Alessandra Cheli, Commento al decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274 in materia di Giudice di pace penale - Parte II - artt. 20-39
** Il capo III del decreto legislativo (artt. 20-28), disciplina la citazione a giudizio, prevedendo due strumenti alternativi di vocatio in jus davanti al giudice di pace: la citazione a giudizio disposta dalla polizia giudiziaria (art. 20) ed il ricorso immediato al giudice da parte della persona offesa dal reato (art. 21). Mentre la prima può aversi per tutti i reati appartenenti alla competenza del giudice di pace, il secondo è riservato alla sola ipotesi di reati perseguibili a querela.
Capo
III Art.
20. 1. La polizia giudiziaria, sulla base dell'imputazione formulata dal pubblico ministero, cita l'imputato dinanzi al giudice di pace. |
** In via generale, si è affermato che il modello sul quale viene disciplinata la citazione a giudizio disposta dalla polizia giudiziaria, è quello del giudizio direttissimo. Tale affermazione poteva però essere valida solo al momento di emanazione della legge delega, ma non successivamente, perché Il decreto legislativo si è distaccato da tale modello, in modo del tutto condivisibile ed in linea con il procedimento dinanzi al giudice di pace.
Procedendo con ordine, l’art. 558 comma 1° c.p.p. stabilisce che “Gli ufficiali o gli agenti di polizia giudiziaria che hanno eseguito l’arresto in flagranza o che hanno avuto in consegna l’arrestato lo conducono direttamente davanti al giudice del dibattimento per la convalida dell’arresto e il contestuale giudizio, sulla base dell’imputazione formulata dal P.M.”
L’art. 17 comma 1° lett. b) della legge delega ha previsto che “…nel rispetto dei principi stabiliti negli artt. 109 e 112 della Costituzione, l’attività di indagine sia di regola affidata esclusivamente alla polizia giudiziaria e che questa, salve specificate ipotesi, sulla base dell’imputazione formulata dal P.M., disponga direttamente la comparizione dell’imputato davanti al giudice…”
L’art. 20 in esame invece, stabilisce che la polizia giudiziaria “…cita l’imputato dinanzi al giudice di pace”. La Relazione al decreto legislativo giustifica tale scelta, affermando che se fosse stata rispettata l’indicazione della legge delega, la possibilità di una interpretazione formalistica del criterio di cui all’art. 17 comma 1° lett. b) della stessa, avrebbe potuto comportare la possibilità di disporre una sorta di comparizione, anche coattiva dell’imputato, da parte della polizia giudiziaria. Questa soluzione non sarebbe stata però proponibile, “sia perché non conforme ai principi della Costituzione, sia perché non in linea con la stessa impostazione generale della legge delega, che nel procedimento davanti al giudice di pace esclude il ricorso ai mezzi coercitivi”.
** Come precisa la stessa Relazione, la citazione di cui all’art. 20 d. lgs. è un atto a formazione complessa. Nessun dubbio che si tratti di un atto proprio della polizia giudiziaria: il comma 4° dell’art. 20 d. lgs. prevede, infatti, che la citazione deve essere sottoscritta da un ufficiale di polizia giudiziaria, requisito oltretutto richiesto a pena di nullità. La formazione complessa di tale atto, appare però di tutta evidenza, laddove si stabilisce che la citazione dell’imputato dinanzi al giudice di pace avviene sulla base dell’imputazione formulata dal pubblico ministero (art. 20 comma 1° d. lgs.) e che la stessa (art. 20 comma 6° d. lgs.), deve essere contenuta a pena di nullità nella citazione. Inoltre, a norma dell’art. 49 d. lgs., spetta al pubblico ministero richiedere al giudice di pace di indicare il giorno e l’ora della comparizione, indicazione che deve anch’essa essere contenuta a pena di nullità nella citazione (art. 20 comma 2° lett. d) e comma 6° d. lgs).
2. La citazione contiene: a) le generalità dell'imputato e le altre indicazioni personali che valgono ad identificarlo; b) l'indicazione della persona offesa, qualora risulti identificata; c) l'imputazione formulata dal pubblico ministero e l'indicazione delle fonti di prova di cui si chiede l'ammissione. Se viene chiesto l'esame di testimoni o consulenti tecnici, nell'atto devono essere indicate, a pena di inammissibilità, le circostanze su cui deve vertere l'esame; d) l'indicazione del giudice competente per il giudizio, nonché del luogo, del giorno e dell'ora della comparizione, con l'avvertimento all'imputato che non comparendo sarà giudicato in contumacia; e) l'avviso che l'imputato ha facoltà di nominare un difensore di fiducia e che, in mancanza, sarà assistito da difensore di ufficio; f) l'avviso che il fascicolo relativo alle indagini preliminari è depositato presso la segreteria del pubblico ministero e che le parti e loro difensori hanno facoltà di prenderne visione e di estrarne copia. |
** Pur con gli opportuni adattamenti relativi al procedimento de quo, gli elementi che la citazione a giudizio disposta dalla polizia giudiziaria deve contenere, sono gli stessi di quelli previsti nel decreto che dispone il giudizio ex art. 429 c.p.p. e nel decreto di citazione a giudizio ex art. 552 c.p.p. Una sostanziale novità è rappresentata dalla previsione di cui alla lettera c), in cui si stabilisce che “Se viene chiesto l’esame di testimoni o consulenti tecnici, nell’atto devono essere indicate, a pena di inammissibilità, le circostanze su cui deve vertere l’esame”. Si tratta di un ampliamento notevole rispetto alla sola indicazione sommaria delle fonti di prova e dei fatti cui esse si riferiscono ex art. 429 comma 1° lett.d) c.p.p., in quanto l’indicazione dei capitoli di prova prevista a pena di inammissibilità nell’ipotesi in cui venga chiesto l’esame di testimoni o di consulenti tecnici, comporta la possibilità per l’imputato di conoscere in anticipo rispetto a ciò che dispone la normativa generale (presa visione del fascicolo del P.M.), quelli che sono gli elementi probatori a suo carico. Vedremo come la stessa disposizione sia stata prevista anche nel ricorso immediato della persona offesa (art. 21 comma 2° lett. h) d. lgs.). Essa, si giustifica, se si tiene conto della esigenza di composizione del conflitto che sta alla base di tutta la normativa: nel momento in cui, sia l’atto di citazione, sia il ricorso della persona offesa, consentono all’imputato di avere una ben chiara visione di tutti gli elementi probatori a suo carico, si favorisce non poco il ricorso alle forme alternative di definizione del procedimento previste al capo V del presente decreto legislativo, quali la conciliazione, l’oblazione ed il risarcimento del danno.
3. La citazione è notificata, a cura della polizia giudiziaria, all'imputato, al suo difensore e alla parte offesa almeno trenta giorni prima dell'udienza. |
** Il termine della notifica è di almeno 30 giorni prima dell’udienza di comparizione di cui all’art. 29 d. lgs. (si tratta di un termine ridotto a metà rispetto alla regola generale di cui all’art. 552 comma 2° c.p.p., e di termine libero, per cui non si tiene conto né del dies a quo né del dies ad quem), ed è onere della polizia giudiziaria provvedere alla stessa, con evidente aggravio di compiti nei confronti di quest’ultima.
4. La citazione deve essere sottoscritta, a pena di nullità, da un ufficiale di polizia giudiziaria. |
** Trattandosi di un atto proprio della polizia giudiziaria, anche se a formazione complessa, non si ha la sottoscrizione del P.M. né quella dell’ausiliario di quest’ultimo, bensì solo quella dell’ufficiale di polizia giudiziaria ex art. 57 comma 1° c.p.p.
5. La citazione a giudizio è depositata nella segreteria del pubblico ministero unitamente al fascicolo contenente la documentazione relativa alle indagini espletate, il corpo del reato e le cose pertinenti al reato, qualora non debbano essere custoditi altrove. |
** Il deposito della citazione e della documentazione relativa alle indagini espletate è disposto al fine di consentire all’imputato di prendere visione degli atti e di estrarne copia.
6. La citazione è nulla se l'imputato non e' identificato in modo certo ovvero se manca o è insufficiente l'indicazione di uno dei requisiti previsti dal comma 2, lettere c), d) ed e). |
** La citazione è viziata da nullità:
- Se l’imputato non è identificato in modo certo (art. 20 comma 6° d. lgs.). Nullità assoluta ex art. 179 c.p.p.
- Se manca o è insufficiente l’imputazione formulata dal P.M. (art. 20 comma 6° d. lgs.) Nullità assoluta.
- Se manca o è insufficiente l’indicazione delle fonti di prova di cui si chiede l’ammissione (art. 20 comma 6° d. lgs.). Nullità a regime intermedio ex art. 180 c.p.p.
- Se manca o è insufficiente l’indicazione del giudice competente per il giudizio, nonché del luogo, del giorno e dell’ora della comparizione, con l’avvertimento all’imputato che non comparendo sarà giudicato in contumacia (art. 20 comma 6° d. lgs.). Nullità assoluta.
- Se manca o è insufficiente l’avviso che l’imputato ha facoltà di nominare un difensore d’ufficio e che, in mancanza, sarà assistito da un difensore d’ufficio (art. 20 comma 6° d. lgs.). Nullità a regime intermedio.
- Se non è sottoscritta da un ufficiale di polizia giudiziaria (art. 20 comma 4° d. lgs.). Nullità assoluta.
In relazione invece ai requisiti di cui all’art. 20 comma 1° lett. b) -indicazione della persona offesa qualora risulti identificata- e lett. f) del decreto legislativo -avviso che il fascicolo relativo alle indagini preliminari è depositato presso la segreteria del P.M. e che le parti ed i loro difensori hanno facoltà di prenderne visione e di estrarne copia-, la loro mancanza o insufficienza non comporta nullità della citazione a giudizio.
E’ opportuno precisare fin da adesso, come la citazione a giudizio disposta dalla polizia giudiziaria rappresenti, ai sensi dell’art. 61 d. lgs. una ulteriore causa di interruzione della prescrizione per i reati attribuiti alla competenza del giudice di pace, oltre alle ipotesi previste dall’art. 160 c.p.
** Il secondo strumento di vocatio in jus è rappresentato dal ricorso immediato della persona offesa al giudice di pace, in funzione di giudice del dibattimento, mediante il quale si richiede a quest’ultimo la fissazione dell’udienza per procedere nei confronti della persona o delle persone citate a giudizio. Questo strumento consente, pertanto, una notevole accelerazione dei tempi in considerazione del fatto che esso supera di netto la fase delle indagini preliminari. L’esigenza fondamentale che giustifica infatti la sua introduzione, è rappresentata sia dalla necessità di garantire una maggiore celerità, sia dall’esigenza di deflazionare il carico di lavoro dell’ufficio del pubblico ministero.
Trattandosi di un istituto introdotto ex novo nell’ambito del nostro ordinamento, benché in esso siano ricompresi altri elementi di istituti già presenti e consolidatisi nel tempo, si rende necessario un suo particolare approfondimento.
Si è gia detto in commento all’art. 3 del presente decreto, come in relazione alla natura di tale ricorso sia inopportuno parlare dell’introduzione della c.d. azione penale privata; del resto, la stessa Relazione precisa come, nonostante fosse stata prospettata una soluzione del genere, si sia preferito optare per una impostazione sicuramente più coerente con il sistema processuale ordinario, dando così al privato la possibilità di promuovere il giudizio in materia penale, ma al contempo attribuendo al pubblico ministero una funzione di controllo preventivo che, a parere di chi scrive, non deve essere sottovalutata. Ragioni basate sul buon senso si pongono alla base della scelta, sicuramente non meno importanti delle ragioni di ordine giuridico. Vista la tipologia dei reati per i quali è possibile il ricorso della persona offesa, che sono solo i delitti procedibili a querela, caratterizzati per loro natura da una microconflittualità individuale (tanto che la riforma nutre in relazione ad essi una forte speranza nel potere-dovere di conciliazione da parte del giudice di pace), nell’ipotesi in cui si fosse consentito al privato di formulare l’imputazione e conseguentemente di far assumere al presunto autore del reato la qualità di imputato, la probabilità di un uso ingiustificato o peggio, strumentale e persecutorio di tale forma di vocatio in jus, avrebbe di sicuro dato luogo a conseguenze aberranti.
Nel voler definire la natura del ricorso immediato al giudice, occorre quindi più propriamente parlare di una “citazione civile con effetti penali”; della citazione civile, o meglio del ricorso del rito del lavoro, esso ha in comune la celerità: si tratta di un vero e proprio ricorso e non di una citazione, in quanto, mentre quest’ultima è caratterizzata dalla indicazione della data dell’udienza da parte dello stesso attore, il primo comporta evocazione in giudizio tramite l’atto introduttivo, ma successivo decreto di fissazione dell’udienza da parte del giudice. Gli effetti penali sono invece quelli propri della costituzione di parte civile nel processo penale ordinario. Siamo, pertanto, in presenza di un atto a natura mista, composto sia dalla attivazione del procedimento penale, sia da una funzione di tutela civilistica.
Art.
21. 1. Per i reati procedibili a querela è ammessa la citazione a giudizio dinanzi al giudice di pace della persona alla quale il reato è attribuito su ricorso della persona offesa. |
** Il ricorso è possibile solo per quei delitti di competenza del giudice di pace procedibili a querela. Esso si pone come alternativo rispetto a quest’ultima, rimanendo sempre la possibilità di scegliere la via ordinaria. Mentre la legge delega all’art. 17 lett. c) prevedeva la possibilità di ricorso solo “per taluni reati” perseguibili a querela, il legislatore delegato non ha recepito tale limitazione in quanto i reati perseguibili a querela che rientrano nella competenza del giudice di pace non sono molti, per cui la previsione del ricorso solo per alcuni di essi ne avrebbe eccessivamente limitata l’operatività.
2. Il ricorso deve contenere: a) l'indicazione del giudice; b) le generalità del
ricorrente e, se si tratta di persona giuridica o di associazione non
riconosciuta, la denominazione dell'ente, con l'indicazione del legale
rappresentante; |
** Per ciò che concerne i requisiti di cui alle lettere b), c), ed e), si tratta in sostanza degli stessi richiesti dall’art. 78 c.p.p. in tema di costituzione di parte civile.
** Per quello che riguarda la lettera d), l’indicazione delle altre persone offese dal medesimo reato -sempre che il ricorrente ne conosca l’identità-, si presenta di fondamentale importanza nell’ipotesi in cui le persone offese dallo stesso reato siano più di una, ma solo una di esse ricorra in giudizio. Infatti, l’onere del ricorrente di indicare nel ricorso la loro identità, dà la possibilità a queste di effettuare l’intervento per adesione disciplinato dall’art. 28 del presente decreto, intervento possibile per il fatto che, a norma dell’art. 27 d. lgs., il decreto di convocazione delle parti è notificato, assieme al ricorso e a cura del ricorrente, anche alle altre persone offese di cui il ricorrente conosca l’identità, e cioè a quelle indicate, a norma dell’art. 21 comma 2° lett. d) d. lgs., nel ricorso.
** In relazione alla lettera e), l’indicazione delle generalità della persona citata a giudizio è obbligatoria, per cui, ove la persona offesa non fosse in grado di fornire tale dato, la strada percorribile non sarà il ricorso (ne sarebbe dichiarata l’inammissibilità), bensì la querela, dato che quest’ultima consente alla polizia giudiziaria di dar luogo alle indagini.
f) la descrizione, in forma chiara e precisa, del fatto che si addebita alla persona citata a giudizio, con l'indicazione degli articoli di legge che si assumono violati; |
** Si tratta di una previsione analoga a quella prevista sia all’art. 429 comma 1° lett. c.) c.p.p. del decreto che dispone il giudizio, sia all’art. 552 comma 1° lett. c) c.p.p. del decreto di citazione a giudizio. La Relazione al decreto legislativo, fa tuttavia notare una differenza terminologica sostanziale attraverso la quale si mette in evidenza come il ricorso non debba contenere l’”enunciazione” del fatto in forma chiara e precisa, bensì la sua “descrizione”, con ciò dimostrando come esso non equivalga alla formulazione dell’imputazione (solo al pubblico ministero, come più volte precisato, è riservato il compito di disporre la contestazione e di formulare l’imputazione enunciando il fatto in forma chiara e precisa), ma si limiti a descrivere un fatto reato come si ritiene sia avvenuto. La chiarezza e precisione della descrizione, sono però fondamentali, in quanto il successivo controllo del pubblico ministero previsto all’art. 25 d. lgs., una sorta di delibazione sulla fondatezza del ricorso, avviene solo sulla base di quest’ultimo, data l’assenza di indagini preliminari, per cui esso deve essere, a ragione, il più chiaro e preciso possibile.
g) i documenti di
cui si chiede l'acquisizione; |
** Si prevede non solo che il ricorso debba contenere l’indicazione delle fonti di prova a sostegno della richiesta e l’indicazione delle circostanze su cui deve vertere l’esame dei testimoni e dei consulenti tecnici (disposizione analoga a quella relativa al contenuto della citazione ad opera della polizia giudiziaria ex art. 20 comma 2° lett. c) d. lgs., ma altresì che esso debba contenere i documenti di cui si chiede l’acquisizione. La completezza richiesta al ricorso non si limita quindi alla sola descrizione in forma chiara e precisa del fatto reato, ma riguarda l’ulteriore elemento della articolazione delle prove nella loro totalità. Le motivazioni di tale discovery anticipata sono le stesse di quelle esposte nell’ambito della citazione della polizia giudiziaria: si intende così favorire il ricorso alle forme alternative di definizione del procedimento previste al capo V del presente decreto legislativo, quali la conciliazione, l’oblazione ed il risarcimento del danno.
