durata massima della pena della permanenza domiciliare e cessa in ogni caso quando è stata interamente scontata la pena della permanenza domiciliare. |
** L’obbligo di permanenza domiciliare costituisce, accanto al lavoro di pubblica utilità previsto dal successivo art. 54 d. lgs., una delle nuove ipotesi di pene principali introdotte per i reati di competenza del giudice di pace, di modo che tali pene vengono ad ampliare il catalogo già contenuto negli artt. 17 e segg. c.p. La permanenza domiciliare consiste nell’obbligo di rimanere presso la propria abitazione o in altro luogo di privata dimora ovvero in un luogo di cura, assistenza o accoglienza nei giorni di sabato e domenica. Il giudice, tuttavia, avuto riguardo alle esigenze di lavoro, di studio o di salute del condannato, può disporre che la pena venga eseguita in giorni diversi della settimana, ovvero, a richiesta del condannato, continuativamente. Non c’è dubbio che tale tipo di sanzione comporti degli effetti simili ad altri istituti già presenti nell’ordinamento, quali gli arresti domiciliari previsti all’art. 284 c.p.p. e la detenzione domiciliare di cui all’art. 47 ter dell’ordinamento penitenziario (legge 26.07.1975 n. 354 come modificata dalla legge del 27.05.1998 n. 165). Essa si differenzia però dagli arresti domiciliari in quanto l’istituto di cui all’art. 53 d. lgs. costituisce pena principale, mentre quello di cui all’art. 284 c.p.p. è una misura cautelare personale. Si differenzia inoltre dalla detenzione domiciliare, in quanto quest’ultima è misura alternativa alla detenzione in carcere che si applica solo in ipotesi di particolare situazione soggettiva del condannato, quali l’età, la salute ecc.
Ulteriori differenze sono date dal fatto che l’obbligo di permanenza domiciliare ha dei limiti edittali di durata, perché è stabilito che non può essere inferiore a 6 giorni né superiore a 45 giorni; inoltre, durante l’espiazione di tale pena il condannato non è considerato in stato di detenzione con riguardo agli oneri e alle spese connesse alla restituzione della sua libertà. Ed infine, del tutto originale è la previsione del frazionamento della pena, la quale viene espiata, di regola, solo nel fine settimana.
Chiarisce la Relazione, come “l’obbligo di permanenza domiciliare, in definitiva, appare strutturato in modo da essere sensibilmente distante da istituti paradetentivi che prevedono una continuativa permanenza presso il proprio domicilio; tuttavia, ragioni di opportunità, non contrastate sul punto da alcuna diversa previsione della delega, hanno imposto la previsione di una diversificazione dei contenuti della sanzione allorquando sia lo stesso condannato a farne richiesta ed il giudice ritenga di potervi aderire”.
Quindi, il giudice può, tenuto conto delle esigenze familiari, di lavoro, di studio o di salute del condannato, o disporre che la pena venga eseguita in giorni diversi della settimana rispetto a quelli di sabato e domenica; oppure imporre che la permanenza domiciliare sia continuativa, sempre che il condannato abbia richiesto espressamente tale continuatività.
Il giudice di pace, con la condanna alla pena dell’obbligo di permanenza domiciliare, può altresì imporre al condannato, naturalmente nei giorni in cui non opera l’obbligo di permanenza domiciliare, il divieto di accedere a specifici luoghi, tenuto conto delle esigenze familiari, di lavoro, di studio o di salute del condannato. Trattasi di una pena di natura accessoria che viene inflitta in considerazione dei criteri di cui all’art. 133 c.p., ossia della gravità del reato e della capacità a delinquere del reo. Nello stabilire la durata di tale divieto di accesso, il giudice di pace non può superare il limite di giorni pari al doppio di quelli per i quali è stata irrogata la pena della permanenza domiciliare ed in ogni caso il divieto cessa quando la pena principale è stata scontata interamente.
Art.
54. 1. Il giudice di pace può applicare la pena del lavoro di pubblica utilità solo su richiesta dell'imputato. 2. Il lavoro di pubblica utilità non può essere inferiore a dieci giorni né superiore a sei mesi e consiste nella prestazione di attività non retribuita in favore della collettività da svolgere presso lo Stato, le regioni, le province, i comuni o presso enti o organizzazioni di assistenza sociale e di volontariato. 3. L'attività viene svolta nell'ambito della provincia in cui risiede il condannato e comporta la prestazione di non più di sei ore di lavoro settimanale da svolgere con modalità e tempi che non pregiudichino le esigenze di lavoro, di studio, di famiglia e di salute del condannato. Tuttavia, se il condannato lo richiede, il giudice può ammetterlo a svolgere il lavoro di pubblica utilità per un tempo superiore alle sei ore settimanali. 4. La durata giornaliera della prestazione non può comunque oltrepassare le otto ore. 5. Ai fini del computo della pena, un giorno di lavoro di pubblica utilità consiste nella prestazione, anche non continuativa, di due ore di lavoro. 6. Fermo quanto previsto dal presente articolo, le modalità di svolgimento del lavoro di pubblica utilità sono determinate dal Ministro della giustizia con decreto d'intesa con la Conferenza unificata di cui all'articolo 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281. |
** Mentre la pena della permanenza domiciliare rappresenta la pena più grave che può essere inflitta dal giudice di pace, quella del lavoro di pubblica utilità, anch’essa pena principale, dal punto di vista della gravità si pone come intermedia tra l’obbligo di permanenza domiciliare e la pena pecuniaria. Tuttavia, la caratteristica di tale sanzione intermedia è il fatto che essa può essere irrogata solo nel caso in cui lo stesso imputato ne faccia espressa richiesta. Questa condizione si è resa necessaria in quanto imposta dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo (legge del 04.08.1955 n. 848), la quale, nel vietare il lavoro forzato, precisa però che tale non può essere ritenuto quello “richiesto ad una persona detenuta”. Si precisa nella Relazione che, oltre che scelta obbligata, si è trattato di una scelta altresì opportuna, perché il lavoro di pubblica utilità, proprio perché sanzione fondata su di un facere, implica il consenso del condannato per conseguire apprezzabili risultati sul terreno dell’effettività. “Non è un caso, del resto, che tutti gli ordinamenti, continentali e non, che prevedono questo tipo di sanzione, ne subordinano l’applicazione al consenso del reo, nella convinzione che non sarebbe seriamente immaginabile una sua esecuzione senza l’esistenza di un atteggiamento collaborativo del condannato, che costituisce la spia di una volontà di rieducazione e, nel contempo, legittima appieno l’irrogazione della sanzione detentiva nel caso di violazione della sanzione”.
