Relazione al Decreto Legislativo 28 agosto 2000, n. 274 - Disposizioni sulla competenza penale del giudice di pace, a norma dell'articolo 14 della legge 24 novembre 1999, n. 468 (>>> link al Decreto)

I - PREMESSA

1.

Linee generali della riforma

II - GIURISDIZIONE E COMPETENZA DEL GIUDICE DI PACE

2.

Disposizioni sui soggetti e principi generali del procedimento
2.1.
Reati attribuiti alla competenza del giudice di pace
2.2.
Competenza per territorio
2.3.
Connessione nel procedimento davanti al giudice di pace
2.4.
Limiti alla rilevanza della connessione sulla competenza per materia
2.5.
Casi di connessione davanti al giudice di pace
2.6.
Competenza per territorio determinata dalla connessione
2.7.
Riunione e separazione dei processi
2.8.
Astensione e ricusazione del giudice di pace

III - DISCIPLINA DEL PROCESSO

3.

Indagini preliminari
3.1.
Attività di indagine della polizia giudiziaria
3.2.
Notizie di reato ricevute dal pubblico ministero
3.3.
Iscrizione della notizia di reato
3.4.
Chiusura delle indagini preliminari
3.5.
Archiviazione
3.6. Assunzione di prove non rinviabili
3.7.
Intervento del giudice di pace nella fase delle indagini preliminari

4.

Atti introduttivi del giudizio: la citazione ad opera della polizia giudiziaria
4.1.
Citazione su istanza della persona offesa
4.2.
Ambito applicativo del ricorso
4.3.
Presentazione del ricorso
4.4.
Costituzione di parte civile nel ricorso
4.5.
Casi di inammissibilità del ricorso
4.6.
Richieste del pubblico ministero
4.7.
Provvedimenti del giudice
4.8.
Decreto di convocazione delle parti
4.9.
Pluralità di persone offese

5.

Giudizio
5.1.
Udienza di comparizione e fase conciliativa
5.2.
Udienza di comparizione a seguito di citazione della persona offesa
5.3.
Dibattimento
5.4.
Sentenza di condanna alla permanenza domiciliare

6.

Definizioni alternative del procedimento: particolare tenuità del fatto come causa di improcedibilità
6.1.
Casi di estinzione del reato per condotte riparatorie

7.

Impugnazioni
7.1.
Impugnazione del pubblico ministero e del ricorrente
7.2.
Impugnazione dell'imputato
7.3.
Disciplina del giudizio di appello

8.

Disciplina dell'esecuzione
8.1.
Procedimento di esecuzione dei provvedimenti del giudice di pace
8.2.
Esecuzione delle pene pecuniarie
8.3.
Esecuzione delle pene paradetentive
8.4.
Disposizioni sul casellario giudiziale

9.

Norme di coordinamento e di attuazione

IV - DISCIPLINA SANZIONATORIA

10.

Sanzioni applicabili dal giudice di pace
10.1.
Problemi posti dalla legge delega
10.2.
Soluzione accolta
10.3.
Obbligo di permanenza domiciliare
10.4.
Lavoro di pubblica utilità
10.5.
Altre disposizioni
10.6.
L'esclusione della sospensione condizionale della pena

V - DISPOSIZIONI FINALI E TRANSITORIE

11.

Norme applicabili da parte di giudici diversi
11.1.
Disposizioni transitorie

I. Premessa.

1. Linee generali della riforma. - Il presente decreto legislativo, che attua la delega contenuta nella legge 24 novembre 1999, n. 468, recepisce, quasi integralmente, il lavoro svolto dalla Commissione di studio, insediata dal Ministro della Giustizia per l'attuazione della delega, presieduta dal prof. Tullio Padovani. Inoltre, come sarà precisato in seguito, sono state adeguatamente considerate le osservazioni formulate dalle Commissioni parlamentari in sede di parere sullo schema preliminare.

La legge delega in materia di competenza penale del giudice di pace e il presente decreto legislativo introducono nell'ordinamento importanti novità, delineando un modello di giustizia penale affatto diverso da quello tradizionale, destinato ad affiancarsi a quest'ultimo in funzione ancillare, ma suscettibile di assumere in futuro più ampia diffusione, previa la sua positiva "sperimentazione" sul campo della prassi.

Alla nuova disciplina non è estraneo infatti un intento di tipo deflattivo. Il giudice di pace si vedrà investito della conoscenza di un numero non trascurabile di reati, molti dei quali segnati da una considerevole ricorrenza statistica; con ciò alleggerirà il carico dei tribunali di compiti spesso relegati ai margini dell'attività giurisdizionale, a causa dell'eccessiva mole di lavoro. Nell'assumere la cognizione di tali reati, vedrà peraltro accrescere la sua vicinanza al corpo sociale.

E' risaputo, infatti, che la risposta penale - da troppo tempo cristallizzata sul binomio pena detentiva/pena pecuniaria - è sempre più lontana dalle domande di giustizia dei cittadini. Il ricorso frequente al diritto penale ha condotto ad una situazione in cui l'entità, complessivamente alta, degli editti non trova riscontro in un altrettanto rigorosa applicazione delle sanzioni.

Per altro verso, lo strumento penalistico ha invaso settori distanti dal suo "naturale" campo di elezione: è stato posto a presidio di interessi diffusi ovvero sovraindividuali, anche di rilievo prioritario, ma non di rado lontani dalle esperienze e dal vissuto quotidiano del singolo. Questo processo, in parte inevitabile, di ampliamento dell'area penalmente rilevante ha così comportato una progressiva divaricazione tra le ragioni della giustizia e le esigenze del cittadino comune, che lamenta una lentezza intollerabile, quando non addirittura un deficit nella risposta dello Stato.