Per ciò che riguarda l’indicazione delle fonti di prova a sostegno della richiesta, è opportuno tener presente che con l’entrata in vigore della normativa in materia di indagini difensive (l. del 2000 n. 397) l’art. 391 nonies c.p.p. consente al difensore della parte offesa -difensore che ha ricevuto apposito mandato per l’eventualità che si instauri un procedimento penale- di poter effettuare l’attività investigativa prevista all’art. 327 bis c.p.p., con esclusione degli atti che richiedono l’autorizzazione o l’intervento dell’autorità giudiziaria.
i) la richiesta di fissazione dell'udienza per procedere nei confronti delle persone citate a giudizio. |
** L’analisi dei singoli elementi che il ricorso immediato al giudice deve contenere, ci consente di confermare quanto sopra accennato circa il contenuto ibrido di tale istituto il quale, icto oculi, appare come la fusione di istituti già presenti nell’ambito dell’ordinamento, quali la costituzione di parte civile e la querela. Pur essendo ciò innegabile, se ci limitassimo a considerare questa forma di vocatio in jus come la semplice somma di istituti diversi e ci fermassimo alla sola analisi dei singoli elementi che il ricorso deve contenere, perderemmo di vista la funzione per la quale tale istituto è stato introdotto nel nostro ordinamento. Non si tratta di una preoccupazione di poco conto: sottovalutare la funzione essenziale di tale strumento, quale tipo di evocazione in giudizio che consente alla vittima del reato di arrivare in tempi brevissimi a quest’ultimo (entro 90 gg. ex art. 27 d. lgs), per veder punito colui che ritiene esserne il responsabile, comporterebbe la sopravvalutazione di quegli oneri che il ricorrente è tenuto ad adempiere, con la conseguenza di una rara applicazione di tale strumento e quindi di un fallimento pratico dell’istituto stesso. Di conseguenza, esso non è, o meglio, non è solamente, una manifestazione della volontà punitiva della persona offesa, perché se così fosse il soggetto troverebbe più opportuno intraprendere la strada della querela, presentando questa meno oneri e meno formalità; il ricorso immediato al giudice ha altresì la funzione essenziale di impulso processuale. Difatti, l’art. 21 comma 2° lett. i), prevede che il ricorso si concluda con la richiesta al giudice di fissazione dell’udienza per procedere contro le persone citate a giudizio e non, come la querela, con la richiesta di punire l’autore del reato. In sostanza, si tratta di uno dei modi per applicare nella pratica il principio cardine di tutta la riforma, ossia quello conciliativo e riparatorio.
In quanto atto di impulso processuale, il ricorso immediato al giudice deve essere completo sia sotto il profilo sostanziale (art. 21 comma 2° lett. e) ed f) d. lgs.), sia sotto il profilo processuale (art. 21 comma 2° lettera g) ed h) d. lgs.). L’obbligo di tale completezza non deve essere considerato come “punitivo”, creato al fine di scoraggiare a priori l’uso di tale strumento, ma come indice di doverosa serietà che deve essere tipico di qualunque forma di chiamata in giudizio. Per tale motivo, non ci è consentito far proprie le critiche che da più parti si sono elevate e che hanno portato a pronosticare un fallimento dell’istituto stante gli eccessivi oneri imposti alla persona offesa. La previsione circa l’utilizzabilità o meno dello stesso, non può basarsi sull’esame analitico del suo contenuto, bensì sulla valutazione della sua funzione: se può consentirsi una considerazione banale, sarebbe come affermare che la citazione civile non è conveniente per l’attore stante l’arduo compito di dover in essa indicare il petitum e la causa petendi, nonché i mezzi di prova dei quali l’attore intende valersi. In definitiva, gli oneri imposti al ricorrente sono sicuramente compensati dal vantaggio di ottenere la convocazione in udienza del presunto autore del reato entro breve tempo. E tale giudizio, più che diretto alla punizione del colpevole, è instaurato principalmente per ottenere riparazione al danno subito.
E’ opportuno inoltre considerare che, a norma dell’art. 21 comma 2° lett. c) d. lgs., il ricorso deve contenere l’indicazione del difensore del ricorrente e la nomina del difensore; essendovi l’obbligo dell’assistenza del difensore tecnico, questi è perfettamente in grado, per estrazione professionale, di effettuare gli adempimenti richiesti. Inoltre, la previsione di tali stringenti compiti si è resa necessaria per scoraggiare iniziative infondate e strumentali dato che il pubblico ministero, in sede di controllo preventivo del ricorso, può fin da subito valutare l’ammissibilità e la fondatezza della domanda.
Senza dubbio, la riforma si pone come obiettivo quello di tutelare maggiormente la vittima del reato rispetto a ciò che avviene comunemente attraverso le forme ordinarie. Con la querela infatti, oltre che chiedere la punizione del presunto autore del reato, la vittima dello stesso non ha molti poteri, ad eccezione di ciò che prevedono gli articoli 408 e 459 comma 1° c.p.p. in tema di opposizione alla richiesta di archiviazione del pubblico ministero e di opposizione al procedimento per decreto.
3. Il ricorso deve essere sottoscritto dalla persona offesa o dal suo legale rappresentante e dal difensore. La sottoscrizione della persona offesa è autenticata dal difensore. |
** Il contenuto del ricorso è fatto proprio dal ricorrente mediante sottoscrizione dello stesso. Data l’obbligatorietà dell’assistenza di un difensore tecnico, occorre anche la sottoscrizione di quest’ultimo, il quale autentica quella del ricorrente: si noti quindi una differenza fondamentale con la querela, quest’ultima essendo un atto personale. Nell’ipotesi in cui si tratti di persona giuridica, la sottoscrizione spetta al legale rappresentante di questa.
4. Nei casi previsti dagli articoli 120, secondo e terzo comma, e 121 del codice penale, il ricorso è sottoscritto, a seconda dei casi, dal genitore, dal tutore o dal curatore ovvero dal curatore speciale. Si osservano le disposizioni di cui all'articolo 338 del codice di procedura penale. |
** Se persona offesa è un minore degli anni 14 o è interdetta per infermità mentale, il ricorso è sottoscritto dal genitore o dal tutore (art. 120 comma 2° c.p.). Nell’ipotesi in cui non vi sia chi abbia la rappresentanza oppure pur essendovi si trovi in conflitto di interessi con il rappresentato, allora il ricorso è sottoscritto dal curatore speciale (art. 121 c.p.).
5. La presentazione del ricorso produce gli stessi effetti della presentazione della querela. |
Art.
22. 1. Il ricorso, previamente comunicato al pubblico ministero mediante deposito di copia presso la sua segreteria, è presentato, a cura del ricorrente, con la prova dell'avvenuta comunicazione, nella cancelleria del giudice di pace competente per territorio nel termine di tre mesi dalla notizia del fatto che costituisce reato. |
** Il ricorso deve essere presentato nella cancelleria del giudice di pace territorialmente competente entro il termine di tre mesi dalla notizia del fatto che costituisce reato, così come dispone l’art. 124 c.p. in tema di termine per proporre querela; al ricorso deve essere allegata la documentazione attestante la preventiva comunicazione al pubblico ministero mediante deposito di copia presso la sua segreteria. In quest’ultima ipotesi, si applica la disposizione di cui all’art. 153 c.p.p., per cui il pubblico ufficiale addetto annota sull’originale e sulla copia dell’atto le generalità di chi ha eseguito la consegna e la data in cui questa è avvenuta. Tale comunicazione si rende necessaria ai fini di cui all’art. 25 d. lgs.: con tale deposito il pubblico ministero viene a conoscenza del ricorso, per cui può esercitare il controllo preventivo sullo stesso.
2. Se per il medesimo fatto la persona offesa ha già presentato querela, deve farne menzione nel ricorso, allegandone copia e depositando altra copia presso la segreteria del pubblico ministero. 3. Nel caso previsto dal comma 2, il giudice di pace dispone l'acquisizione della querela in originale. 4. Quando si procede in seguito a ricorso sono inapplicabili le diverse disposizioni che regolano la procedura ordinaria. |
** Il legislatore non ha previsto il ricorso come strumento esclusivo, bensì come alternativo alla querela, di modo tale che spetta alla persona offesa la scelta tra l’agire con il ricorso o seguire la via ordinaria attraverso la proposizione della querela. In un primo momento tuttavia, pur prevedendo tale alternatività, si era prevista l’inammissibilità del ricorso nell’ipotesi in cui la persona offesa avesse già presentato querela per il medesimo fatto: questo per la non trascurabile ragione di non dar luogo al sorgere di due procedimenti distinti e paralleli vertenti sullo stesso fatto reato. Infatti, mentre la querela mette in moto la fase delle indagini preliminari da parte della polizia giudiziaria, con possibile ed eventuale sbocco nella citazione a giudizio da parte della stessa polizia giudiziaria, il ricorso della persona offesa, saltando la fase delle indagini preliminari, non è conoscibile dalla polizia giudiziaria, per cui la scoperta dell’esistenza di due procedimenti diversi vertenti sullo stesso fatto poteva in teoria essere effettuata solo dal pubblico ministero mediante un controllo della pendenza di eventuali querele, appesantendo così notevolmente il carico di lavoro del suo ufficio.
Tuttavia, un regime di alternatività tra le due forme di vocatio in jus con la previsione della incompatibilità del ricorso in ipotesi di preventiva presentazione della querela, non veniva a risolvere situazioni problematiche, come ad esempio l’ipotesi in cui vi fossero state più persone offese dal medesimo reato alcune delle quali avessero presentato querela ed altre ricorso. Inoltre, l’incompatibilità avrebbe di fatto causato una rara applicazione del nuovo istituto, considerato che la presentazione della querela è spesso immediatamente successiva alla causazione del fatto reato, dando essa la possibilità alla persona offesa di veder attivato immediatamente l’intervento della polizia giudiziaria, mentre il ricorso presuppone necessariamente una scelta ponderata, stante le incombenze per esso previste, nonché il necessario intervento di un difensore tecnico. Sulla base di tali considerazioni, la Commissione Giustizia del Senato, suggeriva di eliminare tale incompatibilità, suggerimento accolto attraverso la previsione della ammissibilità del ricorso successivo alla querela presentata per il medesimo fatto. In questo modo, si è data la possibilità alla persona offesa non solo di scegliere tra ricorso e querela, ma altresì di proporre ricorso pur dopo la presentazione di una autonoma querela per il medesimo fatto reato.
Questo meccanismo non è affatto contraddittorio, dimostrando all’opposto come il legislatore abbia tenuto in debita considerazione ciò che avviene nella prassi comune. Allo stato attuale, la persona offesa dal reato, è ben a conoscenza della possibilità di farne denuncia o di avere diritto di querela nell’ipotesi in cui per quel reato non debba procedersi d’ufficio, o è comunque informata di ciò dagli organi di polizia nel momento in cui decide di volersi tutelare da chi ha posto in essere l’attività criminosa. E’ probabile che la via ordinaria della presentazione della querela sia sempre la più seguita anche dopo l’entrata in vigore del presente decreto. Sarebbe stato davvero assurdo e quindi penalizzante, pretendere che la persona offesa fosse a conoscenza che per determinati reati è competente il giudice di pace, che per i reati di cui è competente il giudice di pace perseguibili a querela l’unico strumento a disposizione è dato dal ricorso, e che per questo è obbligatoria l’assistenza di un difensore. Consentendo invece di poter presentare querela, nonostante possa sembrare una contraddizione in termini, il legislatore ha così favorito la possibilità di avere un maggior numero di ricorsi della persona offesa dinanzi al giudice di pace. Spesso il querelante decide di rivolgersi ad un legale: solo quest’ultimo potrà, stante la complessità e tecnicità della nuova normativa, informare la persona offesa della ulteriore possibilità di chiamare in giudizio dinanzi al giudice di pace il presunto autore del fatto reato, soppesando a seconda del caso concreto i pro ed i contro delle due distinte procedure. In sostanza quindi, è prevedibile che la strada iniziale maggiormente percorsa sarà ancora la querela, con un suo “abbandono” in un secondo momento a favore del ricorso. Nel caso invece in cui fosse stata prevista l’alternatività tra querela e ricorso con inammissibilità del secondo in ipotesi di presentazione preventiva della querela, i ricorsi sarebbero stati un numero esiguo.
Per evitare tuttavia una duplicazione di giudizi, l’art. 22 comma 2° d. lgs., prevede che la parte offesa che abbia presentato querela e che decida poi in seguito di attivare il giudizio per ricorso, debba fare menzione della querela nel ricorso, allegandone la copia, nonché di depositarne un’altra copia presso la segreteria del pubblico ministero. A seguito di ciò, il giudice di pace dispone l’acquisizione della querela in originale (ex art. 22 comma 3°): presumibilmente, dato il silenzio della norma al riguardo, solo dopo il giudizio di ammissibilità del ricorso ex art. 26 [1] . Tutto ciò, al fine di bloccare la prosecuzione delle indagini preliminari sorte a seguito di presentazione della querela, in quanto sarebbe assurda una duplicazione di procedimenti sorti come alternativi, alternatività che si evince dallo stesso art. 22 comma 4° d. lgs., il quale sancisce l’inapplicabilità al procedimento per ricorso delle norme che regolano il procedimento ordinario, ossia la citazione a giudizio disposta dalla polizia giudiziaria. Tuttavia, solo nella Relazione al decreto si indica che tale deposito della copia della querela presso la segreteria del pubblico ministero è necessario anche per far cessare le indagini preliminari attivate a seguito di querela, cessazione che verrà disposta dal pubblico ministero “una volta che il giudice avrà fissato l’udienza a seguito del ricorso”, cioè solo a seguito del giudizio di delibazione del giudice di pace sulla ammissibilità e fondatezza del ricorso. Ci si domanda però, visto che né il decreto legislativo né la Relazione alcunché affermano al riguardo, quale sia la sorte delle indagini fino ad allora svolte. Stante la disposizione di cui all’ultimo comma dell’art. 22 d. lgs., secondo la quale non si applicano in tale procedimento le diverse disposizioni che regolano la procedura ordinaria, le indagini preliminari sembrerebbero inutilizzabili.
Art.
23. 1.La costituzione
di parte civile deve avvenire, a pena di decadenza, con la presentazione
del ricorso. La richiesta motivata di restituzione o di risarcimento
del danno contenuta nel ricorso e’ |
** Rispetto alla previsione di cui all’art. 79 c.p.p. , nel procedimento dinanzi al giudice di pace la costituzione di parte civile è anticipata, dovendo essa avvenire, a pena di decadenza, con la presentazione del ricorso. Dovendosi applicare in forza dell’art. 2 d. lgs. le norme del codice di rito, in quanto compatibili, dato che la costituzione di parte civile contenuta nel ricorso è presentata fuori udienza, questa deve essere notificata a cura della parte civile alle altre parti, e produce effetto per ciascuna di esse dal giorno nel quale è eseguita la notificazione ex art. 78 comma 2° c.p.p.
La preclusione operata dal legislatore, si giustifica essenzialmente in considerazione della natura del ricorso, quale atto diretto essenzialmente non tanto ad ottenere la punizione dell’autore del reato quanto una celere ed adeguata riparazione. Le intenzioni e gli scopi della persona offesa verranno di conseguenza conosciuti non solo dal presunto autore del reato, il quale potrà così eventualmente decidersi alla riparazione del danno, ma altresì dal giudice, il quale potrà in questo modo svolgere in maniera adeguata il dovere di tentare la conciliazione.
L’impossibilità di una costituzione di parte civile successiva alla presentazione del ricorso, viene in un certo qual modo compensata dalla possibilità prevista nella seconda parte dell’art. 23 comma 1° d. lgs. in base al quale, nella eventualità in cui manchi tale costituzione, a questa è equiparata la richiesta motivata di restituzione o di risarcimento del danno contenuta nel ricorso. Secondo la Relazione, “tale equiparazione si giustifica tanto più in quanto il ricorso contiene già, ex art. 21 comma 2°, tutti gli elementi che l’art. 78 c.p.p. richiede per una valida costituzione di parte civile nel processo davanti al tribunale, ad eccezione della espressa domanda che introduce il contenzioso civilistico, ma che, appunto, una volta inglobata nel ricorso, gli permette di svolgere anche questa ulteriore funzione”.
Art.
24. 1. Il ricorso è inammissibile: a) se è presentato oltre il termine indicato dall'articolo 22, comma 1; |
** Tardività di presentazione del ricorso. La lett. a) riguarda l’ipotesi in cui il ricorso venga presentato oltre il termine di tre mesi dalla notizia del fatto che costituisce reato. Si tratta più propriamente di improcedibilità del ricorso e non di inammissibilità. Infatti, precisando la stessa Relazione, come la ratio di tale disposizione di fondi “sulla circostanza che il ricorso equivale a presentazione della querela, sicché la proposizione del primo non può, ovviamente, avvenire oltre i termini assegnati in via generale per l’esercizio della seconda”, non si comprende perché, mentre la presentazione della querela oltre il termine di tre mesi dalla notizia del fatto reato costituisca causa di improcedibilità, quando ciò avvenga in ipotesi di ricorso si parli di inammissibilità.
b) se risulta presentato fuori dei casi previsti; |
** Presentazione del ricorso fuori dei casi consentiti. Le condizioni per poter proporre ricorso sono previste dall’art. 21 comma 1° d. lgs., per cui le cause di inammissibilità di cui alla lettera b) si hanno quando:
- il reato non è di competenza del giudice di pace;
- il reato non è procedibile a querela di parte;
- il ricorso è stato presentato da un soggetto che non è legittimato in quanto non persona offesa.
c) se non contiene i requisiti indicati nell'articolo 21, comma 2, ovvero non risulta sottoscritto a norma dei commi 3 e 4 del medesimo articolo; |
** Vizi formali dell’atto. Si tratta di inammissibilità per cause riguardanti la mancanza degli elementi richiesti dall’art. 21 comma 2° d. lgs. (indicazione del giudice; generalità del ricorrente; indicazione e nomina del difensore; indicazione della persona offesa; indicazione dei documenti da acquisire; descrizione del fatto e delle fonti di prova; richiesta di fissazione dell’udienza di comparizione), e la mancanza della sottoscrizione ex art. 21 comma 3° e 4° d. lgs. con le modalità ivi previste.
d) se è insufficiente la descrizione del fatto o l'indicazione delle fonti di prova; |
** Perché il ricorso sia inammissibile, basta l’insufficienza della descrizione del fatto che si addebita alla persona citata a giudizio (art. 21 comma 2° lett. f) d. lgs.), o della indicazione delle fonti di prova a sostegno della richiesta (art. 21 comma 2° lett. h) d. lgs.). Si è già detto infatti, come il ricorso debba essere completo necessariamente sia sotto il profilo sostanziale sia sotto il profilo processuale, al fine di evitare chiamate in giudizio infondate o pretestuose. L’erronea o insufficiente indicazione degli articoli di legge che si assumono violati (art. 21 comma 2° lett. f) d. lgs.), non comporta invece inammissibilità del ricorso, non essendoci una specifica previsione in tal senso.
e) se manca la prova dell'avvenuta comunicazione al pubblico ministero. |
** Tale causa di inammissibilità si giustifica in quanto la comunicazione preventiva del ricorso al pubblico ministero è funzionale all’intervento di questi a norma dell’art. 25.