La pena consiste nella prestazione di attività non retribuita in favore della collettività, da svolgere presso lo Stato, le Regioni, le Province, i Comuni o presso enti o organizzazioni di assistenza sociale e di volontariato. L’attività viene svolta nell’ambito della provincia in cui risiede il condannato, ed il lavoro non può durare più di 6 ore a settimana ed esso va svolto con modalità e tempi che non pregiudichino le esigenze di lavoro, di studio, di famiglia e di salute del condannato. Tale regola è però derogabile a richiesta del condannato, il quale può essere ammesso a svolgere il lavoro di pubblica utilità per un tempo superiore alle 6 ore settimanali. In ogni caso, non possono essere superate le 8 ore giornaliere di prestazione lavorativa.
La durata complessiva del lavoro di pubblica utilità non può essere inferiore a 10 giorni né superiore a 6 mesi. Ai fini del computo della pena, la prestazione, anche non continuativa, di 2 ore di lavoro, equivale ad un giorno di pena, di modo che 6 ore di lavoro settimanale, ai fini del computo della pena, corrisponde a 3 giorni di lavoro di pubblica utilità.
La pena del lavoro di pubblica utilità ha sicuramente degli elementi in comune con la figura del lavoro sostitutivo introdotta dall’art. 105 della legge del 1981 n. 689, ma se ne differenzia sia per la natura che per le modalità di esecuzione. Infatti, mentre il lavoro sostitutivo è una pena che deriva dalla conversione della pena principale, ossia applicabile quando si converte la pena pecuniaria non eseguita per insolvibilità del condannato, il lavoro di pubblica utilità è invece pena principale. Quanto alle modalità di esecuzione, la stessa Relazione precisa come “le modalità di svolgimento del lavoro sostitutivo previsto dalla citata legge del 1981 n. 689 (una giornata lavorativa per settimana, salvo che il condannato chieda di essere ammesso ad una maggiore frequenza) appaiono incompatibili con le previsioni di cui all’art. 16 della legge delega che fissa in sei mesi il limite massimo di questo tipo di sanzione: una diversa disciplina del lavoro di pubblica utilità avrebbe dunque potuto comportare, ove si fosse seguito quel diverso criterio, un prolungamento della pena entro limiti temporali inaccettabili ed, inoltre, (ove si fosse ipotizzata una diversa durata della giornata lavorativa) avrebbe potuto avere effetti del tutto desocializzanti, non potendosi tenere conto in una previsione astratta, delle concrete esigenze lavorative, sociali, di famiglia (e così via dicendo) del condannato che si sarebbe trovato a poter disporre di una giornata lavorativa piena solo quando non avesse altri tipi di impegno”.
Le specifiche modalità di esecuzione del lavoro di pubblica utilità verranno stabilite con decreto che il ministero della giustizia dovrà emanare d’intesa con la conferenza unificata Stato-città ed autonomie locali, di cui all’art.8 del decreto legislativo del 28.08.197 n. 28.
Art.
55. 1. Per i reati di competenza del giudice di pace, la pena pecuniaria non eseguita per insolvibilità del condannato si converte, a richiesta del condannato, in lavoro sostitutivo da svolgere per un periodo non inferiore ad un mese e non superiore a sei mesi con le modalità indicate nell'articolo 54. |
** L’art. 55 d. lgs. mira ad assicurare l’effettività della sanzione pecuniaria inflitta dal giudice di pace attraverso la previsione di una disciplina specifica di ipotesi di conversione della pena pecuniaria non eseguita per insolvibilità del condannato. Il criterio direttivo di cui all’art. 16 comma 1° lett. b) della legge delega, stabiliva la “previsione, in caso di mancato pagamento della pena pecuniaria, della conversione in lavoro sostitutivo, per un periodo non inferiore ad un mese e non superiore a sei mesi, nonché dell’applicabilità delle disposizioni di cui agli articoli 102 comma 4°, e 108 comma 1°, della legge del 24.11.1981 n. 689, e successive modificazioni”. In attuazione di tale direttiva quindi, il comma 1° dell’art. 55 d lgs. stabilisce che la pena pecuniaria non eseguita per insolvibilità del condannato si converte, a richiesta del condannato, in lavoro sostitutivo da svolgere per un periodo non inferiore ad un mese e non superiore a 6 mesi con le modalità indicate nell’art. 54 d. lgs.