In questo contesto, la dislocazione sul territorio del giudice di pace, in uno con la sua caratterizzazione professionale consentiranno un riavvicinamento della collettività all'amministrazione della giustizia anche nel delicato settore del diritto penale. Ma, soprattutto, la competenza penale del giudice di pace reca con sé la nascita di un diritto penale più "leggero", dal "volto mite" e che punta dichiaratamente a valorizzare la "conciliazione" tra le parti come strumento privilegiato di risoluzione dei conflitti (emblematica risulta in proposito la norma dell'art. 2, comma 2, che individua nella conciliazione il compito e la finalità primari della giurisdizione penale del giudice di pace: v. infra sub II, §. 2) .

Il primo dato di interesse risiede nella scomparsa della pena detentiva che, in relazione alla tipologia di reati attribuiti alla conoscenza del giudice di pace, ha vissuto una graduale sconfessione nelle sue funzioni di prevenzione generale e speciale. Vi si sostituiscono nuovi protocolli sanzionatori che scommettono prevalentemente sulla pena pecuniaria, in conformità con gli orientamenti affermatisi in molte esperienze straniere. Alla pena pecuniaria si accostano poi le sanzioni della permanenza domiciliare e del lavoro di pubblica utilità.

Sebbene già note nella loro fisionomia sostanziale, tali misure si atteggiano qui in modo originale per il fatto di essere previste come pene principali. Così, con riguardo specifico al lavoro di pubblica utilità, attestano lo sforzo legislativo di recuperare la dimensione rieducativa della pena, come noto, fino ad ora praticamente frustrata; anticipano inoltre la predilezione legislativa (che sorregge l'intera riforma) per soluzioni che muovono verso la reintegrazione dell'offesa, piuttosto che verso una mera afflittività.

Più in generale, le nuove sanzioni costituiscono l'indice non equivoco di una progressiva trasformazione della natura e dell'essenza stessa del diritto penale.

E' infatti noto come l'incidenza di questo strumento di tutela sulla libertà personale del reo abbia giustificato la sedimentazione nel tempo di un livello crescente di garanzie, sul piano sostanziale come sul piano processuale: con la conseguenza, rivelatasi paradossale, di una loro estensione indifferenziata a fatti di gravità non assimilabile. Se è così, la metamorfosi della risposta punitiva giustifica (a rigore, imporrebbe) la nascita di un micro-sistema (integrato, nei rapporti tra disciplina sostanziale e processuale) che si calibra sulle nuove premesse.

Sul versante sostanziale, ciò si riflette nella selezione di fattispecie dotate di schemi probatori semplificati e di gravità non particolare; soprattutto, implica l'esaltazione delle funzioni conciliative del giudice di pace, e consente dunque la sperimentazione, su un terreno particolarmente propizio, degli emergenti schemi di mediazione penale. A riprova della mitezza del diritto penale in questo settore, si pensi infine alla disciplina delle iscrizioni nel casellario giudiziale, volta ad attenuare lo stigma della condanna.

Sul versante processuale, le novità sanzionatorie hanno condotto verso il potenziamento delle funzioni della polizia giudiziaria, la mancata previsione della figura del giudice delle indagini preliminari e una disciplina del giudizio nella quale si coniugano esigenze di semplificazione con la garanzia del contraddittorio.

Non si tratta peraltro soltanto della promessa di una maggiore duttilità.

La scomparsa della pena detentiva (anche) a livello di previsioni edittali costituisce la spia di un'attenuazione della pretesa punitiva di matrice pubblicistica. Tuttavia, essa reca con sé, in uno sforzo apprezzabile di compensazione, una rinnovato interesse per la vittima, che attraversa l'impianto dello schema di decreto legislativo sorreggendone le scelte più qualificanti, in omaggio alle moderne tendenze alla negoziazione dei conflitti sociali

Ci si riferisce in prima battuta al potenziamento di meccanismi di tipo risarcitorio o riparatorio, tradizionalmente estranei allo schema classico del diritto penale. In proposito, si richiama l'attenzione sul contenuto degli istituti previsti dagli articoli 34 e 35: in uno, l'opposizione della parte offesa condiziona la dichiarazione di improcedibilità per un reato oggettivamente di scarsa offensività, e in definitiva l'azione penale statale ovvero il suo esito processuale; nell'altro, il soddisfacimento effettivo delle pretese della vittima funge da causa di estinzione del reato, sortendo effetti sul piano sostanziale, dove prevale sul ius puniendi statale.

Ma la valorizzazione della figura della vittima trova uno dei riscontri più significativi anche nella disciplina processuale.

L'accentuazione del ruolo conciliativo del giudice e la conseguente disciplina processuale è funzionale a pervenire ad una soluzione del conflitto che possa anzitutto soddisfare la persona offesa.

Inoltre, attraverso il ricorso diretto (art. 21 ss.), la persona offesa, in relazione ai procedimenti per reati perseguibili a querela, si emancipa dal ruolo statico e tutto sommato marginale tradizionalmente rivestito, per diventare protagonista del processo, di cui segna l'incipit e scandisce le fasi successive.

II. Giurisdizione e competenza del giudice di pace

2. Disposizioni sui soggetti e principi generali del procedimento L'articolo 1, avente funzione ricognitiva, individua gli organi giudiziari che svolgono funzioni nel procedimento penale avanti al giudice di pace: essi sono, oltre al giudice di pace, il procuratore della Repubblica presso il tribunale, in ossequio al preciso criterio di delega.

L'articolo 2 fissa i principi generali del procedimento dinanzi al giudice di pace.