Art.
25. 1. Entro dieci giorni dalla comunicazione del ricorso il pubblico ministero presenta le sue richieste nella cancelleria del giudice di pace. 2. Se ritiene il ricorso inammissibile o manifestamente infondato, ovvero presentato dinanzi ad un giudice di pace incompetente per territorio, il pubblico ministero esprime parere contrario alla citazione altrimenti formula l'imputazione confermando o modificando l'addebito contenuto nel ricorso. |
** La direttiva di cui all’art. 17 lett. e) della legge delega, stabiliva l’obbligo di “tempestiva informazione al pubblico ministero per l’esercizio delle sue facoltà e di strumenti idonei ad una puntuale formulazione dell’imputazione e ad un compiuto esercizio del diritto di difesa”. Nel rispetto di tale previsione, la comunicazione del ricorso al pubblico ministero ex art. 22 comma 1° d. lgs., consente a quest’ultimo, entro 10 giorni da tale comunicazione, di presentare le sue richieste presso la cancelleria del giudice di pace, dando parere contrario al ricorso, oppure formulando l’imputazione, con possibilità in questo caso di confermare o modificare l’addebito contenuto nel ricorso.
Trattandosi di termine ordinatorio, il pubblico ministero potrà presentare le proprie richieste (anche se sarebbe stato più opportuno affermare che questi potrà esprimere il proprio parere), anche successivamente. In ogni caso, non è difficile intuire come un termine così breve, pur soddisfacendo in pieno le esigenze di semplificazione e di rapidità più volte ribadite dalla legge delega, sarà nella pratica difficilmente rispettato. Del resto, non si tratta di un parere obbligatorio, dato che il successivo art. 26 d. lgs. stabilisce espressamente che il giudice di pace provvede nonostante il pubblico ministero non abbia presentato le sue richieste. In quest’ultimo caso tuttavia, è opportuno mettere in evidenza quanto dispone l’art. 27 comma 3° e 5° d. lgs., ossia che il decreto di convocazione delle parti contiene la trascrizione dell’imputazione e che la convocazione è nulla se, tra gli altri casi, manca o è insufficiente la trascrizione dell’imputazione. Questo significa quindi che il pubblico ministero può anche non presentare alcun parere (rectius: alcuna richiesta) al giudice di pace, ma deve comunque formulare l’imputazione, confermando o modificando l’addebito contenuto nel ricorso. Ma a questo proposito, circa la procedura da adottare da parte del giudice di pace, il decreto nulla dispone. Per maggiore chiarezza, le situazioni ipotizzabili sono le seguenti:
1. Il P.M. presenta le proprie richieste
a) Esprime parere contrario alla citazione. ciò avviene quando il pubblico ministero ritiene il ricorso inammissibile o manifestamente infondato, o presentato dinanzi ad un giudice di pace incompetente per territorio. In relazione alla manifesta infondatezza, si è detto come l’intervento del pubblico ministero abbia una importante funzione di filtro nei confronti dei ricorsi pretestuosi o comunque privi di fondamento, al fine di sconsigliare a priori l’utilizzo sconsiderato di tale forma di vocatio in jus
b) Esprime parere favorevole alla citazione. In questo caso, formula l’imputazione, confermando l’addebito contenuto nel ricorso oppure modificandolo. Quest’ultima ipotesi è stata oggetto di approfondimento da parte della Relazione, secondo la quale “si deve ritenere che la modifica operata dal P.M. non possa giungere fino al punto di snaturare il thema decidendi circoscritto dall’originario addebito di derivazione privata, integrandolo magari con contestazioni che, pur descritte nella narrativa del ricorso, non abbiano formato oggetto dell’addebito in ordine al quale avviene la citazione”. Si tratta di una precisazione importante, per cui il pubblico ministero non può modificare l’addebito in maniera tale da cambiare il tipo di illecito attribuito nel ricorso, nonostante dalla descrizione del fatto operata dal ricorrente possa ricavarsi una tipologia diversa di reato.
E’ importante sottolineare come le richieste del P.M. non siano in ogni caso vincolanti per il giudice di pace, così come si ricava dall’art. 26 d. lgs.
2. Il P.M. non presenta le proprie richieste
Si è detto che questa ipotesi è addirittura prevista dall’art. 26 del decreto, ma come essa ponga evidenti problematiche stante l’assenza di regolamentazione in proposito. Di sicuro non pare prospettabile la soluzione secondo la quale il giudice di pace debba attendere “inerte” che il pubblico ministero formuli l’imputazione, perché tale attesa potrebbe dare luogo ad un notevole allungamento dei tempi processuali e ciò appare inaccettabile per un procedimento che si pone come obiettivi primari la semplificazione e la celerità dello stesso. Si è detto, pertanto, che nell’ipotesi in cui il pubblico ministero non abbia provveduto a presentare le proprie richieste, il giudice di pace debba considerare tale comportamento come implicito parere contrario, con la conseguenza che questi dovrà trasmettere gli atti al pubblico ministero affinché proceda secondo le vie ordinarie. [2] Preferibile appare invece la soluzione secondo la quale in tal caso il giudice di pace debba sì trasmettere gli atti al pubblico ministero, ma con la richiesta di formulare l’imputazione. [3] Un’altra soluzione prospettata è stata quella di considerare le mancate richieste del pubblico ministero come una sorta di silenzio assenso idoneo a recepire l’addebito indicato nel ricorso, che verrebbe così a costituire l’imputazione, di cui peraltro possiede tutti gli elementi costitutivi, essendo l’art. 21 comma 2° lett. f) d. lgs., modellato sugli artt. 429 comma 1° lett. c) e 552 comma 1° lett. c) c.p.p. [4] Le motivazioni principali addotte a sostegno di tale soluzione non sembrano tuttavia soddisfacenti. In sostanza, si afferma che la disposizione di cui all’art. 27 comma 3° d. lgs., secondo la quale il decreto di convocazione delle parti contiene la trascrizione dell’imputazione, è superabile dal fatto che tale trascrizione può essere operata dal giudice mutuandola dal ricorso. Senonchè, si è già visto in commento all’art. 21 comma 2° lett. f) d. lgs., come il ricorso, pur presentando tutti gli elementi costitutivi dell’imputazione, non equivalga ad essa. E’ corretta l’affermazione in base alla quale l’art. 21 comma 2° lett. f) è modellato sugli artt. 429 comma 1° lett. c) e 552 comma 1° lett. c) c.p.p.; pur tuttavia, in esso si nota una differenza non trascurabile laddove non si richiede che esso enunci il fatto in maniera chiara e precisa, bensì che lo descriva. Questo perché l’enunciazione del fatto attraverso la formulazione dell’imputazione, è un compito che nel nostro ordinamento spetta sempre e comunque solo al pubblico ministero, senza possibilità che questi sia sostituito da altri soggetti, come precisato ampiamente in tema di commento all’art. 3 del presente decreto al quale è d’obbligo rimandare. Non è difficile in ogni caso prevedere come questa parte della normativa in esame rappresenterà fonte di notevoli contrasti dottrinari nonché notevoli differenze dal punto di vista pratico a seconda dell’interpretazione che sarà seguita, per cui si auspica fin da adesso un intervento legislativo in proposito che ponga chiarezza su un tema di grande rilevanza che coinvolge gli stessi principi su cui l’ordinamento processuale si fonda.
Art.
26. 1. Decorso il termine indicato nell'articolo 25, il giudice di pace, anche se il pubblico ministero non ha presentato richieste, provvede a norma dei commi 2, 3 e 4. |
** Decorso il termine di dieci giorni dalla comunicazione del ricorso al pubblico ministero, anche in mancanza delle richieste di quest’ultimo, il giudice di pace potrà valutare l’esistenza di cause di inammissibilità del ricorso, la sua manifesta infondatezza, o la propria incompetenza per materia o per territorio.
2. Se ritiene il ricorso inammissibile o manifestamente infondato, il giudice di pace ne dispone la trasmissione al pubblico ministero per l'ulteriore corso del procedimento. |
** Il giudice di pace può ritenere il ricorso inammissibile o manifestamente infondato:
- concordando con il parere contrario del P.M.;
- nonostante il parere favorevole del P.M.;
- per la prima volta, nell’ipotesi in cui il P.M. non abbia effettuato alcun parere.
In ogni caso, si ha la trasmissione degli atti al pubblico ministero. A seguito di ciò, una possibile conseguenza è data dalla apertura della fase delle indagini preliminari con applicazione del procedimento ordinario di cui agli artt. 11 ss. d. lgs. (il comma 2° dell’art. 26 dispone la trasmissione degli atti al pubblico ministero e non alla polizia giudiziaria, in quanto, come spiega la Relazione, spetta a questi l’individuazione dell’organo di polizia giudiziaria che dovrà svolgere le indagini), e suo eventuale sbocco nella citazione a giudizio disposta dalla polizia giudiziaria ai sensi dell’art. 20 d. lgs. La trasmissione degli atti al pubblico ministero, potrà però avere come conseguenza, non solo l’apertura delle indagini preliminari, ma anche una richiesta di archiviazione da parte del pubblico ministero stesso a norma dell’art. 17 d. lgs, soprattutto nell’ipotesi in cui tale trasmissione risulti a seguito di un parere di manifesta infondatezza del ricorso concorde con il parere negativo del P.M. In tal caso, si è correttamente affermato che la richiesta di archiviazione non sarà esaminata dallo stesso giudice che ha valutato l’infondatezza del ricorso, dovendosi ritenere pregiudicata la sua terzietà. [5]
3. Se il ricorso risulta presentato per un reato che appartiene alla competenza di altro giudice, il giudice di pace ne dispone, con ordinanza, la trasmissione al pubblico ministero. |
** Anche nell’ipotesi in cui Il giudice di pace ritenga di essere incompetente per materia, si ha la trasmissione degli atti al pubblico ministero, ma con una sostanziale differenza rispetto alla previsione di cui al precedente comma, in quanto, mentre nel caso in cui ritenga il ricorso inammissibile o manifestamente infondato la trasmissione degli atti al P.M. avviene senza alcuna formalità, nel caso di incompetenza per materia, il giudice di pace deve disporre la trasmissione degli atti mediante ordinanza, per cui la stessa dovrà essere motivata, così come dispone l’art. 125 comma 3° c.p.p.
4. Se riconosce la propria incompetenza per territorio, il giudice di pace la dichiara con ordinanza e restituisce gli atti al ricorrente che, nel termine di venti giorni, ha facoltà di reiterare il ricorso davanti al giudice competente. L'inosservanza del termine è causa di inammissibilità del ricorso. |
** Se il giudice di pace si ritiene incompetente per territorio, allora deve dichiarare con ordinanza la propria incompetenza e restituire gli atti al ricorrente, affinché questi possa proporre il ricorso davanti al giudice di pace competente; la riproposizione deve però avvenire entro 20 giorni dalla restituzione degli atti, perché oltre tale termine il ricorso è inammissibile. Afferma tuttavia la Relazione, che “qualora in concreto dopo la restituzione degli atti disposta dal giudice di pace incompetente per territorio residui, rispetto all’ordinario termine di tre mesi dalla notizia del fatto reato, un termine maggiore di venti giorni, deve ritenersi che la riproposizione del ricorso possa avvenire entro tale maggior termine, sulla base della regola contenuta nell’art. 22 comma 1°”; in sostanza, quindi, ciò che conta per poter reiterare il ricorso è il rispetto del termine dei tre mesi dalla notizia del fatto reato previsto dall’art. 21 comma 1° d. lgs., di modo tale che se il ricorrente supera il termine di 20 giorni previsto per la “riassunzione” ma non quello dei tre mesi, il ricorso deve ritenersi comunque ammissibile.
Art.
27. 1. Se non deve provvedere ai sensi dell'articolo 26, il giudice di pace, entro venti giorni dal deposito del ricorso, convoca le parti in udienza con decreto. 2. Tra il giorno del deposito del ricorso e l'udienza non devono intercorrere più di novanta giorni. |
** Il giudice di pace, ritenuta la propria competenza e ritenuto il ricorso ammissibile, convoca le parti in udienza mediante decreto, il quale deve essere emanato entro 20 giorni dal deposito del ricorso. Tra il giorno del deposito del ricorso e l’udienza, non devono intercorrere più di 90 giorni. Tali termini sono rivolti al giudice ed hanno natura accelleratoria in quanto lo scopo essenziale che il ricorrente si prefigge e che il legislatore ha inteso tutelare mediante questa forma di vocatio in jus è appunto quello di arrivare al giudizio in tempi rapidi; trattasi però di termini ordinatori, mancando una espressa previsione contraria. Nonostante ciò, si deve auspicare il loro rispetto da parte del giudice, pena l’insuccesso della riforma in oggetto, in quanto ci si è già soffermati sul fatto che per la parte offesa gli oneri che il ricorso impone sono notevoli, ma compensati dalla previsione di ottenere un giudizio in tempi brevissimi.
3. Il decreto contiene: 4. Il decreto, unitamente al ricorso, è notificato, a cura del ricorrente, al pubblico ministero, alla persona citata in giudizio e al suo difensore almeno venti giorni prima dell'udienza. Entro lo stesso termine il ricorrente notifica il decreto alle altre persone offese di cui conosca l'identità. |
** Il decreto di convocazione delle parti contiene l’imputazione ed è a seguito di tale decreto che il soggetto assume la qualità di imputato (art. 3 d. lgs). Lo stesso dovrà essere notificato, unitamente al ricorso, almeno 20 giorni prima dell’udienza (Il termine di 20 giorni ha qui natura dilatoria) al pubblico ministero, alla persona citata a giudizio e al suo difensore. Al fine di consentire l’integrazione del contraddittorio di cui all’art. 28 d. lgs., è altresì previsto che la notificazione debba essere effettuata anche alle altre persone offese dal medesimo reato delle quali il ricorrente conosca l’identità, persone offese che già dovevano essere indicate nel ricorso ai sensi dell’art. 21 comma 2° lett. d) d. lgs.
A norma dell’art. 61 d. lgs., l’emissione del decreto di convocazione delle parti è causa di interruzione della prescrizione per i reati attribuiti alla competenza del giudice di pace, oltre alla citazione a giudizio disposta dalla polizia giudiziaria e le cause generali di interruzione della prescrizione del reato ex art. 160 c.p.
5. La convocazione è nulla se l'imputato non è identificato in modo certo ovvero se manca o è insufficiente l'indicazione di uno dei requisiti previsti dal comma 3, lettere a), b), c) e d). |
Art.
28. 1. Il ricorso presentato da una fra più persone offese non impedisce alle altre di intervenire nel processo, con l'assistenza di un difensore e con gli stessi diritti che spettano al ricorrente principale. |
** La norma in esame si rivela di estrema importanza in quanto evita la duplicazione di procedimenti relativi allo stesso fatto reato. Laddove le persone offese siano più di una e queste abbiano presentato distinti ed autonomi ricorsi, ad evitare la duplicazione dei procedimenti interviene l’istituto della riunione (art.9 d. lgs.). Tuttavia, si può avere l’ipotesi in cui più siano le persone offese dal medesimo reato, ma una sola o solo alcune di esse abbiano presentato ricorso mentre le altre sono rimaste inerti oppure hanno presentato autonoma querela; in tal caso, sempre per evitare la duplicazione di procedimenti per lo stesso fatto, l’art. 28 comma 1° d. lgs. stabilisce che il ricorso presentato da una tra più persone offese, non impedisce alle altre di intervenire nel processo, con l’assistenza di un difensore e con gli stessi diritti che spettano al ricorrente principale. L’intervento della persona offesa nel processo è possibile grazie alle disposizioni di cui agli art. 21 comma 1° lett. d) e 27 d. lgs, in base alle quali il ricorrente deve indicare nel ricorso le altre persone offese dal reato, sempre naturalmente che ne conosca l’identità, e spetta al ricorrente stesso notificare alle persone offese da lui indicate nel proprio atto introduttivo il decreto di convocazione delle parti emesso da giudice di pace.
2. Le persone offese intervenute possono costituirsi parte civile prima della dichiarazione di apertura del dibattimento. |
** Si è visto (art. 23 d. lgs.), come, diversamente, per il ricorrente la costituzione di parte civile debba avvenire con la presentazione del ricorso oppure come ad essa possa supplire il ricorso stesso, qualora contenga richiesta motivata di restituzione o di risarcimento del danno.
3. La mancata comparizione delle persone offese, alle quali il decreto sia stato regolarmente notificato ai sensi dell'articolo 27, comma 4, equivale a rinuncia al diritto di querela ovvero alla remissione della querela, qualora sia stata già presentata. |
L’art. 30 d. lgs. dispone, nell’ipotesi di assenza ingiustificata del ricorrente all’udienza di comparizione, l’improcedibilità del ricorso; coerentemente, nell’ipotesi in cui a non comparire siano le persone offese alle quali il decreto sia stato regolarmente notificato, tale mancata comparizione equivale a rinuncia al diritto alla querela o a remissione della querela nel caso in cui questa sia stata precedentemente presentata.
Capo
IV
Giudizio |
** In ossequio alle direttive di cui all’art. 17 lett. g) [6] ed l) [7] della legge delega, il Capo V del decreto legislativo (artt. 29-33), disciplina il giudizio dinanzi al giudice di pace. Le “esigenze di semplificazione” di cui il legislatore ha dovuto tener conto, hanno escluso l’applicazione dell’istituto dell’udienza preliminare, la cui previsione non sarebbe stata comunque in linea con la stessa legge delega (art. 17 comma 1°) che aveva previsto come punto di riferimento per tale tipo di giudizio le norme del codice di rito riguardanti il procedimento davanti al tribunale in composizione monocratica. Come correttamente fa notare la stessa Relazione, per i reati che sono stati trasferiti al giudice di pace, l’art. 550 c.p.p. già oggi prevede il meccanismo della vocatio in jus a mezzo di citazione diretta, per cui la previsione dell’udienza preliminare non solo avrebbe comportato un allungamento dei tempi processuali, ma sarebbe stata altresì una scelta irragionevole.