Precisa la stessa Relazione, che il lavoro sostitutivo è qui da intendersi con lo stesso contenuto del lavoro di pubblica utilità, essendo risultata improponibile una diversificazione delle due misure, che risultano pertanto assimilate, in assenza di contrarie direttive, anche in punto di durata massima. Il fatto che il contenuto del lavoro sostitutivo sia lo stesso del lavoro di pubblica utilità è confermato anche dal rinvio effettuato dalla norma all’art. 54 d. lgs.
2. Ai fini della conversione un giorno di lavoro sostitutivo equivale a lire venticinquemila di pena pecuniaria. |
** La durata del lavoro sostitutivo è determinata tenendo presente che un giorno di lavoro sostitutivo equivale a £ 25.000 di pena pecuniaria: tuttavia, qualora sia stato inflitto il massimo previsto per la pena pecuniaria, ossia £ 5.000.000, la conversione dovrebbe essere di 200 giorni di lavoro sostitutivo, ma in concreto ciò non è possibile, considerato che il comma 1° dispone che il massimo convertibile è di 6 mesi. La somma che può essere convertita è quindi di £ 4.500.000 che dà luogo a 6 mesi di lavoro sostitutivo, ossia al massimo consentito.
3. Il condannato può sempre far cessare la pena del lavoro sostitutivo pagando la pena pecuniaria, dedotta la somma corrispondente alla durata del lavoro prestato. |
** Nell’ipotesi quindi in cui il condannato, prima insolvibile, riacquisti una certa disponibilità economica, può chiedere in ogni momento di far cessare la pena del lavoro sostitutivo pagando la somma pecuniaria residua che rimane, dedotta la somma corrispondente alla durata del lavoro sostitutivo svolto.
4. Quando è violato l'obbligo del lavoro sostitutivo conseguente alla conversione della pena pecuniaria, la parte di lavoro non ancora eseguito si converte nell'obbligo di permanenza domiciliare secondo i criteri di ragguaglio indicati nel comma 6. |
** Nell’ipotesi in cui ci siano violazioni dell’obbligo del lavoro sostitutivo che consegue alla conversione delle pene pecuniarie, la parte di lavoro non ancora eseguito si converte nell’obbligo di permanenza domiciliare. Un giorno di permanenza domiciliare equivale a £ 50.000 di pena pecuniaria e comunque, la permanenza non può essere superiore a 45 giorni.
5. Se il condannato non richiede di svolgere il lavoro sostitutivo, le pene pecuniarie non eseguite per insolvibilità si convertono nell'obbligo di permanenza domiciliare con le forme e nei modi previsti dall'articolo 53, comma 1, in questo caso non e' applicabile al condannato il divieto di cui all'articolo 53, comma 3. |
** Presupposto per la conversione della pena pecuniaria in lavoro sostitutivo è che il condannato richieda quest’ultimo espressamente; in mancanza di una sua richiesta specifica, le pene pecuniarie non eseguite per insolvibilità, si convertono sempre nell’obbligo di permanenza domiciliare, ma in questo caso non è possibile l’applicazione al condannato il regime dei particolari divieti di accesso previsto all’art. 53 comma 3° d. lgs.
6. Ai fini della conversione un giorno di permanenza domiciliare equivale a lire cinquantamila di pena pecuniaria e la durata della permanenza non può essere superiore a quarantacinque giorni. |
Art.
56. 1. Il condannato che senza giusto motivo si allontana dai luoghi in cui è obbligato a permanere o che non si reca nel luogo in cui deve svolgere il lavoro di pubblica utilità o che lo abbandona è punito con la reclusione fino ad un anno. 2. Alla stessa pena soggiace il condannato che viola reiteratamente senza giusto motivo gli obblighi o i divieti inerenti alle pene della permanenza domiciliare o del lavoro di pubblica utilità. 3. In caso di condanna non sono applicabili le sanzioni sostitutive previste dagli articoli 53 e seguenti della legge 24 novembre 1981, n. 689. |
** L’art. 16 comma 1° lett. c) della legge delega stabiliva la “previsione di uno specifico delitto, punito con pena detentiva fino ad un anno non sostituibile, in caso di inosservanza grave o di violazione reiterata degli obblighi connessi alle sanzioni alternative alla detenzione, da attribuire alla competenza del tribunale”.
In ossequio alla direttiva della legge delega, è stata così prevista una norma di chiusura che punisce come delitto con la pena fino ad un anno di reclusione, la violazione degli obblighi nascenti dall’irrogazione delle pene dell’obbligo di permanenza domiciliare e del lavoro di pubblica utilità: a norma del successivo art. 57 d. lgs., la competenza è attribuita al tribunale in composizione monocratica. Sono tre le condotte che possono dare luogo a tale delitto, le quali consistono:
1. nell’allontanamento senza giusto motivo dai luoghi in cui il condannato è obbligato a permanere;
2. nel non raggiungere o nell’abbandonare, sempre senza giusto motivo, il luogo in cui il condannato deve svolgere il lavoro di pubblica utilità;
3. nel violare reiteratamente, senza giusto motivo, gli obblighi o i divieti inerenti alle pene della permanenza domiciliare o del lavoro di pubblica utilità.