Aderendo alle osservazioni contenute nel parere reso dalla Commissione Giustizia del Senato, la collocazione della norma in oggetto (art. 45 dello schema) è stata anticipata nella parte iniziale del decreto, dedicato alle disposizioni di carattere generale.

Il comma 1 integra la specifica disciplina processuale del decreto, attraverso il richiamo delle disposizioni contenute nel codice di procedura penale e nelle relative norme di attuazione e coordinamento, in quanto applicabili. Inoltre, viene espressamente esclusa l'applicabilità di una serie di istituti ritenuti incompatibili con il processo davanti al giudice di pace.

Si tratta di istituti la cui esclusione è immediatamente desumibile dalla legge delega, in quanto estranei alla natura del processo, come ad esempio l'arresto in flagranza e il fermo di indiziato di delitto, le misure cautelari personali e il giudizio direttissimo, che presuppongono la possibilità di misure personali limitative della libertà della persona. In altri casi, l'espressa esclusione si fonda sulla differente disciplina che il decreto ha delineato in relazione ad istituti analoghi (incidente probatorio, proroga del termine per le indagini). Infine, il rispetto del criterio generale della massima semplificazione del processo e la vocazione conciliativa del giudice di pace hanno reso inapplicabili i riti alternativi e l'udienza preliminare.

Per quanto riguarda questi ultimi, la modesta gravità dei reati devoluti al giudice di pace, nonché la natura delle relative sanzioni, sembra deporre nel senso di non prevedere riti alternativi al giudizio, al di fuori dei meccanismi di conciliazione e di improcedibilità per tenuità del fatto, nonché di estinzione del reato, conseguente a condotte riparatorie, e all'oblazione.

Inoltre, la stessa natura del giudice di pace impone di favorire il contatto delle parti con l'organo giudicante, esigenza questa che sarebbe frustrata dalla previsione di procedimenti monitori inaudita altera parte, come il decreto penale di condanna.

Ugualmente, l'esclusione nel procedimento dinanzi al giudice di pace dell'istituto dell'applicazione della pena su richiesta delle parti, sembra imposta dalla necessità di assicurare comunque un'adeguata tutela delle ragioni della persona offesa (e ciò in special modo nel ricorso diretto al giudice), tutela incompatibile con la natura del patteggiamento, che per di più non produce effetti nel giudizio civile; peraltro, l'introduzione dell'istituto del "patteggiamento" avrebbe potuto determinare un aumento del contenzioso civile per la conseguente duplicazione dei giudizi.

La disposizione contenuta nel comma 2 dell'articolo 2 sintetizza, nella parte iniziale del decreto, le connotazioni eminentemente conciliative proprie del giudice di pace, anche in materia penale.

Proprio la finalità conciliativa costituisce l'obbiettivo principale della giurisdizione penale affidata al giudice di pace. Invero, la conciliazione deve per quanto possibile costituire l'esito fisiologico di questo tipo di giustizia più vicina agli interessi quotidiani del cittadino. D'altro canto, la norma anticipa, e sintetizza, la fitta rete di disposizioni che consentono di pervenire ad una definizione anticipata del procedimento quando il conflitto tra le parti abbia trovato un'adeguata composizione. La traduzione operativa della prevalenza accordata all'istanza conciliativa si impernierà sul ruolo attivo, di mediatore, del giudice di pace: ben lungi dall'assumere un atteggiamento di burocratico distacco dalle parti o di formalistico attaccamento alle scansioni della procedura, egli dovrà sempre valorizzare la composizione del conflitto attraverso una continua ricerca di equilibrate soluzioni compensative.

L'articolo 3 precisa il momento in cui nel procedimento penale innanzi al giudice di pace si viene ad assumere la qualità di imputato.

Nel procedimento ordinario ciò si verifica all'atto della citazione a giudizio disposta dalla polizia giudiziaria, ai sensi dell'articolo 20 del decreto legislativo.

Nel caso di ricorso immediato al giudice tale qualità viene acquisita con il decreto di convocazione del soggetto dinanzi a sé da parte del giudice di pace, ai sensi dell'articolo 27. Vale appena specificare che, in quest'ultima ipotesi, la convocazione delle parti dinanzi al giudice rappresenta il primo momento in cui la persona interessata prende conoscenza del fatto che contro di lei è stata esercitata l'azione penale; e ciò in un sistema che ha respinto l'opzione a favore di una vera e propria azione penale privata, ed in luogo ha recepito una soluzione "di compromesso", che non rinuncia al controllo sulla notitia da parte dell'organo pubblico d'accusa.

2.1. Reati attribuiti alla competenza del giudice di pace.Come anticipato nel § 1, la riforma sulla competenza penale del giudice di pace si lascia apprezzare perché valorizza le funzioni conciliative nel processo e dunque, in ultima analisi, la figura stessa di questo giudice.

Questa impronta ideale si trova immediatamente riflessa già nella scelta dei reati devoluti alla competenza del giudice di pace. In proposito, occorre peraltro distinguere.

L'articolo 15 della legge delega (legge 24 novembre 1999, n. 468), nel primo comma, attribuisce al giudice di pace la competenza a conoscere di alcuni delitti - specificamente individuati - del codice penale. Tali delitti sono di agevole accertamento (l'unica eccezione è rappresentata dalle lesioni colpose con violazione della normativa antinfortunistica, la cui levità non consentirà sempre di compensare quel surplus di normatività che spesso emerge nell'accertamento del rapporto di causalità e della violazione della regola di condotta nell'elemento soggettivo; le perplessità appaiono tuttavia mitigate dall'operatività del regime di connessione con i reati in materia di infortunistica, che finirà con l'attrarre questo reato nella competenza del giudice ordinario).