La fase del giudizio inizia quindi con l’udienza di comparizione di cui all’art. 29 d. lgs., che si pone quali obiettivi principali sia di favorire la conciliazione delle parti laddove si tratti di reato perseguibile a querela, sia di favorire la deflazione processuale evitando, ove possibile, di procedere al dibattimento. E’ di tutta evidenza, pertanto, come le attività predibattimentali previste in tale udienza dovranno nella pratica essere correttamente svolte, considerato che il legislatore ha concentrato in essa la realizzazione dei due principi cardine di tutta la riforma, quello conciliativo e quello deflattivo.
All’udienza di comparizione si perviene o con atto di citazione della polizia giudiziaria ex art. 20 d. lgs. [8] , oppure con decreto di convocazione del giudice di pace a norma dell’art. 27 d. lgs. Dalla data di notifica all’imputato della citazione o del ricorso, decorre un intervallo che dura 30 giorni se il giudizio è instaurato tramite citazione della polizia giudiziaria (ex art. 20 comma 3° d. lgs., la citazione è notificata a cura della polizia giudiziaria all’imputato, al suo difensore e alla parte offesa almeno 30 giorni prima dell’udienza); 20 giorni se invece il giudice effettua la convocazione delle parti a seguito del ricorso della persona offesa (ex art. 27 comma 4° d. lgs., il decreto, unitamente al ricorso, è notificato, a cura del ricorrente al pubblico ministero, alla persona citata in giudizio e al suo difensore almeno 20 giorni prima dell’udienza). A seconda del tipo di vocatio in jus, si ha quindi un termine a comparire diverso.
Art.
29. 1. Almeno sette giorni prima della data fissata per l'udienza di comparizione, il pubblico ministero o la persona offesa nel caso previsto dall'articolo 21, depositano nella cancelleria del giudice di pace l'atto di citazione a giudizio con le relative notifiche. |
** Lo stesso termine (almeno 7 giorni prima dell’udienza), è previsto a carico del pubblico ministero e della persona offesa, per depositare presso la cancelleria del giudice di pace l’atto di citazione o il ricorso, con le relative notifiche. Quando si ha citazione ad opera della polizia giudiziaria a norma dell’art. 20 d. lgs., l’onere del deposito è previsto a carico del pubblico ministero, nonostante tutti gli oneri di notifica siano invece della polizia giudiziaria; questo, perché l’art. 20 comma 5° s. lgs. dispone che la citazione, una volta notificata, deve essere depositata nella segreteria del P.M. unitamente al fascicolo delle indagini. Non è prevista alcuna sanzione nell’ipotesi di mancato rispetto di tale termine di 7 giorni, il quale serve essenzialmente per consentire al giudice di pace, sia di verificare la regolarità delle notifiche dell’atto introduttivo del giudizio di modo tale che, se necessario, adotterà i provvedimenti di rinnovazione di cui all’art. 29 comma 3° d. lgs., sia per conoscere l’oggetto stesso del processo, anche al fine di poter attivare i propri poteri in ordine alla riunione.
2. Fuori dei casi previsti dagli articoli 20 e 21, le parti che intendono chiedere l'esame dei testimoni, periti o consulenti tecnici nonché delle persone indicate nell'articolo 210 del codice di procedura penale, devono, a pena di inammissibilità, almeno sette giorni prima della data fissata per l'udienza di comparizione, depositare in cancelleria le liste con l'indicazione delle circostanze su cui deve vertere l'esame. |
** Nello stesso termine (almeno 7 giorni prima della data dell’udienza), le parti interessate devono, in questo caso a pena di inammissibilità, depositare nella cancelleria del giudice di pace la lista con l’indicazione dei testimoni, periti e consulenti tecnici o delle persone a cui fa riferimento l’art. 210 c.p.p. [9] , delle quali si intende chiedere l’esame, precisando altresì le circostanze su cui lo stesso deve vertere.
E’ importante tenere presente che a tale deposito della lista non è certamente tenuto il pubblico ministero, qualora al giudizio si sia pervenuti mediante la citazione di cui all’art. 20 d. lgs., né la persona offesa qualora il giudizio sia stato instaurato attraverso il ricorso ex art. 21 d. lgs (“Fuori dei casi previsti dall’art. 20 e 21). Infatti, nella prima ipotesi, l’art. 20 comma 2° lett. c) d. lgs., stabilisce che l’atto di citazione deve contenere l’indicazione delle fonti di prova di cui si chiede l’ammissione, nonché le circostanze sui cui deve vertere l’esame dei testimoni o dei consulenti tecnici. La mancata o insufficiente indicazione delle fonti di prova di cui si chiede l’ammissione è sanzionata con la nullità della citazione a norma dell’art. 20 comma 6 d. lgs. La richiesta dell’esame dei testimoni e dei consulenti tecnici non corredata dall’indicazione delle circostanze su cui deve vertere l’esame è sanzionata con l’inammissibilità dall’art. 20 comma 2° lett. c). Nella seconda ipotesi, relativa al ricorso della persona offesa, l’art. 21 comma 2° lett. h) d. lgs., stabilisce che il ricorso debba contenere le fonti di prova a sostegno della richiesta, nonché le circostanze su cui deve vertere l’esame dei testimoni e dei consulenti tecnici. E la mancanza di tali indicazioni comporta inammissibilità del ricorso ex art. 24 comma 1° lett. c) e d) d. lgs.
3. Nei casi in cui occorre rinnovare la convocazione o la citazione a giudizio ovvero le relative notificazioni, vi provvede il giudice di pace, anche d'ufficio. |
** Spetta al giudice di pace la rinnovazione della convocazione o della citazione a giudizio, ovvero delle relative notifiche, ad esempio nell’ipotesi in cui non sia stato rispettato il termine a comparire o la notifica non sia andata a buon fine. Come precisa la stessa Relazione, si tratta di una disciplina che richiama il modello ordinario di cui all’art. 143 disp. att. c.p.p., adottata al fine di evitare regressioni processuali, che non troverebbero giustificazione né nell’ipotesi di ricorso diretto dell’offeso, in cui l’atto di vocatio in jus promana dal giudice di pace, né nel procedimento ordinario, attesa la mancanza di riti alternativi attivabili prima dell’udienza.
4. Il giudice, quando il reato è perseguibile a querela, promuove la conciliazione tra le parti. In tal caso, qualora sia utile per favorire la conciliazione, il giudice può rinviare l'udienza per un periodo non superiore a due mesi e, ove occorra, può avvalersi anche dell'attività di mediazione di centri e strutture pubbliche o private presenti sul territorio. In ogni caso, le dichiarazioni rese dalle parti nel corso dell'attività di conciliazione non possono essere in alcun modo utilizzate ai fini della deliberazione. |
** Nell’ipotesi in cui si verta nell’ambito di un reato procedibile a querela, il primo onere del giudice all’udienza di comparizione, è dato dall’obbligo di effettuare il tentativo di conciliazione, il quale deve seguire immediatamente dopo la verifica della regolarità del contraddittorio. E’ opportuno sottolineare che si tratta di un tentativo di conciliazione obbligatorio da parte del giudice, così come si desume dalla lettera della legge “promuove”, del resto in piena attuazione della direttiva di cui all’art. 17 comma 1° lett. g) della legge delega. L’importanza attribuita dal legislatore al promuovimento da parte del giudice di pace del tentativo di conciliazione, la si ricava altresì dalla previsione in base alla quale esso non deve essere necessariamente realizzato in una sola udienza, perché, ove il giudice ritenga che sia utile ai fini della conciliazione, può rinviare l’udienza entro un limite massimo di due mesi.
Si è previsto che il giudice di pace possa anche avvalersi dell’attività di mediazione di rappresentanti di centri e strutture pubbliche o private presenti nel territorio; in tal senso, nella Relazione si auspica che tali strutture di mediazione, operanti attualmente in un numero limitato di distretti (e soprattutto nell’ambito del settore minorile), si diffondano maggiormente.
Durante questa fase dedicata al tentativo di conciliazione, il legislatore delegato ha inoltre voluto escludere ogni coinvolgimento del giudice di pace nel merito del giudizio [10] . Tale esclusione è in primo luogo corretta; infatti, essendo questa la fase predibattimentale, il giudizio sarà non solo futuro ma altresì, in base a quello che è lo scopo della normativa, eventuale; in secondo luogo, si tratta di una esclusione obbligata, stante il disposto di cui all’art. 34 c.p.p., disposta al fine di evitare problemi di incompatibilità del giudice. Si è previsto, pertanto, che le dichiarazioni rese dalle parti durante il tentativo di conciliazione non siano utilizzabili ai fini della decisione. Nonostante ciò, non è arduo prevedere come le “concessioni” che farà l’imputato alla parte offesa saranno veramente rare o comunque di poco conto. La conciliazione infatti, per andare a buon fine, presuppone l’ammissione di una certa responsabilità da parte dell’imputato e minori pretese da parte della persona offesa; entrambe le parti devono necessariamente effettuare concessioni reciproche alle ragioni altrui. Nel caso in esame, vertendo su fattispecie di responsabilità penale, l’unica concessione valida ai fini del buon esito della conciliazione che l’imputato potrà fare sarà quella di ammettere in tutto o in parte la propria responsabilità, ed è evidente che ciò si realizzerà difficilmente: nonostante si sia previsto che le dichiarazioni rese in tale fase non siano utilizzabili ai fini della decisione, per l’imputato qualunque ammissione risulterebbe comunque pericolosa, considerato che se la conciliazione non riesce, prosegue il giudizio nei suoi confronti.
5. In caso di conciliazione è redatto processo verbale attestante la remissione di querela o la rinuncia al ricorso di cui all'articolo 21 e la relativa accettazione. La rinuncia al ricorso produce gli stessi effetti della remissione della querela. |
** Nell’ipotesi in cui la conciliazione riesca, viene redatto processo verbale in cui si attesta la remissione della querela e la rinuncia al ricorso. In entrambi i casi, è necessaria l’accettazione dell’imputato. La rinuncia al ricorso produce gli stessi effetti della remissione della querela per cui, l’equivalenza di effetti che l’art. 21 comma 5° d. lgs. dispone tra querela e ricorso, vale anche ai fini della rinuncia.
Si è visto come il dovere per il giudice di pace di promuovere la conciliazione sorga, naturalmente, laddove si tratti di giudizio avente ad oggetto reati perseguibili a querela. La conciliazione può riguardare però non solo l’imputato ed il ricorrente persona offesa ex art. 21 d. lgs., nel qual caso il processo verbale attesterà la rinuncia al ricorso e la sua accettazione, ma altresì l’imputato e le altre persone offese intervenute nel processo ex art. 28 d. lgs. che hanno in un primo momento presentato la querela e che poi hanno aderito al ricorso principale; nonché, l’imputato e la persona offesa che ha presentato querela ma non anche il ricorso, di modo tale che al giudizio si è pervenuti tramite citazione ad opera della polizia giudiziaria ex art. 20 d. lgs. In queste ultime due ipotesi, il processo verbale attesterà, pertanto, la remissione della querela e la relativa accettazione.
Quando la conciliazione riesce, per ciò che riguarda le spese del procedimento, si applica l’art. 340 c.p.p., per cui le spese, a meno che non vi sia un diverso accordo delle parti, sono a carico del chiamato in giudizio.
6. Prima della dichiarazione di apertura del dibattimento l'imputato può presentare domanda di oblazione. |
** L’oblazione, istituto previsto dagli artt. 162 e 162 bis c.p. dal quale deriva l’estinzione del reato, si rivela di notevole importanza nell’ambito della competenza penale del giudice di pace, essendo allo stesso attribuite contravvenzioni sanzionate con la pena pecuniaria, da sola o alternativa alle pene paradententive [11] , che risultano tutte oblabili.
- L’art. 162 c.p. prevede la c.d. oblazione obbligatoria, la quale riguarda le contravvenzioni punite con la sola ammenda in cui il contravventore “è ammesso” a pagare una somma corrispondente alla terza parte del massimo edittale, oltre alle spese del procedimento. Questa forma di oblazione è detta obbligatoria in quanto per l’imputato vi è un vero e proprio diritto ad ottenere in tal modo l’estinzione del reato.
- L’art. 162 bis c.p., prevede invece la c.d. oblazione facoltativa, concernente contravvenzioni punite con la pena alternativa dell’arresto o dell’ammenda, in cui il contravventore “può essere ammesso” al pagamento di una somma corrispondente alla metà del massimo edittale oltre le spese del procedimento. Trattasi di oblazione facoltativa in quanto l’ammissione è rimessa alla valutazione del giudice, il quale può respingere la domanda, avuto riguardo alla gravità del reato. Inoltre, l’ammissione è esclusa nell’ipotesi di recidivi reiterati, contravventori abituali, delinquenti o contravventori professionali, nonché nell’ipotesi in cui permangano conseguenze dannose o pericolose del reato eliminabili da parte del contravventore.
Nell’ipotesi in cui fosse possibile ricorrere all’oblazione facoltativa di cui all’art. 162 bis c.p., considerato che la norma impone l’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose derivate dal reato, è opportuno far notare che per l’imputato potrebbe essere più conveniente non la domanda di oblazione, bensì il ricorso all’art. 35 d. lgs. Infatti, tale norma prevede che se l’imputato dà la dimostrazione di aver proceduto alla riparazione del danno cagionato dal reato, mediante le restituzioni o il risarcimento, e di avere eliminato le conseguenze dannose o pericolose del reato, il giudice di pace, sentite le parti e l’eventuale persona offesa, dichiara con sentenza l’estinzione del reato. La scelta dovrà tuttavia essere frutto di una attenta valutazione in quanto, sicuramente, l’applicazione della causa estintiva del reato di cui all’art. 35 risulta estremamente più vantaggiosa dal punto di vista economico rispetto all’oblazione facoltativa, quest’ultima comportando in ogni caso il pagamento di una somma corrispondente alla metà del massimo edittale (che è comunque limitato, per espressa disposizione dell’art. 52 d. lgs. a 5 milioni di lire). Al contempo, non è detto però che il ricorso all’art. 35 d. lgs. dia assoluta certezza di pervenire all’estinzione del reato, perché il secondo comma dello stesso art. 35 stabilisce che la sentenza di estinzione del reato è pronunciata solo se il giudice ritiene le attività risarcitorie e riparatorie idonee a soddisfare le esigenze di riprovazione del reato e quelle di prevenzione. Di conseguenza, potrebbe benissimo accadere che, nonostante l’imputato abbia effettuato l’attività riparatoria, il giudice ritenga di non dichiarare l’estinzione del reato perché, come afferma sul punto la Relazione, tale attività non è bastata a “compensare il disvalore complessivo dell’illecito e/o le esigenze di prevenzione speciale”.
Sempre in tema di oblazione, e sempre con riferimento a quanto dispone l’art. 35 comma 2° d. lgs, è bene precisare che, benché da più parti si sia affermato come il ricorso all’art. 35 potrebbe essere imposto dalle qualità soggettive dell’imputato ostative all’ammissione dell’oblazione (recidivo reiterato, contravventore abituale, delinquente o contravventore professionale) [12] , non è comunque escluso che le stesse qualità soggettive siano prese in considerazione dal giudice di pace ai fini di una mancata pronuncia di estinzione del reato proprio ai sensi dell’art. 35 comma 2°. Anzi, la stessa previsione sembra proprio deporre in tal senso, considerato che qualora imputato sia un soggetto caratterizzato da una forte capacità a delinquere, non è detto che la condotta riparatoria sia idonea a soddisfare le “esigenze di prevenzione del reato e quelle di prevenzione”.
7. Dopo la dichiarazione di apertura del dibattimento, se può procedersi immediatamente al giudizio, il giudice ammette le prove richieste escludendo quelle vietate dalla legge, superflue o irrilevanti e invita le parti ad indicare gli atti da inserire nel fascicolo per il dibattimento, provvedendo a norma dell'articolo 431 del codice di procedura penale. Le parti possono concordare l'acquisizione al fascicolo del dibattimento di atti contenuti nel fascicolo del pubblico ministero, della documentazione relativa all'attività di investigazione difensiva, nonché della documentazione allegata al ricorso di cui all'articolo 21. |
** Una volta conclusa la fase predibattimentale, ove questa non definisca anticipatamente il processo mediante conciliazione od oblazione, il giudice dichiara aperto il dibattimento. La prima attività da svolgere è quella relativa alla valutazione dell’ammissibilità delle prove richieste dalle parti nel loro atto introduttivo [13] , escludendo le prove vietate dalla legge nonché quelle superflue o irrilevanti. I poteri del giudice in relazione a tale valutazione, sono maggiori rispetto al giudice ordinario, quest’ultimo potendo escludere oltre a quelle vietate dalle legge, solo le prove “manifestamente” superflue o irrilevanti.