Le prime due condotte, per integrare il delitto in esame, devono essere caratterizzate dalla gravità, in modo tale che il fatto reato si ha solo nell’ipotesi di allontanamento dal luogo di permanenza o nell’ipotesi di mancata presentazione o abbandono del lavoro; la terza condotta invece, deve essere caratterizzata dalla reiterazione, per cui la violazione degli obblighi o dei divieti inerenti le pene sopra indicate, non consiste in una mera trasgressione ma in una condotta ripetuta nel tempo.
E’ sempre richiesta la mancanza di un giusto motivo. Chiarisce a questo proposito la Relazione, che “questo requisito evoca una clausola di illiceità che sembra evidenziare un legame con la categoria delle scriminanti. Già impiegata, con alcune varianti lessicali, nel codice penale (si pensi alle clausole contenute negli artt. 637, 638, 731), questa clausola è caratterizzata dal richiamo di alcune cause di giustificazione, non già nella loro comune e predeterminata fisionomia (quella fissata dagli artt. 51 e 54 c.p.), ma in una accezione più ampia, ben potendo il giusto motivo essere costituito da un qualsiasi motivo correlato a particolari contingenze. In definitiva, il giusto motivo denota un’orbita applicativa lievemente più ampia rispetto a quella perimetrata dalle scriminanti comuni”.
In caso di condanna, non può essere applicata, in luogo della pena detentiva della reclusione, nessuna delle sanzioni sostitutive di cui agli artt. 53 e segg. della legge del 1981 n. 689; la non sostituibilità della pena della reclusione, si giustifica pienamente se si considera che già il condannato ha dato prova di “non meritare” un trattamento favorevole in quanto ha dimostrato appieno la sua inaffidabilità.
Art.
57. 1. La competenza per il delitto di cui all'articolo 56 è attribuita al tribunale in composizione monocratica. |
Art.
58. 1. Per ogni effetto giuridico la pena dell'obbligo di permanenza domiciliare e il lavoro di pubblica utilità si considerano come pena detentiva della specie corrispondente a quella della pena originaria. 2. Quando per qualsiasi effetto giuridico si deve eseguire un ragguaglio tra la pena detentiva e le pene di cui agli articoli 53 e 54, un giorno di pena detentiva equivale a due giorni di permanenza domiciliare o tre giorni di lavoro di pubblica utilità. 3. Un giorno di pena detentiva equivale a lire settantacinquemila di pena pecuniaria irrogata in luogo della pena detentiva a norma dell'articolo 52. 4. In deroga a quanto stabilito nell'articolo 78, primo comma, numero 3), del codice penale, la pena della multa o dell'ammenda non può comunque eccedere la somma di lire quindici milioni, ovvero la somma di lire sessanta milioni se il giudice si vale della facoltà di aumento indicata nel secondo comma dell'articolo 133-bis dello stesso codice. |
** L’art. 58 d. lgs. stabilisce i criteri di ragguaglio ed ha la fondamentale funzione di raccordo tra l’apparato sanzionatorio applicabile dal giudice di pace e l’intero sistema penale. Le nuove sanzioni stabilite dalla riforma in oggetto, ossia l’obbligo di permanenza domiciliare ed il lavoro di pubblica utilità, vengono equiparate per ogni effetto giuridico alla specie di pena detentiva originaria. Si è opportunamente notato, come venga così sancito “un principio di amplissima portata, idoneo a consentire il funzionamento di tutti gli istituti del codice penale modellati sulla tradizionale distinzione tra delitti e contravvenzioni, come ad esempio la continuazione”. [5]
I criteri di ragguaglio stabiliti e validi in linea generale e ad ogni effetto penale sono:
1. che la pena dell’obbligo di permanenza domiciliare e quella del lavoro di pubblica utilità si considerano come pena detentiva della specie corrispondente a quella della pena originaria;
2. che un giorno di pena detentiva equivale a due giorni di permanenza domiciliare e a tre giorni di lavoro di pubblica utilità;
3. che un giorno di pena detentiva equivale a £ 75.000 di pena pecuniaria irrogata in luogo di quella detentiva nei casi elencati dall’art. 52 d. lgs.
Si è inoltre resa necessaria una specifica deroga all’art. 78 c.p., determinata dal fatto che le attuali pene pecuniarie hanno limiti diversi (per l’ammenda vale il limite di 2 milioni in base all’art. 26 c.p., mentre per la multa quello di 10 milioni in base all’art. 24 c.p.) da quelli previsti dalle sanzioni pecuniarie irrogabili dal giudice di pace, fissati dalla legge delega in cinque milioni. Si aveva quindi l’esigenza di prevedere, nell’ipotesi di pluralità di violazioni, un tetto all’aumento delle pene principali: poiché già il codice penale compie un’opzione nel senso dell’aumento del triplo nel caso di concorso di reati ex art. 73 c.p., o di circa il quadruplo ove il giudice si avvalga della facoltà di aumento di cui all’art. 133 bis c.p. (art. 78 comma 1° n. 3 c.p.), si è operato attenendosi al medesimo criterio, tuttavia unificato quanto al risultato, dalla identità di soglia massima fissata per la pena pecuniaria che accede in eguale misura ai delitti come alle contravvenzioni. Di conseguenza, gli aumenti della pena pecuniaria, non possono eccedere, rispettivamente, i 15 ovvero i 60 milioni.