Essi costituiscono, poi, l'espressione tipica ed immediata di situazioni di microconflittualità individuale (ingiurie, diffamazioni, minacce, furti punibili a querela, danneggiamenti ecc.) e, in quanto tali, sembrano perfettamente ritagliati sulle caratteristiche del giudice onorario deputato a conoscerle.

Si discostano invece in parte da questo modello le contravvenzioni codicistiche, anch'esse nominativamente indicate dall'articolo 15 (comma 2) e pure assimilabili ai delitti attribuiti al giudice di pace in relazione alla semplicità dello schema legale (con ovvie, analoghe ripercussioni in termini di agevolazione probatoria). Sebbene difficilmente ascrivibili al protocollo criminologico della microconflittualità interindividuale, questi reati sembrano tuttavia ancora modellati sulla caratterizzazione del giudice di pace come "compositore di controversie individuali": in massima parte rispondono allo schema del reato di pericolo, e dunque tollerano condotte di tipo lato sensu riparatorio.

Dove invece si potrebbe delineare una frizione tra la competenza del giudice di pace e quella che dovrebbe essere la sua naturale vocazione al riavvicinamento tra le parti, è in rapporto alle fattispecie di reato desunte dalla legislazione penale accessoria, ed indicate nel comma 2 dell'articolo 4 del decreto legislativo sulla base dei criteri tracciati dall'ultimo comma del citato articolo 15 della legge delega.

In proposito, premesso che i criteri richiesti (in via cumulativa) dalla delega sono talmente stringenti da ritagliare al giudice di pace uno spettro di cognizione alquanto ristretto, le fattispecie individuate all'esito della selezione, risultano spesso preposte alla tutela di interessi diffusi e comunque sovraindividuali, quando addirittura non rispondano allo schema del reato formale: siano cioè volte a tutelare pubbliche funzioni e dunque, in ultima analisi, oggetti giuridici la cui titolarità appare squisitamente statale.

Per gradi.

Innanzitutto, è bene premettere che il dato testuale della legge delega è stato interpretato nella sua massima latitudine, e ciò nel preciso intento di valorizzare la professionalità del giudice di pace, assicurando, sin dall'esordio, alla sua nuova competenza il più ampio spazio di operatività

Così, laddove la legge si riferiva ai reati puniti con la pena pecuniaria (articolo 15, lettera a), non sono state ammesse limitazione verso l'alto. Specificamente, si è esclusa l'opportunità di fissare un tetto corrispondente ai quattro mesi (sbarramento previsto invece per i reati puniti con la pena detentiva), operazione pure astrattamente ipotizzabile invocando il meccanismo di ragguaglio dell'articolo 135 c.p. Peraltro, non sono state annoverate fattispecie (per lo più di conio recente) oggi punite con una pena pecuniaria particolarmente alta; si sarebbero infatti prodotta un'irragionevole disparità di trattamento rispetto a reati in origine puniti con pena detentiva (ed assai più gravi) per i quali la legge delega invece non consente di eccedere il limite dei cinque milioni di lire (essendo dubbio inoltre che tale disparità possa essere colmata dalla previsione in via alternativa delle sanzioni paradetentive (sul punto, v. § 10 ss.).

Si è fatto ricorso ad una lettura "estensiva" anche in relazione alla lett. c) del medesimo comma 3 dell'articolo 15, a mente del quale i reati da devolvere al giudice di pace non devono rientrare "in taluna delle materie indicate nell'articolo 34 della legge 24 novembre 1981". Il richiamo ad intere "materie" è stato però ritenuto esorbitante nelle ipotesi in cui il citato articolo 34 indichi, piuttosto, specifiche disposizioni legislative, così da privilegiare - nell'equivocità della lettera - l'interpretazione che restringe il meno possibile l'area del criterio di delega (ad esempio, la lettera d richiama il solo articolo 221 T.U. delle leggi sanitarie; essa non avrebbe precluso in astratto la considerazione delle restanti disposizioni in materia sanitaria, escluse piuttosto per i non lievi problemi interpretativi che genera la loro applicazione). Naturalmente, ove particolari corpi normativi siano stati abrogati da altre leggi che disciplinano per intero la materia, il riferimento legislativo ai primi è stato inteso come relativo alle seconde (per esempio, in tema di inquinamento delle acque).

Nella cernita dei reati, si è poi ritenuto opportuno non escludere aprioristicamente le fattispecie (in proporzione, numerose) che ricalcano lo schema dell'articolo 650 del codice penale (Inosservanza dei provvedimenti dell'Autorità) dalla rosa di reati rimessa alla conoscenza del giudice onorario. Vero è che tale articolo non è stato espressamente previsto dal legislatore delegante dell'articolo 15 comma 1, sicché potrebbe ritenersi che, se non si è inteso includere l'ipotesi madre, a fortiori dovrebbe essere negata considerazione alle ipotesi speciali. D'altra parte, proprio il carattere speciale di tali tipi costituisce frequentemente indizio di una maggiore facilità nell'accertamento del fatto: ferma restando, ovviamente, la valutazione caso per caso in relazione a quest'ultimo profilo.

Ma la norma che ha suscitato, in sede di attuazione, le maggiori incertezze interpretative è stata la lettera b) del comma 3 dell'articolo 15 la quale, dopo aver ammesso la competenza del giudice di pace per i "reati per i quali non sussistono particolari difficoltà interpretative o non ricorre, di regola, la necessità di procedere ad indagini o a valutazioni complesse in fatto o in diritto", nell'ultima parte richiede, in aggiunta, che sia "possibile l'eliminazione delle conseguenze dannose del reato anche attraverso le restituzioni o il risarcimento del danno".