In relazione alla formazione del fascicolo del dibattimento, il giudice invita le parti ad indicare gli atti da inserire in tale fascicolo, provvedendo a norma dell’art. 431 c.p.p. Inoltre, le parti possono concordare di inserire nel fascicolo del dibattimento gli atti di indagine del pubblico ministero (sempre che vi siano state indagini preliminari e che quindi al giudizio si sia pervenuti tramite citazione della polizia giudiziaria), la documentazione relativa all’attività di investigazione difensiva e la documentazione allegata al ricorso immediato al giudice. La disciplina è quindi analoga a quella dell’art. 493 comma 3° c.p.p. introdotta dalla legge del 1999 n. 479, con l’ulteriore previsione dell’introduzione concordata della documentazione allegata al ricorso da parte della persona offesa. Si è correttamente notato che, a ben vedere, si tratta di documentazione che già deve essere inserita nel fascicolo del pubblico ministero, che va aperto nel momento in cui la persona offesa comunica a questi il ricorso con la relativa documentazione, ai fini previsti dall’art. 25 d. lgs. [14]
8. Se occorre fissare altra udienza per il giudizio, il giudice autorizza ciascuna parte alla citazione dei propri testimoni o consulenti tecnici, escludendo le testimonianze vietate dalla legge e quelle manifestamente sovrabbondanti. La parte che omette la citazione decade dalla prova. |
** L’assunzione delle prove avviene nella stessa udienza; tuttavia, se è necessario fissare un’altra udienza per il giudizio, il giudice di pace autorizza ciascuna parte che in precedenza ha depositato le proprie liste, alla citazione dei testimoni e consulenti tecnici in esse indicati, escludendo le testimonianze vietate dalla legge e quelle sovrabbondanti. Poiché il rinvio ad altra udienza è previsto come eventuale, ciò significa che nelle intenzioni del legislatore il giudizio dovrebbe risolversi in una sola udienza; tuttavia, ciò sembra difficilmente realizzabile nella pratica. In tale eventuale udienza di rinvio, nell’ipotesi in cui si ometta la citazione dei testi o dei consulenti tecnici, tale omissione comporta la decadenza dalla prova per la parte che ne aveva richiesto l’ammissione. Il rigore di tale disposizione si giustifica, secondo la Relazione, in quanto la parte ha dimostrato per facta concludentia la carenza di interesse alla acquisizione del mezzo di prova. Tuttavia in tali ipotesi, la decadenza dalla prova lascia comunque salva la possibilità di integrazione probatoria ex officio da parte del giudice di pace, come disciplinata dall’art. 507 c.p.p.
Per quello che riguarda le regole ulteriori del dibattimento, stante l’art. 2 comma 1° d. lgs., si applicano le disposizioni di cui al libro VII c.p.p., comprese quelle in tema di disciplina e pubblicità dell’udienza (artt. 470 e 471 c.p.p.), e di assistenza e allontanamento coattivo dell’imputato (artt. 474 e 475 c.p.p.)
** Gli artt. 30 e 31 del decreto legislativo riguardano la disciplina relativa alla mancata comparizione della persona offesa all’udienza di comparizione e la disciplina di fissazione di nuova udienza a seguito di impossibilità a comparire. Tali disposizioni si applicano pertanto solo all’udienza di comparizione fissata dal giudice di pace a seguito di proposizione di ricorso immediato da parte della persona offesa.
Art.
30. 1. La mancata comparizione all'udienza del ricorrente o del suo procuratore speciale non dovuta ad impossibilità a comparire per caso fortuito o forza maggiore determina l'improcedibilità del ricorso, salvo che l'imputato o la persona offesa intervenuta e che abbia presentato querela chieda che si proceda al giudizio. 2. Con l'ordinanza con cui dichiara l'improcedibilità del ricorso ai sensi del comma 1, il giudice di pace condanna il ricorrente alla rifusione delle spese processuali, nonché al risarcimento dei danni in favore della persona citata in giudizio che ne abbia fatto domanda. |
** La mancata comparizione ingiustificata (in quanto non dovuta a caso fortuito o a forza maggiore), della persona offesa-ricorrente o del suo procuratore speciale, dà luogo alla improcedibilità del ricorso, la quale viene dichiarata con apposita ordinanza. L’assenza ingiustificata del ricorrente non è quindi priva di conseguenze, comportando come effetto immediato la declaratoria di improcedibilità del ricorso da questi presentato, avendo il legislatore ritenuto che tale comportamento fosse da considerarsi come dimostrativo della mancanza di interesse alla prosecuzione del giudizio.
La disposizione in esame si giustifica pienamente in considerazione di due esigenze che il legislatore delegato ha inteso soddisfare. In primis, si è voluto garantire la concreta possibilità per il giudice di pace di poter esperire la propria funzione conciliativa, essendo di tutta evidenza che un serio ed effettivo tentativo di conciliazione può essere effettuato solo laddove vi sia la contemporanea presenza in udienza del ricorrente (o di un suo procuratore speciale), e dell’imputato.
Inoltre, con tale disposizione si cerca di evitare l’eventualità che possano essere presentati ricorsi pretestuosi e temerari. Non dobbiamo infatti tralasciare di considerare che, quando si instaura il giudizio mediante ricorso, non vi sono indagini preliminari, e che, nonostante la previsione di un controllo sulla fondatezza del ricorso sia da parte del pubblico ministero ex art. 25 d. lgs, sia da parte del giudice di pace a norma dell’art. 26 d. lgs., la possibilità di un giudizio basato su ricorso pretestuoso non può essere esclusa a priori. Il ricorrente deve quindi tenere in debito conto che, dopo aver presentato ricorso, non potrà poi disinteressarsi all’ulteriore corso del giudizio, pena nei suoi confronti, la produzione di conseguenze negative. Infatti, la declaratoria di inammissibilità del ricorso, non è l’unica conseguenza in caso di mancata comparizione ingiustificata (la quale, in fondo, essendo frutto di un disinteresse del ricorrente alla prosecuzione del giudizio, non dovrebbe poi nella sostanza essere da questi considerata come vera e propria conseguenza negativa), essendo altresì previsto che il ricorrente venga condannato alla refusione delle spese processuali e, se la persona citata ne ha fatto domanda, anche al risarcimento dei danni in suo favore. Non è inoltre da escludere che la persona citata a giudizio configuri a carico del ricorrente il reato di calunnia.
3. Se il reato contestato nell'imputazione non rientra tra quelli per cui e' ammessa la citazione a giudizio su istanza della persona offesa, il giudice di pace trasmette gli atti al pubblico ministero, salvo che l'imputato chieda che si proceda ugualmente al giudizio. |
** L’ipotesi riguarda il caso in cui sia stato presentato ricorso per un reato che è sì attribuito alla competenza del giudice di pace, ma per il quale non è possibile tale forma di vocatio in jus in quanto trattasi di reato perseguibile d’ufficio. Si è visto come il giudice di pace debba delibare circa l’ammissibilità del ricorso a norma dell’art. 26 comma 2° d. lgs.; qualora questa causa di inammissibilità non sia stata rilevata in quel momento, il giudice può comunque “rimediare” in corso di causa, nello stesso modo previsto dall’art. 26 comma 2°, ossia trasmettendo gli atti al pubblico ministero per l’ulteriore corso del procedimento. Tuttavia, il giudizio prosegue, se l’imputato chiede che si proceda ugualmente. Afferma la Relazione, che tale previsione “intende evitare regressioni del procedimento laddove l’imputato non ritenga di doversi dolere dell’irrituale vocatio in jus, e corrisponde sostanzialmente alla disciplina dettata in materia di giudizio direttissimo dinanzi al giudice monocratico”. [15]
Art.
31. 1. In caso di dichiarazione di improcedibilità ai sensi dell'articolo 30, comma 1, il ricorrente può presentare istanza di fissazione di nuova udienza se prova che la mancata comparizione e' stata dovuta a caso fortuito o a forza maggiore. 2. L'istanza è presentata al giudice di pace entro dieci giorni dalla cessazione del fatto costituente caso fortuito o forza maggiore. Il termine è stabilito a pena di decadenza. 3. Se accoglie l'istanza, il giudice di pace convoca le parti per una nuova udienza ai sensi dell'articolo 27, invitando il ricorrente a provvedere alle notifiche a norma del comma 4 dello stesso articolo. 4. Contro il decreto motivato che respinge la richiesta di fissazione di nuova udienza può essere proposto ricorso al tribunale in composizione monocratica, che decide con ordinanza inoppugnabile. |
** Nel caso in cui l’impedimento a comparire dovuto a caso fortuito o a forza maggiore non possa essere tempestivamente dedotto, il giudice pronuncia ordinanza di inammissibilità del ricorso ai sensi dell’art. 30 d. lgs., ma al ricorrente è concessa la facoltà di effettuare una apposita istanza con la quale, provando che c’è stata la causa impeditiva, chiede al giudice che venga fissata una nuova udienza. L’istanza è sottoposta al termine di decadenza di 10 giorni dalla cessazione della causa impeditiva. In caso di accoglimento, il procedimento regredisce; il giudice, infatti, emette un nuovo decreto di convocazione delle parti ai sensi dell’art. 27 d. lgs., il quale dovrà essere notificato a cura del ricorrente ai sensi del comma 4° dello stesso articolo.
Se il giudice di pace respinge l’istanza di rimessione in termini, pronuncia decreto motivato, il quale potrà essere impugnato dinanzi al tribunale in composizione monocratica, essendo quest’ultimo giudice naturale dell’impugnazione, ai sensi dell’art. 39 d. lgs., dei provvedimenti del giudice di pace. Il tribunale deciderà con ordinanza non impugnabile.
Art.
32. 1. Sull'accordo delle parti, l'esame dei testimoni, dei periti, dei consulenti tecnici e delle parti private può essere condotto dal giudice sulla base delle domande e delle contestazioni proposte dal pubblico ministero e dai difensori. |
** In tema di istruttoria dibattimentale, per l’assunzione delle prove orali si applicano, in quanto compatibili, le disposizioni del codice di rito relative al tribunale in composizione monocratica, di modo tale che l’esame dei testimoni, dei consulenti tecnici, dei periti e delle parti private viene svolto dal pubblico ministero. e dai difensori mediante esame diretto e controesame. Tuttavia, nel procedimento dinanzi al giudice di pace, si prevede la possibilità che le parti possano accordarsi affinché l’esame sia condotto direttamente dal giudice, quale tramite delle domande e delle contestazioni provenienti dal pubblico ministero e dai difensori.
Secondo la Relazione, “la formula utilizzata -sull’accordo delle parti-, analoga a quella propria del vecchio dibattimento pretorile, permette di ritenere che, a differenza della nuova normativa del rito monocratico, che richiede ex art. 559 comma 2° c.p.p. la concorde richiesta delle parti, l’esame diretto da parte del giudice potrà fondarsi anche su un consenso tacitamente prestato in ordine alla differente modalità di conduzione dell’esame”.
Con riguardo a tale modalità di assunzione delle prove orali, da parte di alcuni si è parlato di deroga al regime generale della cross examination. [16] Vi è però l’opinione di chi, al contrario, ritiene che la regola rimane sempre quella della cross examination, perché l’esame condotto dal giudice presuppone pur sempre le domande e le contestazioni proposte dal pubblico ministero e dai difensori; ciò che cambia è il modo di attuarlo, più semplificato, che pone il giudice come diretto protagonista. E ciò si giustifica, se si considera l’estrema facilità dei processi chiamati alla cognizione del giudice di pace, tali che la semplice lettura dell’imputazione dovrebbe consentire di apprezzare appieno la materia del contendere. [17]
2. Terminata l'acquisizione delle prove, il giudice, se risulta assolutamente necessario, può disporre anche d'ufficio l'assunzione di nuovi mezzi di prova, compresi quelli relativi agli atti acquisiti a norma dell'articolo 29, comma 7. |
** Al fine di evitare possibili incertezze interpretative, si è ripetuta la disposizione di cui all’art. 507 c.p.p., per cui il giudice di pace, conclusa l’assunzione delle prove richieste dalle parti e la loro ammissione, può disporre d’ufficio l’assunzione di altri mezzi di prova. Si applica altresì il comma 1 bis dell’art. 507 c.p.p., introdotto con la legge del 1999 n. 479, per cui il giudice può disporre l’assunzione di nuovi mezzi di prova anche in relazione agli atti acquisiti al fascicolo per il dibattimento, purché vi sia il consenso delle parti. E’ pacifico, che lo scopo della disposizione consista nell’attribuire al giudice poteri istruttori d’ufficio per sostituirsi alle parti in caso di loro inerzia. Si è però opportunamente fatto notare come la previsione del potere di integrazione probatoria del giudice operata dal legislatore al secondo comma dell’art. 32 d. lgs., pur conforme all’art. 507 c.p.p., non avrà l’applicazione che invece ha nell’ambito del giudizio ordinario dinanzi al tribunale in composizione monocratica. Infatti, mentre l’art. 507 c.p.p. consente al giudice di poter disporre l’assunzione di nuovi mezzi di prova anche in ipotesi di totale inerzia delle parti in proposito, cioè anche se prima non sia avvenuta alcuna acquisizione probatoria, così non può accadere nel procedimento dinanzi al giudice di pace, laddove il potere del giudice in materia di prove è necessariamente limitato alla sola integrazione probatoria, senza possibilità alcuna di sostituirsi alle parti in ipotesi di loro assoluta inerzia. Questo, perché, nell’ipotesi di mancata indicazione probatoria negli atti introduttivi, la conseguenza è sempre quella della nullità della citazione o la inammissibilità del ricorso. [18]
3. Il verbale d'udienza, di regola, è redatto solo in forma riassuntiva. |
** L’art. 559 comma 2° c.p.p., dispone che nel procedimento davanti al tribunale in composizione monocratica “il verbale di udienza è redatto soltanto in forma riassuntiva se le parti vi consentono e il giudice non ritiene necessaria la redazione in forma integrale”. Nel procedimento dinanzi al giudice di pace, la regola è invece sempre quella della redazione in forma riassuntiva, per la quale non è previsto il preventivo consenso delle parti, salvo che il giudice non ritenga necessaria la verbalizzazione integrale.
4. La motivazione della sentenza è redatta dal giudice in forma abbreviata e depositata nel termine di quindici giorni dalla lettura del dispositivo. Il giudice può dettare la motivazione direttamente a verbale. |
** La ragione che sta alla base della redazione della sentenza in forma abbreviata è ancora una volta la considerazione che la materia attribuita alla cognizione del giudice di pace è estremamente semplice, per cui la Relazione precisa che “la nuova formula normativa intende indicare una tecnica di redazione ispirata a criteri di brevità e chiarezza, evitandosi sovrabbondanti esposizioni dello svolgimento del processo e digressioni non necessarie in punto di diritto, del tutto inappropriate in relazione alla natura e alla competenza penale del giudice di pace”. Il legislatore delegato, evidentemente al fine di prevenire alcune critiche alla disposizione in oggetto, ha voluto evidenziare come, del resto, la motivazione in forma abbreviata sia già prevista per le sentenze rese dal giudice amministrativo in alcune materie [19] , e come la Corte Costituzionale, chiamata a pronunciarsi in relazione alla sua legittimità, abbia ritenuto che tale disciplina non viola il diritto di difesa. [20]
La motivazione può essere dettata direttamente a verbale, oppure può essere depositata entro 15 giorni dalla lettura del dispositivo. Se tale termine non è rispettato, si applica l’art. 548 comma 2° c.p.p., per cui deve essere notificato a tutte le parti l’avviso di deposito della sentenza, con la conseguenza che il termine per l’impugnazione inizia a decorrere dal giorno in cui è stata eseguita tale notifica, ai sensi dell’art. 585 comma 2° lett. c) c.p.p.
5. In caso di impedimento del giudice la sentenza è sottoscritta dal presidente del tribunale, previa menzione della causa di sostituzione. |
** La sostituzione del giudice di pace con il presidente del tribunale, è giustificata dal fatto che quest’ultimo è l’organo al quale spetta anche l’esercizio della sorveglianza sui giudici di pace del circondario, come stabilisce la delega disposta con delibera del Consiglio Superiore della Magistratura in data 25.05.1995, ai sensi dell’art. 16 della legge del 1991 n. 374.
Si è opportunamente precisato, che la surroga del presidente del tribunale nella materiale sottoscrizione, può intervenire validamente solo allorché la motivazione della sentenza (quanto meno in minuta), sia stata estesa dal giudice che l’ha emessa e pubblicata mediante lettura del dispositivo. In difetto della stesura della motivazione, il sopravvenuto, assoluto impedimento del giudice, determinerà la nullità della sentenza stessa, a norma del combinato disposto degli articoli 125 comma 3° e 546 comma 3° c.p.p., per totale carenza di sottoscrizione e di motivazione, senza che sia possibile una attività integrativa del presidente del tribunale. Tale attività integrativa infatti, dovrebbe estendersi non solo all’adempimento materiale della sottoscrizione, ma alla stessa fase deliberativa, configgendo in tal caso con il principio dell’immutabilità del giudice ex art. 525 c.p.p., che si riflette anche nella fase della redazione della motivazione, se non redatta contestualmente. La norma in esame sarà quindi applicabile solo all’ipotesi di decisione completa in tutti i suoi elementi (in primis, dispositivo e motivazione), priva solo della materiale sottoscrizione del giudice, nei casi in cui a tale adempimento materiale il giudice stesso sia temporaneamente (assenza per malattia o ferie o simili) o assolutamente impossibilitato ad attendere. [21]
** La disciplina delle sanzioni penali applicabili dal giudice di pace contiene importanti novità, essendo a tale giudice attribuita la possibilità di irrogare oltre alla tradizionale pena pecuniaria anche le nuove sanzioni della permanenza domiciliare (art. 53 d. lgs) e del lavoro di pubblica utilità (art. 54 d. lgs.), nell’ipotesi in cui il reato sia edittalmente punito con la pena detentiva, sola, alternativa o congiunta alla pena pecuniaria. Nonostante il sistema sanzionatorio sia disciplinato dagli artt. 52 e seguenti del decreto legislativo, il legislatore delegato ha dovuto anticipare in parte la disciplina di tali sanzioni nel capo IV relativo al giudizio, al fine di fissare il momento temporale in cui queste vengono irrogate.
Mentre la condanna alla pena della permanenza domiciliare è rimessa alla discrezionalità del giudice, la condanna alla pena del lavoro di pubblica utilità si ha solo su richiesta dell’imputato, per cui si è posto il problema di individuare il preciso momento temporale in cui l’imputato potesse esprimere le sue intenzioni. Questo momento, come precisa la stessa Relazione, non poteva con tutta evidenza essere stabilito prima della deliberazione della sentenza, perché in tal modo la richiesta dell’imputato avrebbe avuto il valore di una ammissione di responsabilità. Si è quindi fissato tale momento subito dopo la lettura del dispositivo della sentenza di condanna.
Quando si hanno reati puniti con pene alternative, il giudice di pace deve determinare la pena da applicare sulla base dei criteri indicati dagli artt. 132 ss. c.p. Se decide per l’applicazione della pena pecuniaria, la sentenza di condanna segue il modello ordinario previsto dalla normative codicistica. Qualora invece il giudice di pace ritenga di dover applicare pene non pecuniarie, la sentenza di condanna è disciplinata dall’art. 33 d. lgs. Questa disposizione trova pertanto applicazione solo se il giudice opti per l’irrogazione di pene non pecuniarie, ed in essa è prevista la possibilità per l’imputato di scegliere le modalità esecutive della pena (comma 1°), nonché la possibilità di scegliere il tipo di pena tra le due alternative proposte dal giudice (comma 2°).