Art.
59. 1. L'ufficio di pubblica sicurezza del luogo di esecuzione della pena o, in mancanza dell'ufficio di pubblica sicurezza, il comando dell'Arma dei carabinieri territorialmente competente effettua il controllo sull'osservanza degli obblighi connessi alla pena dell'obbligo di permanenza domiciliare o del lavoro di pubblica utilità con le modalità stabilite dall'articolo 65, commi primo e secondo, della legge 24 novembre 1981, n. 689, in quanto applicabile. |
** I controlli sull’osservanza degli obblighi connessi alla pena dell’obbligo di permanenza domiciliare e del lavoro di pubblica utilità sono esercitati dall’ufficio di pubblica sicurezza del luogo di esecuzione della pena o, in mancanza dell’ufficio di pubblica sicurezza, dal comando dell’Arma dei carabinieri territorialmente competente. Le modalità di controllo sono quelle previste dall’art. 65 comma 1° e 2° della legge del 1981 n. 689, in quanto applicabile. L’autorità che esercita il controllo, deve quindi tenere un registro generale dal quale risultano i nominativi dei controllati ed inoltre, conserva i fascicoli relativi alle singole persone sottoposte a verifica. In tali fascicoli sono contenuti tutti i documenti utili all’esecuzione della pena, quali la sentenza di condanna e la cartella biografica.
Art.
60. 1. Le disposizioni di cui agli articoli 163 e seguenti del codice penale, relative alla sospensione condizionale della pena, non si applicano alle pene irrogate dal giudice di pace. |
** La scelta effettuata dal legislatore di escludere l’applicazione del beneficio della sospensione condizionale della pena, non è dovuta a criteri direttivi della legge delega, la quale non fa alcun riferimento circa l’applicabilità o meno di tale istituto. A tale esclusione si è giunti dopo un attento esame delle finalità a cui tendono sia le pene irrogabili dal giudice di pace, sia l’applicazione del beneficio della sospensione condizionale della pena.
Le pene irrogabili dal giudice di pace dimostrano sostanzialmente come si sia voluto evitare la sanzione detentiva privilegiando pene, quali la sanzione pecuniaria e le sanzioni alternative al carcere, caratterizzate da una esigua afflittività e tendenti esclusivamente ad una funzione rieducativa. La riforma in oggetto punta tutto sulle finalità conciliative e sulla esigenza di deflazionare il carico penale per cui, nelle intenzioni del legislatore, l’irrogazione della sanzione dovrebbe essere solo un esito eccezionale, derivante dall’insuccesso di tutti i numerosi meccanismi destinati a favorire una definizione anticipata del processo. Ma, per evitare tale insuccesso, occorre soprattutto che le sanzioni applicabili dal giudice di pace, pur di esigua afflittività, siano caratterizzate dall’effettività. La Relazione precisa come sia essenziale che “il giudice di pace non assuma le vesti di una tigre di cartapesta, ma che, al contrario, sia munito di un potere di irrogare sanzioni destinate ad esplicare una qualche funzione dissuasiva, capaci, perciò, di invogliare gli attori del sistema a ricorrere alla composizione del conflitto”. L’effettività delle pene irrogate dal giudice di pace, non sarebbe quindi garantita dalla applicazione del beneficio della sospensione condizionale della pena.
Non solo, valutando la stessa funzione propria di tale beneficio, che consiste nel voler evitare che l’autore del reato risenta degli effetti desocializzanti connessi alla pena carceraria, si osserva come questo non abbia ragione d’essere in un sistema che prevede sanzioni sprovviste di tali effetti desocializzanti, dato che solo nei casi più gravi è irrogata una “blanda sanzione paradetentiva” quale è l’obbligo di permanenza domiciliare.
Tuttavia, la scelta operata dal legislatore delegato ha dato luogo al sorgere di non poche critiche da parte della dottrina. Si è sostenuto infatti, che sarebbe stata sicuramente più giusta la strada inizialmente intrapresa dal Governo, il quale aveva in un primo momento optato per la soluzione di non escludere l’applicazione del beneficio della sospensione condizionale della pena, bensì di modificare tale istituto per adottarlo alle nuove esigenze, prevedendo quindi una limitazione dell’applicabilità del beneficio ai soli casi in cui a farne richiesta fosse stato lo stesso imputato e solo per la parte di pena pecuniaria eccedente il milione di lire.