La direttiva solo a prima vista si spiega alla luce delle considerazioni già svolte sulle caratteristiche dell'organo al quale è rimessa la conoscenza di questi reati: vale a dire, pensando alla naturale vocazione la figura di questo giudice non togato mostra allo svolgimento di funzioni conciliative. Seguendo tale lettura, si sarebbe dovuto negare la competenza del giudice di pace in relazione a reati per i quali sia impossibile una restitutio in pristinum, quand'anche nella forma surrogata del risarcimento.

Peraltro, così operando, si sarebbe prodotto l'effetto paradossale di attribuire al giudice di pace reati di gravità maggiore (con tutto il nuovo corredo sanzionatorio in bonam partem), escludendo invece dalla sua competenza fattispecie di pericolo astratto in relazione alle quali non sia ravvisabile alcuna conseguenza dannosa: e dunque presumibilmente meno gravi, oltre che di accertamento più agevole. D'altra parte, che questa non fosse l'intenzione del legislatore delegante, lo si è desunto anche dalla circostanza che nello spettro di fattispecie direttamente devolute dalla legge delega al giudice di pace, sono rinvenibili alcune contravvenzioni per cui non è possibile la reintegrazione dello stato precedente (si pensi agli atti contrari alla pubblica decenza). Più in generale, poi, è noto che la legislazione penale complementare non conosce molti reati criminologicamente riconducibili a fenomeni di conflittualità interindividuale (per i quali sembrerebbe coniata la citata locuzione della legge delega): e ciò tanto più se si considera la fascia di pena detentiva (4 mesi) entro la quale la lettera a) del comma 3 dell'articolo 15 costringe alla ricerca il delegato.

Alla luce di queste considerazioni, nell'attuazione datane dal comma 2 dell'articolo 4 del decreto legislativo, il richiamo alle conseguenze dannose del reato è stato inteso in senso atecnico: vale a dire, come una sorta di valvola di sfogo del nuovo sistema che, per il tramite di essa, intende preservarsi dal rischio di includere reati puniti non pesantemente, di interpretazione e di accertamento agevole, e tuttavia in ipotesi di considerevole gravità (si pensi a molti reati, previsti spesso in forma contravvenzionale ma di natura sostanzialmente delittuosa, introdotti in attuazione delle diverse leggi comunitarie).

In conclusione, si è ritenuto opportuno escludere dal novero dei reati di competenza del giudice di pace quelli suscettibili di produrre effetti non rimovibili; viceversa, sono stati attribuiti a questo giudice, quelli che per la loro tipologia producano conseguenze eliminabili come anche quelli che non producano affatto conseguenze.

Una notazione incidentale. Gli autori dei reati appartenenti alla seconda classe potrebbero risultare sperequati rispetto agli altri, nella misura in cui non possano usufruire del meccanismo estintivo di cui all'articolo 35 del decreto legislativo, ritagliato attorno al risarcimento, alle restituzioni o - in genere - al ripristino dello status quo ante. Peraltro, analoga questione fu sollevata in relazione al meccanismo della prescrizione di cui all'articolo 21 comma 2 d.lgs. 19.12.1994, n. 758, dinanzi alla Corte costituzionale e da questa respinta, argomentando dal fatto che la diversa struttura delle fattispecie incriminatrici fosse idonea a giustificare le differenze di trattamento legislativo (sent. 28 maggio 1999, n. 205).

Inoltre, è parso opportuno far rivivere, al comma 3 dell'articolo in commento, la competenza del tribunale in tutti i casi in cui i reati pure attribuiti alla conoscenza del giudice di pace risultino aggravati da una delle circostanze ad effetto speciale previste dai decreti legge n. 625 del 1979 (articolo 1), n. 152 del 1991 (articolo 7), n. 122 del 1993 (articolo 3): rispettivamente in materia di terrorismo, di mafia e di discriminazione razziale.

Vero è che in caso di concorso formale, opera la connessione con il più grave reato di competenza del giudice togato (articolo 6).

D'altro canto, può darsi che ciò non avvenga; per questi casi, allora, l'esclusione della competenza del giudice di pace trova giustificazione, oltre che in evidenti ragioni di opportunità, nella assoluta estraneità dei fatti rispetto alla caratterizzazione propria di questo giudice togato.

Per eliminare ogni possibile dubbio si è poi espressamente sancita (comma 4) la salvezza della competenza del tribunale per i minorenni, che continuerà dunque a giudicare dei reati, in linea generale devoluti al giudice di pace, commessi da soggetti minori degli anni diciotto (per la disciplina sostanziale e processuale applicabile, v. § 11.).

Analoga disposizione non è stata prevista in relazione alla competenza attribuita, ad altri giudici speciali, ratione personae (si pensi al collegio per i reati ministeriali, di cui alla legge cost. 16 gennaio 1989, n. 1, e, al limite, alla Corte costituzionale), in quanto appaiono assai difficilmente ipotizzabili fenomeni di interferenza con la competenza del giudice di pace.

In ogni caso, è chiaro che, atteso il rango costituzionale della disciplina attributiva delle relative competenze, le stesse non possono essere in alcun modo incise dalle disposizioni del presente decreto legislativo.

E' infine opportuno segnalare che la tipologia in cui sono sussumibili i reati selezionati attraverso i criteri di delega, proprio perché massimamente improntata alla tutela di interessi di titolarità sovraindividuale (e talvolta di pubbliche funzioni), non ha consentito di attuare la delega nella parte in cui prevedeva l'estensione della perseguibilità a querela dei reati (lettera a dell'articolo 16 della legge n. 468 del 1999). Le uniche ipotesi in relazione alle quali tale estensione sarebbe parsa astrattamente giustificabile sono l'omissione di soccorso di cui all'articolo 593 c.p., e la corrispondente ipotesi dell'articolo 189 C.d.S. Ma la limitazione del regime di procedibilità di questi delitti è parsa al legislatore delegato irrimediabilmente in contrasto con la matrice solidaristica che ne ha ispirato la previsione.