Art.
33. 1. Subito dopo la pronuncia della sentenza di condanna alla pena della permanenza domiciliare, l'imputato o il difensore munito di procura speciale possono chiedere l'esecuzione continuativa della pena. |
** La prima ipotesi è che il giudice di pace abbia deciso per la condanna alla pena della permanenza domiciliare senza possibilità che questa sia sostituita, su richiesta espressa dell’imputato, dalla pena del lavoro di pubblica utilità. (La Relazione parla a questo proposito di applicazione “secca” della pena ). In tal caso, la volontà dell’imputato può solo rilevare per ciò che riguarda l’esecuzione della pena, in quanto può chiedere che essa venga eseguita continuativamente. Infatti, a norma dell’art. 53 comma 1° d. lgs., la permanenza domiciliare comporta l’obbligo di rimanere presso la propria abitazione o in altro luogo di privata dimora, ovvero in luogo di cura, di assistenza o accoglienza nei giorni di sabato e domenica. L’imputato però, al fine di scontare tale pena il più rapidamente possibile, può chiedere che venga eseguita di seguito e non solo in tali giorni. Non è detto però che il giudice di pace disponga tale esecuzione continuativa, in quanto l’art. 53 comma 1° d. lgs, prevede che “il giudice, avuto riguardo alle esigenze familiari, di lavoro, di studio o di salute del condannato, può disporre che la pena venga eseguita in giorni diversi della settimana ovvero, a richiesta del condannato, continuativamente”, per cui la concessione dell’esecuzione continuativa non è obbligatoria, ma frutto di un potere discrezionale del giudice.
2. Il giudice, se ritiene di poter applicare in luogo della permanenza domiciliare la pena del lavoro di pubblica utilità, indica nella sentenza il tipo e la durata del lavoro di pubblica utilità che può essere richiesto dall'imputato o dal difensore munito di procura speciale. |
** La seconda ipotesi è che il giudice di pace ritenga possibile l’applicazione, in alternativa, o della permanenza domiciliare, o del lavoro di pubblica utilità: in questo caso, la sentenza vede affiancate le due sanzioni, di modo che l’imputato può limitarsi a chiedere l’esecuzione continuativa della pena della permanenza domiciliare, rifiutando così, anche se implicitamente, di sostituirla, oppure può chiedere espressamente che la permanenza domiciliare venga sostituita con il lavoro di pubblica utilità.
La richiesta di sostituzione, deve avvenire da parte dell’imputato o del difensore munito di procura speciale subito dopo la pronuncia della sentenza di condanna. Ove la richiesta sia stata fatta, il giudice di pace non può esimersi dal concederla, avendo lo stesso ritenuto in sede di dispositivo che fosse possibile l’applicazione, in alternativa, o della permanenza domiciliare, o del lavoro di pubblica utilità. Secondo la Relazione, “la circostanza che la sentenza veda affiancate le due sanzioni, discende dalla necessità di rendere completa la pronuncia di condanna: l’applicazione del lavoro sostitutivo postula la richiesta dell’imputato e, di conseguenza, la pena della permanenza domiciliare trova applicazione quando difetta la richiesta di irrogazione del lavoro sostitutivo. Ne deriva che quest’ultima sanzione non ha natura di pena sostitutiva della permanenza domiciliare, ma tuttavia la sua alternatività operativa con la permanenza domiciliare dipende dal fatto che la richiesta dell’imputato funge da condizione necessaria per la sua applicazione”.
3. Nel caso in cui l'imputato o il difensore formulino le richieste di cui ai commi 1 e 2, il giudice può fissare una nuova udienza a distanza di non più di dieci giorni, sempre che sussistano giustificati motivi. |
** Le richieste di esecuzione continuativa della permanenza domiciliare e della sostituzione ad essa della pena del lavoro di pubblica utilità, devono intervenire subito dopo la lettura del dispositivo oppure, se sussistono giustificati motivi, in una udienza successiva, su richiesta dell’imputato o del suo difensore munito di procura speciale; tale udienza non può però tenersi a distanza maggiore di 10 giorni. Per la Relazione, la possibilità di rinvio si fonda sulla necessità di tenere comunque conto delle esigenze dell’imputato, chiamato a soppesare le ricadute della scelta in rapporto alla sua vita professionale, familiare, ecc. Pur non mancando una opinione contraria [22] , non sembra pertanto possibile ricomprendere tra i giustificati motivi l’ipotesi in cui l’imputato sia contumace ed il suo difensore privo di procura speciale, proprio perché il rinvio ad un’altra udienza ai fini della decisione definitiva, deve dipendere da giustificato motivo, e la contumacia dell’imputato accompagnata dalla mancanza di procura speciale del difensore non possono essere considerate tali.
Quando l’imputato o il suo difensore non avanzino alcuna richiesta, resta ferma la funzionalità e l’efficacia del dispositivo di sentenza letto subito dopo la chiusura del dibattimento: a questo proposito, sarà sufficiente attestare nel verbale che, dopo la pronuncia della sentenza, non vi è stata alcuna richiesta dell’imputato.
4. Acquisite le richieste, il giudice integra il dispositivo della sentenza e ne dà lettura. |
Capo
V |
** Il capo V del decreto legislativo (artt. 34 e 35), disciplina le varie ipotesi di definizioni alternative del procedimento, in pieno rispetto delle direttive di cui all’art. 17 comma 1° della legge delega lett. f) ed h), nelle quali si prevede “l’introduzione di un meccanismo di definizione del procedimento nei casi di particolare tenuità del fatto e di occasionalità della condotta, quando l’ulteriore corso del procedimento può pregiudicare le esigenze di lavoro, di studio, di famiglia o di salute della persona sottoposta ad indagini o dell’imputato”, nonché “la previsione di ipotesi di estinzione del reato conseguenti a condotte riparatorie o risarcitorie del danno”. Sulla base di tali criteri, sono stati quindi previsti due nuovi istituti: l’esclusione della procedibilità nei casi di particolare tenuità del fatto (art. 34 d. lgs.), e l’estinzione del reato conseguente a condotte riparatorie (art. 35 d. lgs.).
** L’istituto della particolare tenuità del fatto, risponde alla forte esigenza di deflazione del sistema penale che, come più volte ribadito, costituisce una delle ragioni che hanno dato luogo alla riforma in oggetto. Tale meccanismo di definizione del procedimento, rappresenta una vera e propria novità nell’ambito dell’ordinamento penale comune [23] , nel cui successo pratico il legislatore mostra di aver riposto notevoli speranze al fine di una più ampia applicazione futura. [24] Infatti, benché l’ipotesi della speciale tenuità del fatto sia già presa in considerazione quale circostanza attenuante ex art. 62 n. 4 c.p. nei delitti contro il patrimonio, nonché quale attenuante per il delitto di ricettazione ex art. 648 comma 2° c.p., mai fino ad ora era stata prevista quale causa di improcedibilità; solo nell’ambito del processo minorile, la “tenuità del fatto e la occasionalità del comportamento” comportano un effetto simile a seguito di sentenza di non luogo a procedere, ma tale normativa costituisce, come è noto, una legislazione con caratteristiche del tutto particolari, data la sua preponderante funzione di recupero sociale del minore.
Le ragioni sistematiche che hanno portato all’introduzione nell’ordinamento penale comune dell’istituto della tenuità dell’illecito quale causa di improcedibilità, si basano sulla considerazione che vi sono determinati fatti che, pur qualificabili come tipici, antigiuridici e colpevoli, sono altresì caratterizzati dalla produzione di un’offesa talmente esigua da non giustificare l’esercizio dell’azione penale. Chiarisce in proposito la Relazione, come non debba confondersi il fatto totalmente inoffensivo dal fatto che provoca offesa esigua. Mentre il primo dà luogo ad una ipotesi di “tipicità apparente in cui il fatto si rivela sostanzialmente e completamente inoffensivo verso il bene tutelato”, esempio ne è il reato impossibile di cui all’art. 49 c.p., il secondo invece causa un’offesa anche se di lieve entità, la quale tuttavia non giustifica l’esercizio dell’azione penale. Il reato è quindi perfetto in tutti i suoi elementi costitutivi; è il fatto ad essere caratterizzato dalla tenuità. Pertanto, “non è la fattispecie astratta di reato a risultare bagatellare, ma la sottofattispecie concreta”. La stessa Relazione prosegue riportando l’esempio del reato di lesioni personali di cui all’art. 582 c.p. devoluto alla competenza del giudice di pace: “la fattispecie incriminatrice astratta non può certo dirsi bagatellare, perché sanziona comportamenti meritevoli di sanzione penale; e, tuttavia, possono darsi, in concreto, fatti di lesione contrassegnati da una particolare tenuità di disvalore (derivante dalla esiguità dell’offesa e della colpevolezza) che non giustificano, in questo caso, l’esercizio dell’azione penale”.
Art.
34. 1. Il fatto è di particolare tenuità quando, rispetto all'interesse tutelato, l'esiguità del danno o del pericolo che ne è derivato, nonché la sua occasionalità e il grado della colpevolezza non giustificano l'esercizio dell'azione penale, tenuto conto altresì del pregiudizio che l'ulteriore corso del procedimento può recare alle esigenze di lavoro, di studio, di famiglia o di salute della persona sottoposta ad indagini o dell'imputato. |
** La disposizione introduce più parametri, che devono tutti essere cumulativamente presenti, affinché possa dirsi sussistente la particolare tenuità del fatto e per poter conseguentemente far decidere al giudice di pace che l’esercizio dell’azione penale o il proseguimento del procedimento non sono giustificati.
1. Esiguità del danno o del pericolo. Trattasi di un parametro avente natura oggettiva che rappresenta il primo indice rivelatore della tenuità del fatto, di modo che, pur dovendo tutti i parametri essere cumulativamente presenti, la valutazione che il danno all’interesse protetto o la sua messa in pericolo è esigua, deve essere effettuata per prima. Tipici esempi possono essere i reati contro il patrimonio che abbiano causato un danno particolarmente tenue e le ipotesi di attacchi al bene dell’integrità fisica che abbiano prodotto solo delle microlesioni.
2. Occasionalità della condotta. Secondo la Relazione, tale ulteriore requisito assume un indiscusso rilievo sul terreno della politica criminale, con particolare riguardo alle esigenze di prevenzione speciale, dato che una serie di fatti scarsamente lesivi può spesso sancire l’inizio di una carriera criminale. Si esclude, quindi, che il fatto bagatellare consumato da un autore “non bagatellare” possa dare luogo ad improcedibilità perché, anche se il fatto è esiguo, manca l’occasionalità della condotta, ed anzi, la sua reiterazione costituisce spia della capacità a delinquere. Argomentando da tali considerazioni, si può pertanto ritenere che occasionalità della condotta non significa condotta unica, perché se così fosse, l’occasionalità dovrebbe escludersi ogni qual volta si versi in concorso formale di reati o in continuazione a norma dell’art. 81 c.p., ma significa condotta non sistematica, di modo tale che l’occasionalità della condotta deve essere esclusa ogni volta che si versi in ipotesi di recidiva.
3. Grado della colpevolezza. Tale parametro riguarda l’intensità del dolo o il grado della colpa, quali criteri espressamente previsti dall’art. 133 comma 1° n. 3 c.p. per la valutazione della gravità del reato agli effetti della pena. In questo caso il giudizio di esiguità possiede una portata più facilmente riconoscibile, come ad esempio quando si hanno ipotesi di dolo d’impeto, di dolo eventuale, di colpa lieve o l’esistenza di situazioni “semiscusanti”.
4. Il possibile pregiudizio che l’ulteriore corso del procedimento può recare alle esigenze di lavoro, di studio, di famiglia o di salute della persona sottoposta ad indagini o dell’imputato. Quest’ultimo parametro, è indubbiamente quello che ha comportato maggiori problemi; pur essendo perfettamente corrispondente alla direttiva di cui all’art. 17 comma 1° lett. f) della legge delega, il Governo, nel trasmettere al Parlamento il primo testo del decreto legislativo come approvato dal Consiglio dei Ministri nella seduta del 23 giugno 2000, rilevava come dalla attuazione di tale criterio potessero derivare alcuni problemi.
In primo luogo, tale parametro poteva dirsi in contrasto con l’art. 3 della Costituzione relativo al principio di uguaglianza, in quanto il riferimento alle esigenze di lavoro, di studio, di famiglia, o di salute dell’autore del reato, avrebbe potuto risolversi in una discriminazione verso quei soggetti che non possono vantare l’attualità di simili esigenze, perché disoccupati, o privi di un nucleo familiare o che non hanno esigenze di studio. La riproposizione puntuale del criterio di delega, secondo il Governo, avrebbe potuto comportare una discriminante di natura sociale tra soggetti “marginali” e “non”, con la conseguente estromissione di questi ultimi dalla sfera applicativa della causa di improcedibilità. Pensando, ad esempio, al caso di un autore di reato privo di famiglia e di occupazione, lo sviluppo del procedimento non avrebbe potuto in alcun modo alimentare una proiezione sociale negativa, dirigendosi verso un soggetto che, volontariamente o involontariamente, si trova già al di fuori dei più importanti circuiti relazionali. Una simile discriminante, sarebbe stata così contrastante con il principio di uguaglianza, atteso che l’estensione del meccanismo deflativo avrebbe finito con il dipendere dalla collocazione sociale dell’autore del reato.
In secondo luogo, sempre secondo il Governo, occorreva considerare che i reati di competenza del giudice di pace sono di modesta o scarsa gravità, insuscettibili di riverberare effetti desocializzanti o negativi verso l’indagato, per cui non è questa di sicuro l’area delle incriminazioni in cui lo stigma penale raggiunge i suoi maggiori effetti.
In ultima analisi, l’apparato sanzionatorio previsto per i reati di competenza del giudice di pace (in cui viene bandito il ricorso alla pena detentiva) ed il diverso regime delle iscrizioni al casellario, restituiscono l’immagine di un diritto penale “mite”, depotenziato nello stigma e nelle proiezioni sociali negative tradizionalmente insiti nella sanzione penale e nel procedimento deputato alla sua applicazione.
Sulla base di tali considerazioni, la Commissione Giustizia della Camera sollecitava nel suo parere l’estromissione di questa parte della disposizione. Diversamente, la Commissione Giustizia del Senato, affermava invece che non si potevano ravvisare tali sospetti di incostituzionalità, in quanto, “anche il soggetto che non ha famiglia, studi in corso o lavoro, ben può ricevere pregiudizio dalla prosecuzione del procedimento: vuoi perché proprio la sua povertà di relazioni sociali lo rende più vulnerabile dalle sanzioni, vuoi perché il processo può comunque nuocergli nella prospettiva di conseguire un lavoro ed in genere di realizzare una maggiore integrazione sociale”.
A seguito di tale ultimo parere, il Governo ha quindi deciso di non eliminare il parametro in oggetto, precisando però che “nella disposizione dell’art. 34 d. lgs., le esigenze di lavoro, di studio, di famiglia o di salute dell’imputato costituiscono un criterio di valutazione ulteriore ed integrativo per il giudice (tanto che nella disposizione si afferma che occorre altresì tenere conto delle esigenze di lavoro), e non già una condizione ineludibile per il riconoscimento della particolare tenuità del fatto. L’improcedibilità rimane così saldamente ancorata a presupposti oggettivi e soggettivi (la tenuità dell’illecito e la sua occasionalità) rispetto ai quali il riferimento alle ripercussioni del procedimento sulle condizioni di vita dell’autore fornisce un ulteriore ma non decisivo, contributo alla chiarificazione”.
2. Nel corso delle indagini preliminari, il giudice dichiara con decreto d'archiviazione non doversi procedere per la particolare tenuità del fatto, solo se non risulta un interesse della persona offesa alla prosecuzione del procedimento. |
** Alla declaratoria di non doversi procedere per irrilevanza del fatto si perviene diversamente a seconda che l’azione penale non sia stata ancora esercitata, per cui la fase è ancora quella delle indagini preliminari, o che invece sia stata già esercitata. Nel primo caso, su richiesta del pubblico ministero, a norma dell’art. 17 comma 1° d. lgs., spetta al giudice di pace individuato ai sensi dell’art. 5 comma 2 d. lgs., ossia al giudice di pace circondariale (giudice di pace del luogo ove ha sede il tribunale del circondario in cui è compreso il giudice territorialmente competente), dichiarare di non doversi procedere per la particolare tenuità del fatto mediante decreto d’archiviazione.
Tale pronuncia è però subordinata al fatto che non vi sia un interesse della persona offesa alla prosecuzione del procedimento. E’ opportuno precisare che, nonostante il tenore della disposizione in esame mostri di tenere in debito conto anche l’interesse della persona offesa, dalla sua formulazione si ricava come questo nella sostanza sia ben poco tutelato, e come pertanto spetti alla persona offesa articolare il proprio atto di querela, in modo tale da far dedurre un suo interesse alla prosecuzione del procedimento. Non essendovi infatti un dovere per il giudice di sentire la persona offesa, né l’indicazione di casi concreti dai quali poter dedurre un interesse di questa alla prosecuzione del procedimento, sarà opportuno fin dalla proposizione della querela, che questa contenga la dichiarazione di opposizione alla definizione anticipata del procedimento per tenuità del fatto. In ogni caso, l’atto di querela dovrà, come sempre, contenere altresì la richiesta della persona offesa di essere informata in ipotesi di richiesta di archiviazione, al fine di poter esprimere in qualche modo al giudice il suo interesse alla prosecuzione del procedimento perché, in mancanza, non potrebbe sapere della richiesta di archiviazione del pubblico ministero e del successivo decreto di archiviazione del giudice di pace.