La previsione dell’esclusione totale del beneficio è ritenuta foriera di iniquità sostanziali, tanto da far avanzare fondati dubbi di costituzionalità in relazione all’art. 3 della Costituzione, visto che “si garantisce esecutività fino ad un massimo di 45 giorni di permanenza domiciliare per chi si appropri di cose smarrite di cui sia venuto fortuitamente in possesso, conoscendone il proprietario (art. 647 comma 2° c.p.), mentre il responsabile di omicidio colposo, nella stragrande generalità dei casi, continuerà a fruire della sospensione della pena”. [6]
L’art. 60 d. lgs. pone inoltre un problema interpretativo laddove esclude l’applicabilità degli artt. 163 e segg. c.p. alle sole “pene irrogate dal giudice di pace”. Di conseguenza, per alcuni, tale disposizione sembra ammettere l’operatività dell’istituto della sospensione condizionale per le medesime sanzioni previste dal decreto legislativo, laddove le stesse siano irrogate dal giudice ordinario, ad esempio nel caso in cui questi dovesse occuparsi per connessione di reati normalmente di competenza del giudice di pace. [7]
Secondo altri autori invece, tale interpretazione non può essere accolta in quanto verrebbe a determinare notevoli squilibri, considerato che si potrebbe così pervenire alla esclusività o meno della condanna con riguardo ad elementi di carattere accidentale, determinati dalla attribuzione della competenza; soluzione che sarebbe inoltre in contrasto con lo stesso dato normativo, visto che l’art. 63 d. lgs. impone senza eccezioni al giudice professionale, in caso di trattazione delle fattispecie di cui all’art. 4 d. lgs., l’osservanza delle disposizioni dell’intero titolo II del decreto, in cui è ricompreso l’art. 60. Di conseguenza, si ritiene che l’art. 60 d. lgs. comporti il divieto di applicare il beneficio della sospensione condizionale della pena anche per il giudice togato. [8]
Art.
61. 1. Il corso della prescrizione per i reati attribuiti alla cognizione del giudice di pace è interrotto, oltre che dagli atti indicati nell'articolo 160 del codice penale, dalla citazione a giudizio disposta dalla polizia giudiziaria, dal decreto di convocazione delle parti emesso dal giudice di pace. |
** In sede di commento agli artt. 20 e 27 d. lgs. si è detto come la citazione a giudizio disposta dalla polizia giudiziaria ed il decreto di convocazione delle parti emesso dal giudice di pace a seguito di presentazione del ricorso immediato della persona offesa, siano atti idonei ad interrompere la prescrizione; questi si aggiungono, pertanto, ai casi indicati dall’art. 160 c.p.
E’ opportuno sottolineare come la disciplina relativa al termine di prescrizione del reato e della pena si ricavi agevolmente dall’art. 58 comma 1° e 2° d. lgs., in cui si dispone che la pena dell’obbligo di permanenza domiciliare e quella del lavoro di pubblica utilità si considerano, ad ogni effetto giuridico, come pena detentiva della specie corrispondente a quella della pena originaria, di modo tale che il termine di prescrizione del reato e delle pene sarà calcolato in base a quella che era la sanzione disposta dal codice di rito.
Art.
62. 1. Le sanzioni sostitutive previste dagli articoli 53 e seguenti della legge 24 novembre 1981, n. 689, non si applicano ai reati di competenza del giudice di pace. |
** La disposizione in esame esclude l’applicabilità nel procedimento penale dinanzi al giudice di pace delle disposizioni concernenti le sanzioni sostitutive previste dagli artt. 53 e segg. della legge del 1981 n. 689. Sul punto, la Relazione precisa come in tal modo l’art. 62 d. lgs. venga così a chiarire, anche se incidentalmente, la natura di sanzione principale delle pene applicate dal giudice onorario, visto che altrimenti il divieto non avrebbe avuto senso e che, tale disposizione, pur non risultando imposta dalla legge delega, è apparsa necessaria alla luce delle caratteristiche dell’apparato sanzionatorio dei reati devoluti alla conoscenza del giudice di pace. Tali caratteristiche coincidono infatti, per gran parte, con quelle delle sanzioni di cui agli artt. 53 e segg. della legge del 1981 n. 689; sicché, l’applicabilità di queste ultime, avrebbe comportato la creazione di un meccanismo frustrato nelle sue stesse finalità, prima ancora che artificioso e complesso e quindi poco coerente con le esigenze di semplificazione che ispirano il nuovo sistema.
** Il titolo III del decreto legislativo (artt. 63-65), disciplina le norme applicabili nel caso in cui sia un giudice diverso dal giudice di pace a dover giudicare i reati attribuiti alla competenza di quest’ultimo dall’art. 4 d. lgs. (art. 63 d. lgs.), e le norme transitorie (art. 64 d. lgs.).
Titolo
III Art.
63. 1. Nei casi in cui i reati indicati nell'articolo 4, commi 1 e 2, sono giudicati da un giudice diverso dal giudice di pace, si osservano le disposizioni del titolo II del presente decreto legislativo, nonché, in quanto applicabili, le disposizioni di cui agli articoli 33, 34, 35, 43 e 44. 2. Nei certificati del casellario giudiziale rilasciati a norma dell'articolo 689 del codice di procedura penale non sono riportate le iscrizioni relative ai reati di cui al comma 1; si osservano, altresì, le disposizioni dell'articolo 46. |
** Si possono verificare due situazioni in cui si presenta il problema di quali siano le norme applicabili, nell’ipotesi in cui sia un giudice diverso dal giudice di pace a dover giudicare i reati a quest’ultimo attribuiti dall’art. 4 del decreto legislativo:
1. quando si ha il caso della connessione eterogenea dipendente dal concorso formale, con conseguente spostamento della competenza a favore del giudice superiore (art. 6 d. lgs.);
2. quando il reato sia giudicato dal tribunale per i minorenni (art. 4 comma 4° d. lgs.) o da altro giudice speciale, quale il tribunale militare o il tribunale dei ministri (art. 6 comma 3° d. lgs.).