2.2. Competenza per territorio. – L'articolo 5 del decreto individua, sulla falsariga della norma codicistica, il giudice di pace competente per i reati indicati nel precedente articolo in relazione al locus commissi delicti.

Naturalmente, troveranno applicazione, in virtù del rinvio generale contenuto nell'articolo 2, comma 1, le disposizioni determinative della competenza per territorio nell'ipotesi di reato permanente e di delitto tentato (articolo 8, commi 3 e 4, c.p.p.).

Il secondo comma precisa che per gli atti da compiere nella fase delle indagini preliminari è competente il giudice di pace del luogo ove ha sede il tribunale del circondario in cui è compreso il giudice competente territorialmente. In questo modo, è stata individuata una competenza generale "circondariale", impegnando quegli uffici più grandi, con organici adeguati ed in grado di ridurre i rischi di incompatibilità.

Tale criterio di individuazione del giudice oltre che per l'archiviazione è previsto anche per una serie di altri provvedimenti che, nel processo ordinario, sono attribuiti al giudice per le indagini preliminari (v. articolo 19).

La soluzione prescelta coniuga le esigenze della semplificazione e della efficienza, con il rispetto delle garanzie processuali, dal momento che viene confermato il ruolo di controllo e di garanzia di un giudice nel corso delle indagini.

Peraltro, va pure tenuto presente che, nel processo davanti al giudice di pace, il ruolo svolto dal giudice nelle indagini preliminari non assume quegli aspetti di delicatezza che investono i poteri del g.i.p. nel procedimento ordinario, in quanto manca lo snodo dell'udienza preliminare, con i suoi possibili epiloghi alternativi al giudizio e non vi sono misure cautelari da disporre (ad eccezione di quelle di natura reale); allo stesso modo, non trova applicazione l'istituto dell'incidente probatorio.

2.3. Connessione nel procedimento davanti al giudice di pace. - Rispetto alla giurisdizione penale del tribunale, quella del giudice di pace si caratterizza per la singolarità delle sanzioni che ne costituiscono l'oggetto, nonché per la particolarità delle soluzioni procedurali delineate dalla legge delega ed attuate nel decreto.

Nello schema di decreto, si era assegnata in via esclusiva al giudice di pace la cognizione dei reati rientranti nella sua competenza, stabilendo che i procedimenti relativi a che tali reati non subivano gli effetti della connessione "eterogenea" (quella, cioè, che si realizzerebbe quando fra uno o più reati appartenenti alla competenza del giudice di pace e uno o più reati appartenenti alla competenza del tribunale o della corte d'assise, sussistesse una delle relazioni descritte nell'articolo 12 c.p.p.)..

Tale scelta è stata oggetto di articolati rilievi, sotto il profilo dell'opportunità di evitare il fenomeno della duplicazione dei processi e del possibile contrasto di giudicati, nei pareri formulati dalle Commissioni parlamentari.

Pertanto, preso atto della fondatezza delle argomentazioni formulate, è stata introdotta una disciplina della connessione tra procedimenti per reati devoluti al giudice di pace e reati di competenza superiore, nella quale tuttavia ha rilievo la sola ipotesi del concorso formale.

Invero, da un lato la legge di delega autorizza certamente una riformulazione della disciplina della connessione che limiti fortemente l'ambito operativo dell'istituto.

Per altro verso, proprio l'ipotesi di concorso formale è quella in cui, attesa l'unicità della condotta, è effettivamente più elevato il rischio di giudicati contrastanti in caso di processi separati.

In attuazione della legge delega si è poi elaborata una disciplina della connessione "omogenea" (quella, cioè, riguardante i rapporti fra procedimenti tutti di competenza del giudice di pace) adeguata alle caratteristiche di semplificazione che debbono caratterizzare questo tipo di processo.

Al giudice di pace è infine attribuita ampia discrezionalità per quanto concerne la riunione o separazione dei processi.

2.4. Limiti alla rilevanza della connessione sulla competenza per materia. – Come già precisato la disciplina della connessione cosiddetta "eterogenea" è stata modulata (articolo 6) tenendo conto delle esigenze di semplificazione del procedimento innanzi al giudice di pace, riducendosi i casi di connessione al limite della necessità di evitare le negative conseguenze prima enunciate ed escludendo che la connessione integri un originario criterio attributivo di competenza.

Unica ipotesi rilevante di connessione è dunque quella del concorso formale dei reati; in tal caso, come detto, l'unicità dell'azione o dell'omissione evidenzia l'opportunità del simultaneus processus.

Tenuto conto della peculiare natura delle sanzioni irrogabili dal giudice di pace e delle caratteristiche del relativo procedimento, è stata normativamente ritenuta l'attrazione dei giudizi in favore del giudice superiore (tribunale o corte di assise).

Peraltro, come si vedrà (§ 11), è stata dettata apposita disciplina in ordine alle norme, sostanziali e processuali, che il giudice chiamato, per effetto della connessione, a conoscere di reati devoluti al giudice di pace dovrà osservare.

Sempre nell'ottica di limitare le ipotesi di connessione, e considerata altresì la scarsa ricorrenza pratica delle relative ipotesi, si è esclusa la connessione tra procedimenti del giudice di pace e procedimenti di giudici speciali.

Premesso che non può verificarsi connessione alcuna procedimenti del tribunale per i minorenni, in quanto la relativa competenza per i reati commessi da minori degli anni diciotto è esclusiva e non derogabile, la norma riguarda prevalentemente il tribunale militare, in ordine al quale non è sembrato opportuno prevedere la possibilità di giudicare i reati del giudice di pace.