Secondo l’opinione prevalente, la richiesta di archiviazione può essere formulata dal pubblico ministero anche quando, dopo la presentazione del ricorso immediato al giudice da parte della persona offesa, con la formulazione delle proprie richieste ex art. 25 d. lgs., abbia espresso parere contrario al ricorso, formulando contestualmente richiesta di archiviazione per la particolare tenuità del fatto. [25]
3. Se è stata esercitata l'azione penale, la particolare tenuità del fatto può essere dichiarata con sentenza solo se l'imputato e la persona offesa non si oppongono. |
** Quando è già stata esercitata l’azione penale, la declaratoria di non doversi procedere per irrilevanza del fatto è pronunciata dal giudice di pace con sentenza. Essa però è subordinata alla mancanza di opposizione dell’imputato o della persona offesa. La previsione della possibilità per l’imputato di opporsi è giustificata dal fatto che questi può ritenere essenziale la prosecuzione del procedimento in vista di un esito processuale più favorevole nel merito. Come precisa la Relazione, “occorre riconoscere all’imputato la possibilità di ottenere una sentenza di proscioglimento nel merito, atteso che il non luogo a procedere per la particolare tenuità del fatto può comunque incidere, in futuro, sulla valutazione della occasionalità del fatto che, come è noto, costituisce uno degli elementi costitutivi della condizione di procedibilità”.
Per ciò che riguarda invece la possibilità di opposizione concessa alla persona offesa, la Relazione si sofferma ampiamente sul punto, affermando come in primo luogo essa si giustifichi in quanto si è voluto riconoscere una autonoma dignità agli interessi della parte offesa. Infatti, poiché, come più volte sottolineato, i reati devoluti alla competenza del giudice di pace sono caratterizzati per lo più da microconflittualità individuale di modo tale che, pur non gravi, sono comunque tali da alimentare ragioni di disagio nei rapporti interindividuali e tali quindi da poter sfociare in illeciti più gravi, si è ritenuto opportuno che la domanda di processo si arresti solo se la persona offesa manifesti un sostanziale disinteresse alla prosecuzione del procedimento: disinteresse che, in larga misura, può costituire la spia di un conflitto ormai sedato, o attraverso forme di riparazione o, più semplicemente, per intimo convincimento. Inoltre, riconoscere gli interessi della persona offesa, evita altresì che si possa pervenire a prassi sostanzialmente abrogative di illeciti penali attraverso l’eccessivo ricorso alla causa di improcedibilità, che provocherebbe preoccupanti effetti di denegata giustizia nei confronti delle vittime, costrette a ricorrere ai rimedi offerti dalla giustizia civile, i cui tempi, come si sa, non sono sempre solleciti nel corrispondere alle esigenze di giustizia del privato.
** La seconda fattispecie di definizione alternativa del procedimento è data dall’estinzione del reato conseguente a condotte riparatorie. Molteplici sono le disposizioni legislative in cui viene presa in considerazione la condotta riparatoria dell’autore dell’illecito [26] : tuttavia, in riferimento ai reati devoluti alla competenza del giudice di pace, la sostanziale differenza è che qui la condotta riparatoria non assume valore limitato ai soli fini della pena, bensì costituisce vera e propria causa estintiva del reato.
Nello schema di decreto legislativo che il Governo aveva trasmesso al Parlamento per il parere di cui all’art. 21 comma 1° della legge delega, l’operatività dell’istituto era di portata estremamente ridotta, perché limitata ai reati di competenza del giudice di pace diversi da quelli perseguibili a querela; questo, per la ragione che in questi ultimi, la previsione di tale causa estintiva del reato, avrebbe dato luogo ad una “potestà di scavalcamento” del giudice di pace della volontà punitiva manifestata dal privato. Sulla base del parere della Commissione Giustizia del Senato [27] , il legislatore delegato ha poi opportunamente eliminato tale previsione, per cui si è stabilito che la causa di estinzione del reato di cui all’art. 35 d. lgs. è applicabile a tutti i reati di competenza del giudice di pace.
Art.
35. 1. Il giudice di pace, sentite le parti e l'eventuale persona offesa, dichiara con sentenza estinto il reato, enunciandone la causa nel dispositivo, quando l'imputato dimostra di aver proceduto, prima dell'udienza di comparizione, alla riparazione del danno cagionato dal reato, mediante le restituzioni o il risarcimento, e di aver eliminato le conseguenze dannose o pericolose del reato. |
** E’ opportuno rilevare innanzitutto, come il legislatore abbia previsto uno sbarramento temporale per la rilevanza della riparazione ai fini dell’estinzione del reato, stabilendolo all’udienza di comparizione: l’imputato deve quindi aver effettuato la riparazione, dandone dimostrazione, prima di tale momento. La preclusione si giustifica non solo a causa delle esigenze deflative: queste infatti, non sarebbero state attuate nell’ipotesi in cui fosse stato previsto il meccanismo dell’estinzione del reato conseguente a condotte riparatorie in una fase ormai avanzata del processo, ma anche perché si vuole evitare una condotta opportunistica dell’imputato, il quale, senza tale sbarramento temporale, avrebbe potuto decidersi alla riparazione, in ipotesi di previsione di un esito a lui sfavorevole del processo, solo a seguito dell’istruzione dibattimentale.
Il presupposto dell’estinzione del reato è dato dalla riparazione del danno cagionato, mediante le restituzioni o il risarcimento, ovvero, nel caso di illeciti che hanno causato danno non risarcibile a livello economico, di aver eliminato le conseguenze dannose o pericolose del reato. Si è opportunamente notato che, nell’ipotesi di danno patrimoniale o non patrimoniale ma risarcibile economicamente, la riparazione deve essere integrale, nonostante la norma non richieda formalmente tale requisito, dovendosi essa ritenere una condizione implicita ed essenziale per l’operatività della causa estintiva. Nell’ambito di danni non risarcibili economicamente, la formula della legge è invece inequivoca nel prevedere un’opera del reo “positiva ed integrale”, nell’eliminazione delle conseguenze del reato (“aver eliminato”), con ciò discostandosi dall’art. 62 n. 6 c.p. in cui, per l’applicazione della circostanza attenuante, si ritiene sufficiente l’impegno serio e concreto del soggetto nella direzione dell’attenuazione delle conseguenze della condotta criminosa, anche se il risultato positivo non sia stato raggiunto che parzialmente [28] .
Il giudice di pace, prima di pronunciare la sentenza con la quale dichiara estinto il reato, deve sentire le parti e l’eventuale persona offesa; tuttavia, nessuna vincolatività è attribuita al parere di queste ultime, essendo lasciata interamente al potere discrezionale del giudice, laddove naturalmente vi siano i presupposti richiesti dalla norma, la valutazione circa l’integralità della riparazione del danno o dell’eliminazione delle conseguenze del reato.
2. Il giudice di pace pronuncia la sentenza di estinzione del reato di cui al comma 1, solo se ritiene le attività risarcitorie e riparatorie idonee a soddisfare le esigenze di riprovazione del reato e quelle di prevenzione. |
** Nonostante vi sia una riparazione del danno o una eliminazione delle conseguenze del reato positiva e totale, il giudice può decidere di non pronunciare la sentenza estintiva del reato nell’ipotesi in cui ritenga che le attività risarcitorie o riparatorie non siano comunque idonee a soddisfare le esigenze di riprovazione del reato e quelle di prevenzione. Tale disposizione si giustifica per il fatto che, come afferma la Relazione, “l’esistenza di un meccanismo estintivo interamente fondato sulla realizzazione di condotte riparatorie, di cui pure si deve apprezzare la congruità, rischia di fomentare una sorta di monetizzazione della responsabilità penale, vale a dire una comoda e talvolta giustificata fuoriuscita dal sistema punitivo”.
In base alle esigenze di riprovazione del reato, può accadere che il giudice ritenga l’attività risarcitoria o riparatoria inidonea a compensare la gravità della condotta criminosa in quanto il reato si è rivelato di estrema gravità e particolarmente insidioso per la vittima. Per ciò che riguarda invece le esigenze di prevenzione, il giudice potrà ritenere l’attività risarcitoria o riparatoria inidonea a prevenire il ripetersi della condotta criminale in quanto il reo dimostra una spiccata capacità a delinquere.
3. Il giudice di pace può disporre la sospensione del processo, per un periodo non superiore a tre mesi, se l'imputato chiede nell'udienza di comparizione di poter provvedere agli adempimenti di cui al comma 1 e dimostri di non averlo potuto fare in precedenza; in tal caso, il giudice può imporre specifiche prescrizioni. |
** Siamo in presenza di una ipotesi di remissione in termini nel caso in cui l’imputato non abbia potuto effettuare, pur volendo, l’attività risarcitoria o riparatoria prima dell’udienza di comparizione. Su richiesta dell’imputato, il giudice può quindi disporre la sospensione del processo per un periodo non superiore a tre mesi, potendo anche imporre, laddove lo ritenga opportuno, specifiche prescrizioni.
4. Con l'ordinanza di sospensione, il giudice incarica un ufficiale di polizia giudiziaria o un operatore di servizio sociale dell'ente locale di verificare l'effettivo svolgimento delle attività risarcitorie e riparatorie, fissando nuova udienza ad una data successiva al termine del periodo di sospensione. 5. Qualora accerti che le attività risarcitorie o riparatorie abbiano avuto esecuzione, il giudice, sentite le parti e l'eventuale persona offesa, dichiara con sentenza estinto il reato enunciandone la causa nel dispositivo. 6. Quando non provvede ai sensi dei commi 1 e 5, il giudice dispone la prosecuzione del procedimento. |
** Sempre in tema di estinzione del reato conseguente a condotte riparatorie, è opportuno precisare come tale istituto risulti compatibile con l’altra causa di estinzione del reato rappresentata dall’oblazione di cui agli artt. 162 e 162 bis c.p. e disciplinata all’art. 29 comma 6° d. lgs.
Infatti, l’ambito di operatività dell’oblazione sarà dato dalle contravvenzioni punite con la sola pena dell’ammenda; per ciò che riguarda le contravvenzioni punite con pena alternativa, si potrà avere oblazione solo quando non permangono le conseguenze dannose o pericolose del reato. Nell’ipotesi in cui si abbiano contravvenzioni in cui permangono le conseguenze dannose o pericolose del reato e delitti, potrà operare la causa di estinzione del reato prevista all’art. 35 d. lgs. [29]
** Il Capo VI del decreto legislativo (artt. 36-39), regola la materia delle impugnazioni delle sentenze penali emesse dal giudice di pace. La legge delega, poneva alcune direttive in proposito: all’art. 17 comma 1° lett. n), la “previsione della appellabilità delle sentenze emesse dal giudice di pace, ad eccezione di quelle che applicano la sola pena pecuniaria e di quelle di proscioglimento relative ai reati puniti con la sola pena pecuniaria”; alla lettera o) del medesimo articolo, la “previsione della non appellabilità da parte dell’imputato delle sentenze di non luogo a procedere e di proscioglimento con le quali sia stato dichiarato che il fatto non sussiste o che l’imputato non lo ha commesso”. Si stabiliva altresì, all’art. 19, la competenza per il grado di appello, di modo che “sulle impugnazioni proposte avverso le sentenze ed i provvedimenti penali del giudice di pace è competente il tribunale nel cui circondario ha sede l’ufficio del giudice di pace”.
La stessa legge delega, attraverso l’art. 18, modificava inoltre il comma 3° dell’art. 593 c.p.p., stabilendo l’inappellabilità delle sentenze di condanna relative a reati per i quali è stata applicata la sola pena pecuniaria e l’inappellabilità delle sentenze di proscioglimento o di non luogo a procedere relative ai reati puniti con la sola pena pecuniaria o con pena alternativa. Si erano in tal modo creati, però, per ciò che riguardava le sentenze di proscioglimento, due diversi parametri individuativi della inappellabilità delle sentenze; l’uno, previsto all’art. 17 comma 1° lett. n) in cui l’appellabilità era più ampia, l’altro, quello di cui al modificato art. 593 comma 3° c.p.p., in cui si prevedeva l’inappellabilità anche per le sentenze di proscioglimento relative ai reati puniti anche con pena alternativa.
Il legislatore delegato ha risolto questo contrasto, dando prevalenza alla disposizione di cui all’art. 17 comma 1° lett. n) della legge delega in quanto quest’ultima, relativa proprio all’appellabilità delle sentenze emesse dal giudice di pace, deve prevalere, quale disposizione speciale, su quella generale di cui all’art. 593 comma 3° c.p.p. La Relazione inoltre, giustifica il regime di maggiore appellabilità delle sentenze di proscioglimento emesse dal giudice di pace, in considerazione della natura non professionale di questo giudice e nella particolare semplificazione del procedimento, di modo tale che “di fronte ad un giudizio di primo grado connotato da tali elementi è apparso opportuno ampliare le possibilità di appello dinanzi al giudice professionale”.
Un altro problema che il legislatore delegato ha dovuto porsi in tema di disciplina generale delle impugnazioni, era quello relativo alla possibilità di dettare delle regole anche in deroga alla disciplina contenuta nel codice di rito. Esso è stato risolto in senso positivo, affermando che la possibilità di derogare alla disciplina codicistica non è impedita dalla stessa legge delega, ma che, in ogni caso, la diversità di disciplina deve essere giustificata dalla specialità del rito processuale introdotto per il giudice di pace. Pertanto, per ciò che il capo VI non dispone, si applica la normativa generale di cui agli artt. 568 e segg. c.p.p. in forza al disposto di cui all’art. 2 comma 1° d. lgs., compreso il giudizio di revisione che qui non trova disciplina particolare.
Capo
VI Art.
36. 1. Il pubblico ministero può proporre appello contro le sentenze di condanna del giudice di pace che applicano una pena diversa da quella pecuniaria e contro le sentenze di proscioglimento per reati puniti con pena alternativa. |
** In relazione al potere di impugnazione del pubblico ministero, questi può appellare:
1. Le sentenze di condanna emesse dal giudice di pace che hanno applicato una pena diversa da quella pecuniaria;
2. le sentenze di proscioglimento relative a reati puniti con pena diversa da quella pecuniaria. In relazione a queste ultime, saranno quindi appellabili anche quelle con le quali è stato dichiarato il non doversi procedere nei casi di particolare tenuità del fatto ex art. 34 d. lgs. e l’estinzione del reato conseguente a condotte riparatorie ex art. 35 d. lgs., purché si tratti di sentenze riguardanti reati punite con pene alternative.
Per ciò che riguarda l’individuazione dell’organo dell’accusa legittimato a proporre appello, la nozione generica di cui all’art. 36 d. lgs “pubblico ministero”, ha dato luogo ad alcuni problemi. Nessun dubbio, che la legittimazione spetti al procuratore della Repubblica presso il tribunale ordinario avente sede nel capoluogo del circondario in cui si trova l’ufficio del giudice di pace che ha emesso la sentenza. Questi, non è vincolato alle conclusioni del pubblico ministero di udienza e può legittimamente proporre appello anche se non lo propone il pubblico ministero di udienza.
Tuttavia, poiché legittimato a proporre appello è, a norma dell’art. 570 comma 2° c.p.p., anche il pubblico ministero che in udienza ha formulato le conclusioni, considerato che l’art. 50 d. lgs. consente, su delega, la partecipazione all’udienza dibattimentale nonché la formulazione delle conclusioni anche al pubblico ministero onorario, ci si è chiesti se la legittimazione dell’impugnazione possa spettare anche a quest’ultimo.
A questo proposito, diverse sono le opinioni della dottrina. Da un lato, si sottolinea quell’orientamento negativo della giurisprudenza di legittimità la quale, pur rifacendosi al procedimento pretorile, ha affermato che “se il procuratore onorario che ha concluso all’udienza fosse legittimato ad impugnare il provvedimento che ha emesso il giudice si vedrebbe attribuita una funzione non contemplata dalla normativa speciale che delimita le sue attribuzioni funzionali”. [30] Dall’altro lato, c’è invece chi sostiene la legittimazione all’appello anche del pubblico ministero onorario sia sul disposto di cui all’art. 570 comma 2° c.p.p., sia sulla base dell’orientamento in tal senso di altra parte della giurisprudenza di legittimità. [31]
C’è invece unanimità nell’escludere, pur nel silenzio del decreto legislativo, la legittimazione ad appellare le sentenze penali emesse dal giudice di pace da parte del procuratore generale della Repubblica. La legge del 1984 n. 400, affidava alla corte d’appello, togliendola al tribunale, la competenza dell’appello contro le sentenze del pretore. Di conseguenza, si stabiliva la legittimazione del procuratore generale della Repubblica, ad appellare le sentenze del pretore. Poiché con il decreto legislativo in esame si è ripristinata la situazione normativa prevista prima di tale legge, in quanto la competenza dell’appello contro le sentenze del giudice di pace spetta al tribunale in composizione monocratica, appare logico ritenere che il procuratore generale non sia legittimato all’appello, ma che lo sia solo il procuratore della Repubblica presso il tribunale, in virtù del fatto che la corte d’appello, che è l’organo giudiziario presso cui il procuratore generale è costituito, non è giudice di secondo grado delle sentenze del giudice di pace.
2. Il pubblico ministero può proporre ricorso per cassazione contro le sentenze del giudice di pace. |
** Il pubblico ministero può proporre ricorso per cassazione contro le sentenze del giudice di pace, senza alcuna distinzione relativa alla loro appellabilità o meno. Anche per il ricorso in cassazione si ripropone lo stesso problema visto per l’appello in tema di legittimazione del pubblico ministero onorario, il quale viene risolto anche qui diversamente a seconda dei due opposti orientamenti della giurisprudenza di legittimità che si intendono seguire.
In relazione invece alla legittimazione del procuratore generale che per l’appello viene unanimemente esclusa, in sede di ricorso per cassazione le opinioni divergono. Infatti, da un lato si afferma che “è ragionevole escludere che al procuratore generale spetti il potere di presentare il ricorso per cassazione avverso le sentenze emesse dal giudice di pace, poiché l’art. 608 c.p.p. attribuisce tale potere al procuratore generale presso la corte d’appello solo con riferimento alle sentenze pronunciate in secondo grado o inappellabili”. [32] Quindi: visto che l’art. 36 comma 2° d. lgs. non fa distinzione tra appellabilità o meno delle sentenze del giudice di pace, consentendo al pubblico ministero di ricorrere sempre in cassazione avverso qualunque sentenza, mentre invece l’art. 608 c.p.p. consente al procuratore generale il ricorso solo per quelle inappellabili, quest’ultimo è ritenuto incompatibile con l’art. 36 comma 2° d. lgs.