In entrambe le ipotesi, si prevede che le sanzioni irrogabili siano quelle stabilite dal titolo II del decreto (artt. 52-62). Si tratta di una scelta obbligata da parte del legislatore perché, se fosse stata mantenuta l’applicazione delle sanzioni previgenti, si sarebbero avute notevoli disparità di trattamento, considerato che il regime sanzionatorio per i reati devoluti alla competenza del giudice di pace è naturalmente meno affittivo.
Inoltre, si prevede che si osservino le disposizioni del decreto legislativo, in quanto applicabili, di cui:
- all’art. 33, che disciplina le modalità di pronuncia della sentenza di condanna alla permanenza domiciliare;
- all’art. 34, relativo all’esclusione della procedibilità nei casi di particolare tenuità del fatto;
- all’art. 35, relativo all’estinzione del reato conseguente a condotte riparatorie;
- all’art. 43, relativo all’esecuzione della pena della permanenza domiciliare e del lavoro di pubblica utilità;
- all’art. 44, relativo alla modifica delle modalità di esecuzione della permanenza domiciliare e del lavoro di pubblica utilità.
Il comma 2° dell’art. 63 d. lgs., stabilisce che nei certificati del casellario giudiziale rilasciati a norma dell’art. 689 c.p.p., non devono essere riportate le iscrizioni relative alle sentenze emesse nei procedimenti per i reati di competenza del giudice di pace commessi anteriormente alla data di entrata in vigore del decreto legislativo. In questo modo, la disciplina delle iscrizioni nel casellario giudiziale di cui all’art. 45 d. lgs., la quale prevede che nei certificati richiesti dal privato non sono riportate le iscrizioni relative alle sentenze emesse dal giudice di pace, si estende anche alle condanne emesse da giudice diverso dal giudice di pace per i reati devoluti alla competenza di quest’ultimo.
Il comma 2° dell’art. 63 d. lgs., prevede altresì l’osservanza della disposizione di cui all’art. 46 d. lgs. che stabilisce l’eliminazione dal casellario giudiziale delle iscrizioni relative alle sentenze del giudice di pace penale in materia penale.
Art.
64. 1. Le norme del presente decreto legislativo si applicano ai procedimenti relativi ai reati indicati nell'articolo 4, commi 1 e 2, commessi dopo la sua entrata in vigore. 2. Ferma l'applicabilità dell'articolo 2, comma terzo, del codice penale, nei procedimenti relativi a reati commessi prima della data di entrata in vigore del presente decreto legislativo si osservano le disposizioni dell'articolo 63, commi 1 e 2; quando si tratta di reati commessi dopo la pubblicazione del presente decreto si osservano anche le disposizioni del titolo I se alla data di entrata in vigore non e' ancora avvenuta l'iscrizione della notizia di reato. |
** Il comma 1° della disposizione in esame stabilisce che le norme del decreto legislativo si applicano ai soli procedimenti relativi ai reati commessi successivamente alla data di entrata in vigore del decreto stesso. Il legislatore ha quindi voluto evitare l’attribuzione al giudice di pace della competenza per l’arretrato con la previsione di cui al presente articolo, il quale per tale motivo è stato definito “salva giudici”. [9] Si tratta di una scelta che, si legge nella Relazione, “appare coerente con il principio secondo cui tempus regit actum, dal momento che la data di commissione del reato rappresenta un elemento oggettivo, che inoltre vale ad individuare con precisione il momento determinativo della competenza. D’altro canto, la scelta di non attribuire al giudice di pace la competenza per l’arretrato relativo ai reati oggi devoluti a tale giudice si fonda sulla necessità di non gravare lo stesso di un carico tale da rallentare il decollo della riforma, con ciò frustrandone il successo”.
Tuttavia, nonostante la regola generale sia che la nuova disciplina del procedimento penale dinanzi al giudice di pace trovi applicazione solo per quegli illeciti che risultano commessi a partire dall’entrata in vigore del decreto legislativo, con la conseguenza che agli illeciti commessi fino a tale momento si applicano le disposizioni processuali ordinarie con competenza attribuita al tribunale in composizione monocratica, l’art. 64 comma 2° d. lgs., prevede delle eccezioni di notevole rilevanza.
1. Reati commessi prima dell’entrata in vigore del decreto legislativo e prima della sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale (06.10.2000).
Sono applicabili le norme del codice di procedura penale ed i reati restano di competenza del tribunale in composizione monocratica. Si osservano però le disposizioni dell’art. 63 comma 1° e 2° d. lgs., che a sua volta fa rinvio:
- all’art. 33: sentenza di condanna alla permanenza domiciliare;
- all’art. 34: esclusione della procedibilità nei casi di particolare tenuità del fatto;
- all’art. 35: estinzione del reato conseguente a condotte riparatorie;
- all’art. 43: esecuzione della pena della permanenza domiciliare e del lavoro di pubblica utilità;
- all’art. 44: modifica delle modalità di esecuzione della permanenza domiciliare e del lavoro di pubblica utilità;
- all’art. 45: certificati del casellario giudiziario richiesti dal privato;
- all’art. 46: eliminazione del casellario giudiziale delle iscrizioni relative a sentenze del giudice di pace in materia penale.