Infine, accogliendo un suggerimento contenuto nel parere della Commissione Giustizia del Senato, si è stabilito che la connessione non rilevi qualora non sia possibile la riunione dei procedimenti. Invero, in tale ipotesi, risultando ormai impossibile la contestuale celebrazione dei processi, la connessione non potrebbe impedire la duplicazione dei giudizi, ed allora appare preferibile mantenere la separazione dei procedimenti.

2.5. Casi di connessione davanti al giudice di pace. – Gli effetti della connessione cosiddetta "omogenea" sono limitati alle ipotesi in cui il fatto da giudicare si presenta storicamente unico (articolo 7): a tal fine, infatti, rilevano soltanto il concorso o la cooperazione di più persone in un medesimo reato (lett. a) e il concorso formale di reati (lett. b). Restano invece esclusi tutti i casi indicati nell'articolo 12 lett. c) c.p.p., nonché – si badi – i casi di continuazione evocati nella lett. b) dello stesso articolo 12. L'esclusione del reato continuato dal novero di quelli idonei a produrre gli effetti della connessione sulla competenza potrebbe comportare qualche problema con riguardo all'applicazione della pena ex articolo 81 c.p., ogniqualvolta più giudici, con diversa competenza territoriale, si trovino a dover decidere su più reati uniti dal vincolo del medesimo disegno criminoso. La connessione avrebbe agevolato la particolare commisurazione della pena in questi casi. Si è tuttavia preferito escluderla, onde evitare complicazioni e lungaggini incompatibili con le esigenze di speditezza e semplificazione che debbono caratterizzare il procedimento davanti al giudice di pace. Se poi accadesse che diversi fatti in rapporto di continuazione fossero giudicati da più giudici, la pena potrebbe sempre essere commisurata a norma dell'articolo 81 c.p. da parte del giudice dell'esecuzione (articolo 671 c.p.p.).

Per quanto riguarda il suggerimento contenuto nel parere del Senato e relativo all'estensione della disciplina della riunione anche all'ipotesi di nesso teleologico, va rilevato che l'ultima parte del comma 3 dell'articolo 9 del decreto già consente di disporre la riunione ogni qual volta questo giovi alla celerità e alla completezza dell'accertamento, ben potendosi in tale formulazione ricomprendere anche il caso in discorso.

2.6. Competenza per territorio determinata dalla connessione. – In caso di connessione, la competenza appartiene al giudice del luogo in cui è stato commesso il primo reato o, se questo criterio non fosse concretamente applicabile, al giudice presso il cui ufficio è iniziato il primo dei procedimenti connessi (articolo 8).

La scelta di siffatti criteri di individuazione del giudice competente per territorio, nei casi di connessione, è motivata dalla considerazione che i criteri indicati dall'articolo 16 c.p.p. sono pressoché irriproducibili nella normativa riguardante il giudice penale di pace. Innanzitutto, sparisce – davanti al giudice di pace – la distinzione tra delitti e contravvenzioni, giacché le sanzioni previste sono tutte dello stesso tipo. E' vero che la distinzione resta sullo sfondo; ma ciò vale per la prima fase di applicazione della normativa sul giudice di pace. In futuro, è pensabile che il legislatore preveda fattispecie incriminatrici cui collegare direttamente le sanzioni previste dall'articolo 16 della legge delega (intese come autonome e non sostitutive). Pertanto, potrebbe divenire addirittura improprio parlare di "delitti" e "contravvenzioni" per i reati attribuiti alla competenza del giudice di pace. Inoltre, questi reati sono puniti quasi tutti con le stesse pene. Diventa perciò doppiamente arduo utilizzare il concetto della "maggior gravità" come criterio per individuare il giudice competente in caso di procedimenti connessi. Si propone dunque di utilizzare il criterio del "primo reato consumato" o, in subordine, quello del primo procedimento. Bisogna peraltro riconoscere che, tenuto conto della disciplina contenuta nell'articolo 7, l'eventualità di un'applicazione del suddetto criterio risulterà assai rara. Nel concorso di persone e nel concorso formale di reati, il luogo della consumazione è, infatti, unico.

2.7. Riunione e separazione dei processi dinanzi al giudice di pace. – Nei procedimenti dinanzi al giudice di pace la riunione dev'essere disposta in tutti i casi di connessione previsti dall'articolo 7. Qui la riunione dev'essere la regola, salvo che la stessa pregiudichi la rapida definizione dei processi (al riguardo è stata di proposito usata una formula identica a quella dell'articolo 17 c.p.p., anche per evitare possibili disorientamenti interpretativi).

La riunione può inoltre essere disposta anche tra procedimenti pendenti davanti allo stesso giudice per motivi diversi dalla connessione, in un triplice ordine di situazioni:

a) quando i reati sono commessi da più persone in danno reciproco le une delle altre, o quando più persone con condotte indipendenti hanno determinato l'evento (si pensi alle lesioni personali in caso di sinistri stradali);

b) quando i fatti siano in rapporto di continuazione (al fine di rendere più agevole l'applicazione dell'articolo 81 c.p.);

c) in tutti i casi in cui – ad avviso del giudice – la riunione dei processi favorisca la celerità e la completezza dell'accertamento dei fatti.

Il criterio, molto elastico, della celerità e completezza dell'accertamento lascia al giudice ampio margine di discrezionalità. Ciò non deve destare eccessive preoccupazioni, poiché il giudice di pace, dato il tipo di reati per i quali è competente, non sarà prevedibilmente propenso ad abusare dei poteri in tal senso attribuitigli dalla legge.