L’opposta opinione ritiene invece che l’art. 608 c.p.p. sia applicabile, per cui il procuratore generale può proporre ricorso per cassazione contro ogni sentenza inappellabile pronunciata dal giudice di pace: in relazione quindi al procuratore generale si avrebbe pertanto una limitazione che non è invece prevista dall’art. 36 comma 2° d. lgs che invece consente un ricorso per cassazione nei confronti di qualunque sentenza emessa dal giudice di pace. In questo modo, si evita “l’anomala situazione di un potere di impugnazione concentrato nelle mani di un solo organo della pubblica accusa”. [33] Le motivazioni addotte a sostegno di tale seconda opinione non sono di poco conto. La mancata applicazione dell’art. 608 c.p.p., verrebbe a concentrare l’intero potere di gravame, di merito e di legittimità, solo nelle mani dell’organo dell’accusa di primo grado, “situazione questa tendenzialmente estranea al nostro sistema processuale e della quale non vi era traccia neanche nella pregressa regolamentazione dell’appello avverso le sentenze del pretore, nel periodo in cui tale appello era chiamato a giudicare il tribunale. In tale contesto operava infatti l’art. 527 c.p.p. (codice abrogato), che abilitava al ricorso per cassazione il procuratore generale e considerava irrilevante la circostanza che questi non fosse legittimato all’appello avverso le sentenze del pretore”.
Art.
37. 1. L'imputato può proporre appello contro le sentenze di condanna del giudice di pace che applicano una pena diversa da quella pecuniaria; può proporre appello anche contro le sentenze che applicano la pena pecuniaria se impugna il capo relativo alla condanna, anche generica, al risarcimento del danno. |
** L’imputato può proporre appello:
1. contro le sentenze di condanna del giudice di pace che applicano una pena diversa da quella pecuniaria;
2. contro le sentenze che applicano la pena pecuniaria, ma solo se impugna il capo relativo alla condanna, anche generica, al risarcimento del danno. Tale previsione non era inizialmente contenuta nello schema di decreto legislativo, ma è stata introdotta su sollecitazione della Commissione Giustizia del Senato. Il legislatore delegato ha accolto il suggerimento della Commissione non ritenendolo in contrasto con la direttiva della legge delega che stabilisce l’inappellabilità da parte dell’imputato delle sentenze che applicano la sola pena pecuniaria, in quanto tale direttiva ha lo scopo di sottrarre alla garanzia del secondo grado di merito le pronunce che rechino condanna alla sola pena pecuniaria, non anche quelle nelle quali sia statuita una ulteriore condanna, sia pur relativa all’azione civile. Afferma la Relazione, che, “mentre la non appellabilità delle sentenze che applicano la sola pena pecuniaria appare del tutto giustificata, in ragione della modesta concreta afflittività della sanzione, quando, esercitata in sede penale l’azione civile, la sentenza rechi condanna, anche generica, al risarcimento del danno (possibile per somme anche notevolmente superiori all’ordinario limite di competenza per valore del giudice di pace civile), consentire un secondo giudizio è apparsa una scelta opportuna.”
Non è stata data attuazione, invece, alla direttiva di cui all’art. 17 comma 1° lett. o) della legge delega, in cui si prevedeva l’appellabilità da parte dell’imputato delle sentenze di non luogo a procedere e di proscioglimento, per reati puniti con la pena alternativa, ad eccezione delle sentenze dichiarative che il fatto non sussiste o che l’imputato non lo ha commesso. Questo, perché, “attribuire all’imputato la facoltà di appellare tali sentenze risulta del tutto in contrasto con la riconosciuta inappellabilità delle sentenze di condanna per reati puniti con pena alternativa, quando sia stata applicata la pena pecuniaria. Paradossalmente, mentre nei casi di condanna, ove sicuramente maggiore è l’interesse dell’imputato al giudizio di secondo grado, la sentenza non è appellabile, in caso di proscioglimento, l’appello sarebbe consentito”. Quindi, contro le sentenze di proscioglimento, l’imputato può solo presentare ricorso per cassazione.
2. L'imputato può proporre ricorso per cassazione contro le sentenze di condanna del giudice di pace che applicano la sola pena pecuniaria e contro le sentenze di proscioglimento. |
** L’imputato può proporre ricorso per cassazione:
1. contro le sentenze di condanna del giudice di pace che applicano la sola pena pecuniaria;
2. contro le sentenze di proscioglimento. Per queste ultime, si tratta di una garanzia data allo scopo di ottenere una formula assolutoria maggiormente favorevole.
Art.
38. 1. Il ricorrente che ha chiesto la citazione a giudizio dell'imputato a norma dell'articolo 21 può proporre impugnazione, anche agli effetti penali, contro la sentenza di proscioglimento del giudice di pace negli stessi casi in cui è ammessa l'impugnazione da parte del pubblico ministero. |
** La persona offesa che ha presentato il ricorso immediato al giudice ex art. 21 d. lgs., è legittimata a proporre appello solo contro le sentenze di proscioglimento emesse dal giudice di pace e solo nelle ipotesi in cui l’appello può essere presentato dal pubblico ministero, ossia quando la sentenza di proscioglimento riguarda reati puniti con pena alternativa. In proposito, la Relazione afferma che “La disciplina in questione è sembrata un naturale effetto del regime delineato per la citazione diretta da parte della persona offesa. Al sostanziale esercizio di un diritto di azione, riconosciuto al ricorrente dalla disciplina introdotta dal decreto, non può non conseguire un diritto di impugnazione, anche agli effetti penali, avverso le sentenze emesse dal giudice di pace nel procedimento in questione che abbiano dichiarato l’infondatezza della prospettazione accusatoria”.
L’art. 577 c.p.p., prevede un istituto simile, in cui si riconosce alla persona offesa il diritto di impugnazione, anche agli effetti penali; pur tuttavia, pur essendo tale potere previsto non solo per le sentenze di proscioglimento ma anche per quelle di condanna, esso è limitato ai soli reati di ingiuria e diffamazione e condizionato alla costituzione di parte civile della persona offesa. Nel procedimento dinanzi al giudice di pace invece, l’impugnazione del ricorrente è possibile per tutti i reati perseguibili a querela e senza la condizione che lo stesso si sia costituito parte civile. Quest’ultimo punto ha però suscitato in dottrina delle preoccupazioni: si è detto che in tal modo il legislatore “ha fatto venir meno un elemento di indubbia rilevanza per misurare il reale interesse all’impugnazione”, di modo tale che l’impugnazione può “trasformarsi in uno strumento di non sempre limpidi condizionamenti, specie in relazione all’impiego che possa farsene nell’ambito dell’appello incidentale”. [34]
La norma nulla dispone circa la possibilità di proporre impugnazione da parte della persona offesa non ricorrente, che sia però intervenuta in giudizio costituendosi parte civile prima della dichiarazione di apertura del dibattimento, a norma dell’art. 28 d. lgs. Poiché però l’art. 28 al comma 1° d. lgs. stabilisce che le persone offese intervenute hanno gli stessi diritti che spettano al ricorrente principale, nulla osta a che sia consentita anche alle persone offese intervenute la legittimazione all’impugnazione.
2. Con il provvedimento che rigetta o dichiara inammissibile l'impugnazione, il ricorrente è condannato alla rifusione delle spese processuali sostenute dall'imputato e dal responsabile civile. Se vi è colpa grave, il ricorrente può essere condannato al risarcimento dei danni causati all'imputato e al responsabile civile. |
** Nell’ipotesi in cui l’impugnazione venga rigettata o sia dichiarata inammissibile, il ricorrente è condannato alla rifusione delle spese processuali sostenute dall’imputato e dal responsabile civile; inoltre, se risulta provata la colpa grave, il ricorrente può essere condannato al risarcimento dei danni causati all’imputato e al responsabile civile. E’ evidente come il legislatore attraverso la disposizione in esame, cerchi di evitare la proposizione di impugnazioni temerarie; la stessa Relazione la configura come opportuno deterrente diretto a tale scopo.
Art.
39. 1. Competente per il giudizio di appello è il tribunale del circondario in cui ha sede il giudice di pace che ha pronunciato la sentenza impugnata. Il tribunale giudica in composizione monocratica. |
** L’art. 19 della legge delega, in tema di competenza per il grado di appello, prevedeva che “Sulle impugnazioni proposte avverso le sentenze ed i provvedimenti penali del giudice di pace è competente il tribunale nel cui circondario ha sede l’ufficio del giudice di pace”. L’art. 39 comma 1° d. lgs., precisa come il tribunale sia quello del circondario in cui ha sede il giudice di pace che ha emesso la sentenza appellata, nonché che si tratta di tribunale in composizione monocratica, stante l’art. 48 comma 1° dell’ordinamento giudiziario, come modificato dall’art. 14 del d. lgs. del 1998 n. 51, il quale stabilisce che “in materia civile e penale il tribunale giudica in composizione monocratica e, nei casi previsti dalla legge, in composizione collegiale”. Secondo la Relazione, la scelta effettuata a favore del tribunale in composizione monocratica quale giudice di appello delle sentenze penali emesse dal giudice di pace, è dovuta non solo al silenzio della legge delega in proposito, che costituisce chiara opzione a favore della generale composizione monocratica, ma altresì al fatto che anche quando giudica in materia civile quale giudice di appello avverso le sentenze emesse dal giudice di pace, il tribunale opera in composizione monocratica, per cui, una differente composizione del giudice di appello in materia penale non è sembrata giustificata.
2. Oltre che nei casi previsti dall'articolo 604 del codice di procedura penale, il giudice d'appello dispone l'annullamento della sentenza impugnata, disponendo la trasmissione degli atti al giudice di pace, anche quando l'imputato, contumace in primo grado, prova di non essere potuto comparire per caso fortuito o per forza maggiore o per non avere avuto conoscenza del provvedimento di citazione a giudizio, sempre che in tal caso il fatto non sia dovuto a sua colpa, ovvero, quando l'atto di citazione per il giudizio di primo grado è stato notificato mediante consegna al difensore nei casi previsti dagli articoli 159, 161, comma 4, e 169 del codice di procedura penale, non si sia sottratto volontariamente alla conoscenza degli atti del procedimento. |
** Al giudizio di appello si applicano le norme previste dal codice di rito, con una disciplina diversa rispetto a quella ordinaria nel caso in cui l’imputato sia rimasto contumace in primo grado. Se l’imputato prova di non essere potuto comparire per caso fortuito o per forza maggiore o per non aver avuto conoscenza del provvedimento di citazione a giudizio, sempre che in tal caso il fatto non sia dovuto a sua colpa, ovvero, quando l’atto è stato consegnato al difensore, non si sia sottratto volontariamente alla conoscenza degli atti del procedimento, il giudice di appello dispone l’annullamento della sentenza impugnata, con restituzione degli atti al giudice di pace per un nuovo giudizio.
La Relazione, giustifica la differenza rispetto al regime ordinario, il quale prevede all’art. 603 comma 4° c.p.p. la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale in sede di appello, in ragione della peculiarità del procedimento innanzi al giudice di pace e dei meccanismi conciliativi e di definizione alternativa del procedimento, di modo che, quando l’imputato non è potuto comparire, senza colpa, nel giudizio di primo grado, appare necessaria la regressione del processo dinnanzi al giudice di pace.
Si ritiene, proprio in considerazione della ratio di tale deroga al regime ordinario, che la rimessione al giudice di primo grado debba essere disposta anche nel giudizio di cassazione, sempre che la conoscenza del processo sia avvenuta in data successiva alla conclusione del giudizio di appello. Questo, perché “sembra che la specifica previsione in esame vada ad interferire nell’ambito di astratta efficacia della norma di cui all’art. 604 comma 1° c.p.p., e configuri un ampliamento delle ipotesi di annullamento con rinvio al primo giudice ivi contemplate”. [35]
- Alessandra Cheli - marzo 2001 -
(riproduzione riservata)
[1] Così, L. Tricomi, La parte offesa “conquista” il potere di citazione, in Guida al Diritto, 2000, 38, pag. 107
[2] L. Tricomi, op. cit., pag. 111
[3] E. Aprile, La competenza penale del giudice di pace, Giuffrè, 2001, pag. 117.
[4] E. Aghina, P. Piccialli, Il giudice di pace penale, Edizioni Simone, 2001, pag. 153
[5] E. Aghina, P. Piccialli, op, cit., pag. 147
[6] Svolgimento del giudizio in forma semplificata con ampliamento della possibilità di utilizzazione degli atti delle indagini preliminari quando vi è il consenso delle parti.
[7] Obbligo per il giudice di procedere al tentativo di conciliazione sugli aspetti riparatori e risarcitori conseguenti al reato, nonché in ordine alla remissione della querela ed alla relativa accettazione.
[8] In questa ipotesi la data dell’udienza è indicata dal giudice su richiesta del P.M. ex art. 49 d. lgs.
[9] Imputati in un procedimento connesso ai sensi dell’art. 12 c.p.p. ovvero in un procedimento avente ad oggetto un reato collegato a quello per il quale si procede ex art. 371 comma 2° lett. b) c.p.p.
[10] Si noti che il giudice, nel momento in cui ha l’obbligo di promuovere la conciliazione, non ha conoscenza degli atti, non essendosi ancora pronunciato sull’ammissibilità dei mezzi di prova (pronuncia riservata ad una fase successiva ex art. 29 comma 7° d. lgs.), né è stato formato il fascicolo del dibattimento, alla cui predisposizione si provvederà solo in caso di mancata conciliazione.
[11] Le pene paradententive sono considerate dall’art. 58 comma 1° d. lgs. corrispondenti all’arresto.
[12] E. Aghina, P. Piccialli, op, cit., pag. 170; G. Amato, Sui delitti a querela la prima via è la conciliazione, in Guida al Diritto, 38, pag. 116.
[13] Le parti, come si è visto, hanno l’onere della tempestiva indicazione dei mezzi di prova (artt.20 comma 2° lett. c), 21 comma 2° lett. h) e 29 comma 2° d. lgs.)
[14] G. Amato, Dibattimento snello ma senza riti alternativi, in Guida al Diritto, 2000, 38, pag. 117.
[15] L’art. 558 comma 5° c.p.p. prevede che nel caso di mancata convalida dell’arresto in flagranza, è consentito lo svolgimento del giudizio direttissimo con il consenso delle parti, consenso che viene quindi ad evitare la restituzione degli atti al P.M.
[16] E. Aghina, P. Piccialli, op. cit., pag.181.
[17] G. Amato, op. cit., pag. 119.
[18] G. Amato, op. cit., pag. 120.
[19] Affidamento di incarichi di progettazione e questioni connesse in tema di opere pubbliche e di pubblica utilità (art. 19 del decreto legge 25.03.1997 n. 67, convertito in legge 23.05.1997 n. 135); richieste di sospensione dei provvedimenti adottati dall’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (art. 1 comma 27° della legge 31.07.1997 n. 249)
[20] Corte Costituzionale, sentenza del 10.11.1999 n. 427
[21] G. Amato, op. cit., pag. 120
[22] G. Amato, op. cit., pag. 122; “L’unica ipotesi in cui è legittimo disporre il rinvio è quella nella quale il condannato risulti contumace ed il difensore sia privo della procura speciale: in tale ipotesi, il rinvio ha una sua ragione d’essere proprio nell’esigenza di consentire alla parte di articolare consapevolmente ed in maniera formalmente corretta l’istanza de qua”.
[23] Il disegno di legge governativo n. 4625 del 1998, proponeva l’istituto della irrilevanza penale del fatto da introdursi all’art. 346 bis c.p.p. per i reati puniti con una pena non superiore nel massimo a tre anni; esso, inizialmente confluito nella legge Carotti (479/1999), fu poi stralciato durante i lavori parlamentari.
[24] Si afferma nella Relazione, che “Il presente decreto legislativo segna dunque l’esordio dell’istituto sul terreno della legislazione penale comune, sia pure in un orbita piuttosto circoscritta e peculiare, quale è quella disegnata dalla giurisdizione del giudice di pace. Tuttavia, proprio questo esordio anche topograficamente prudente potrebbe avere il vantaggio di consentire un attento sondaggio sulla funzionalità dell’istituto, allo scopo di saggiare la praticabilità di eventuali, successive estensioni applicative”.
[25] G. Amato, Il ravvedimento operoso estingue il reato, in Guida al Diritto, 2000, 38, pag. 125; E. Aprile, op. cit., pag. 170.
[26] Per citare solo alcuni esempi, il ravvedimento operoso costituisce circostanza attenuante comune ai sensi dell’art. 62 n. 6 c.p.; condizione per l’ammissione all’oblazione di cui all’art. 162 bis c.p.; circostanza attenuante speciale ex artt. 289 bis e 630 c.p. in tema di sequestro di persona.
[27] La Commissione è pervenuta a tale soluzione essenzialmente per due motivi: in primo luogo, perché la legge delega all’art. 17 comma 1° lett. h), non effettua alcuna limitazione in proposito e, considerato che i reati devoluti alla competenza del giudice di pace sono per la maggioranza perseguibili a querela, una limitazione del genere avrebbe dovuto essere espressa. In secondo luogo, si è detto che escludendo tale causa estintiva del reato per i reati perseguibili a querela, la stessa avrebbe avuto una applicazione marginale alle sole ipotesi, estremamente ridotte, di contravvenzioni non oblabili ai sensi degli artt. 162 e 162 bis c.p.
[28] G. Amato, op. ult. cit., 128.
[29] In relazione agli ulteriori rapporti tra oblazione e l’istituto di cui all’art. 35 d. lgs., si rimanda al commento relativo all’art. 29 d. lgs.
[30] Così, E. Aprile, op. cit., pag. 200, che riporta massima della Cassazione Sez. III del 03.07.1998, in Cass. pen., 1999, 3179.
[31] Così, V. Santoro, Doppio binario sul regime delle impugnazioni, in Guida al Diritto, 2000, 38, pag. 129, sulla base della sentenza della Cassazione Sez. III del 02.02.1995, in Giust. Pen., 1996
[32] E. Aprile, op. cit., pag. 201.
[33] V. Santoro, op. cit., 130.
[34] V. Santoro, op. cit., pag. 132.
[35] V. Santoro, op. cit., pag. 135