2. Reati commessi prima dell’entrata in vigore del decreto legislativo ma dopo la sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale (06.10.2000).
Se tra la data di pubblicazione e la data di entrata in vigore del decreto è intervenuta l’iscrizione della notizia di reato sono applicabili le norme del codice di procedura penale e i reati restano di competenza del tribunale in composizione monocratica; se invece non è intervenuta l’iscrizione della notizia di reato, il reato diventa di competenza del giudice di pace con conseguente applicazione del decreto legislativo in esame. Afferma la Relazione che “La previsione si giustifica in quanto, tenuto conto dei tempi necessari per il passaggio alla fase processuale si correrebbe il rischio di una forzata inattività del giudice di pace che, dopo l’entrata in vigore del decreto, sarebbe costretto ad attendere lo svolgimento delle indagini preliminari attivate in relazione ai reati commessi dopo tale data”. Si ritiene inoltre che “l’individuazione nell’iscrizione della notitia criminis del momento oltre il quale è impedita la devoluzione delle pendenze al giudice di pace consente di evitare il rischio di commistioni tra diversi moduli procedurali (si pensi ad esempio alle differenze esistenti tra i due procedimenti in tema di attività ad opera della polizia giudiziaria ed intervento del pubblico ministero, durata delle indagini preliminari e di chiusura delle stesse), nel contempo eliminando gravosi adempimenti connessi alla trasmissione degli atti da parte del giudice togato”.
E’ importante sottolineare come l’art. 64 comma 2° contenga l’inciso “ferma l’applicabilità dell’art. 2 comma 3° del codice penale”, ossia il richiamo alla norma codicistica che disciplina il fenomeno della successione delle leggi penali nel tempo. Questo sta ad indicare come sia possibile l’applicazione del regime sanzionatorio previgente laddove lo stesso risulti più favorevole al reo. Lo schema originario del decreto legislativo stabiliva invece che per i procedimenti che fossero proseguiti con l’applicazione delle norme previgenti, si sarebbero dovute comunque applicare le disposizioni del regime sanzionatorio fissato per i reati di competenza del giudice di pace: questo perché si riteneva che il nuovo regime sanzionatorio fosse comunque più favorevole per l’imputato rispetto a quello previgente. La versione definitiva, la quale dimostra come sia stato ritenuto più opportuno non derogare ai criteri generali che disciplinano la successione delle norme penali, è stata ritenuta necessaria sulla base della considerazione che non può escludersi che le vecchie sanzioni siano, in concreto, maggiormente favorevoli per l’imputato, specie tenuto conto del fatto che per le sanzioni del giudice di pace è escluso il beneficio della sospensione condizionale.
Art.
65. 1. Il presente decreto legislativo entra in vigore il centottantesimo giorno successivo a quello della sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale. |
**
L’art. 21 comma 2° della legge delega stabiliva che “il decreto legislativo
concernente la competenza in materia penale del giudice di pace entra in vigore
il centottantesimo giorno successivo alla data della sua pubblicazione nella
Gazzetta ufficiale”. Essendo la pubblicazione avvenuta alla data del 6 ottobre
2000, l’entrata in vigore della nuova disciplina doveva essere quella del 4
aprile 2001. Tuttavia, pur essendo stato previsto un lungo periodo di vacatio
legis per consentire sia la formazione dei giudici di pace che l’organizzazione
degli uffici, esso non è stato sufficiente: il Consiglio dei Ministri del 30
marzo 2001 ha pertanto approvato un decreto-legge concernente il differimento
della data di entrata in vigore della nuova disciplina sulla competenza penale
del giudice di pace (dal 4 aprile al 1° ottobre 2001) per consentire la conclusione
dell’iter di nomina e la successiva formazione dei nuovi giudici di pace, nonché
la predisposizione delle strutture logistiche ed organizzative necessarie per
il migliore avvio della riforma.
- Alessandra Cheli - marzo 2001 -
[1] Tribunali speciali sono anche il tribunale dei ministri nonché la Corte Costituzionale per i reati ministeriali o presidenziali, ma è di tutta evidenza come difficilmente sarà possibile un concorso tra i provvedimenti emessi da tali giudici speciali e quelli emessi dal giudice di pace.
[2] V. Santoro, L’insolvenza si paga con lavori di pubblica utilità, in Guida al diritto, 2000, 38, pag. 137 e G. Di Chiara, La disciplina dell’esecuzione, in AA.VV., La competenza penale del giudice di pace, IPSOA, 2001.
[3] E. Aghina, P. Piccialli, Il giudice di pace penale, Edizioni Giuridiche Simone, 2001, pag. 247.
[4] V. Santoro, op. cit., pag. 139
[5] E. Aghina, P. Piccialli, op. cit., pag. 303
[6] E. Aghina, P. Piccialli, op. cit., pag. 313.
[7] In tal senso, E. Aprile, La competenza penale del giudice di pace, Giuffrè, 2001, pag. 194; D. Manzione, Pene pecuniarie, stop and go, lavoro, minicondanne da giudice di pace, in Diritto e Giustizia, 2000, 36, pag. 25.
[8] E. Aghina, P. Piccialli, op. cit., pag. 314.
[9] R. Bricchetti, Regime transitorio per sfuggire all’arretrato, in Guida al Diritto, 2000, 38, pag. 144.
(riproduzione riservata)