Anche il potere di separazione è assai più elastico di quello regolato dall'articolo 18 c.p.p. Del resto, è la stessa legge delega a suggerire una simile soluzione, quando nell'articolo 17 lett. i) invoca "l'introduzione di poteri discrezionali in capo al giudice quanto all'obbligo di rilevarne (della connessione) l'operatività".

Sembra evidente che qui il delegante non si riferisce agli effetti della connessione sulla competenza, giacché un potere discrezionale assegnato al giudice in questo campo sarebbe in contrasto il principio del giudice naturale precostituito per legge (articolo 25 comma 1 Cost.); quel potere discrezionale non può che riguardare, quindi, gli effetti della connessione sulla riunione o separazione dei giudizi.

2.8. Astensione e ricusazione del giudice di pace. – L'articolo 10 detta le regole peculiari in ordine all'astensione e alla ricusazione del giudice di pace.

In primo luogo, viene individuato nel presidente del tribunale l'organo competente a decidere sulla dichiarazione di astensione e nella corte di appello l'organo che decide sulla ricusazione del giudice di pace. Si tratta di una norma la cui previsione è necessaria in quanto il generale richiamo dell'articolo 2, comma 1, del decreto alle disposizioni del codice - applicabili in quanto compatibili - può operare con riferimento ai casi e alle procedure in materia di astensione e di ricusazione, ma non anche all'organo che deve decidere.

Per quanto riguarda l'astensione, si è replicato il meccanismo esistente prima della riforma del giudice unico, con riferimento al pretore; invece, per la decisione sulla ricusazione si è preferito, in linea con un indirizzo legislativo ormai affermato, attribuire la competenza ad un organo collegiale, individuandolo nella corte di appello, che già oggi si occupa delle ricusazioni di tutti i giudici di merito.

I commi 3 e 4 dettano le regole per la sostituzione del giudice astenuto o ricusato. In primo luogo, si prevede che questi sia sostituito con altro giudice del medesimo ufficio; laddove ciò non risulti, in ragione del numero dei giudici addetti all'ufficio, possibile, la corte o il tribunale rimetterà il procedimento al giudice di pace viciniore.

III. Disciplina del processo

3. Indagini preliminari. – Il capo II del titolo I è dedicato alle indagini preliminari ed attua la direttiva contenuta nell'articolo 17 comma 1, lett. b), della legge delega, secondo cui l'attività di indagine per i reati attribuiti al giudice di pace deve essere "di regola affidata esclusivamente alla polizia giudiziaria". La direttiva si preoccupa di ribadire come i nuovi assetti investigativi debbano rispettare i principi stabiliti negli articoli 109 e 112 Cost., che affermano la diretta disponibilità della polizia giudiziaria all'autorità giudiziaria e l'obbligatorietà dell'azione penale in capo al pubblico ministero; per cui mentre viene attribuito alla polizia giudiziaria il compito di "disporre direttamente" la comparizione dell'imputato davanti al giudice, si riafferma la necessità che sia il pubblico ministero a formulare l'imputazione e, quindi, ad esercitare l'azione penale.

Il legislatore delegante, anche in considerazione della tipologia dei reati attribuiti alla cognizione del giudice onorario, ha operato una dequotazione del ruolo delle indagini preliminari in questo processo, senza tuttavia eliminarle: l'intervento delineato nella delega prevede una struttura semplificata della fase investigativa, in cui soggetto principale è la polizia giudiziaria, non più il pubblico ministero, anche se mantiene intatte tutte le sue prerogative di direzione, controllo e determinazione finale sui risultati delle indagini. Si è trattata di una scelta legata alla tipologia dei reati e, inoltre, alle stesse caratteristiche della giurisdizione onoraria, che tende a risolvere i conflitti prevalentemente attraverso interventi e filtri conciliativi; tuttavia, sono state considerate anche esigenze di carattere deflattivo riferite ai compiti del pubblico ministero, al quale non viene sottratta la "competenza" dei reati attribuiti al giudice di pace. La nuova competenza penale allevia il carico del tribunale - anche nella prospettiva futura di un aumento delle attribuzioni -, lasciando, però, invariati i compiti degli uffici di procura: tuttavia, la delega sembra farsi carico anche di tale aspetto, nella misura in cui si preoccupa di limitare l'intervento del pubblico ministero nelle indagini. Ovviamente, si tratta di una limitazione che resta affidata alle valutazioni dello stesso pubblico ministero, nel senso che non opera come divieto per la parte pubblica del processo di svolgere il ruolo specifico che le assegna l'ordinamento processuale e che le consente di limitarsi ad effettuare un controllo finale sulle indagini affidate alla polizia giudiziaria, per poi determinarsi nel senso dell'esercizio dell'azione penale, ovvero della richiesta di archiviazione della notizia di reato ritenuta infondata.

Si sottolinea, inoltre, che la direttiva di cui alla lett. b) del citato articolo 17 della delega, si pone in un rapporto alternativo rispetto alle previsioni contenute nelle successive lett. c), d) ed e), che prevedono una forma di vocatio in iudicium che prescinde dalla fase preliminare delle indagini e si affida all'iniziativa della parte offesa, alla quale viene offerta la possibilità, limitatamente al caso di reati perseguibili a querela, di ricorrere direttamente al giudice per poter ottenere una pronuncia sulla responsabilità dell'imputato. Tenuto conto che i delitti perseguibili a querela rappresentano il dato quantitativamente più rilevante della competenza del giudice di pace, può prevedersi che il ricorso diretto diventi la forma elettiva di vocatio per i reati perseguibili a querela; l'altra forma, affidata prevalentemente all'iniziativa della polizia giudiziaria, finirà invece per gestire i reati perseguibili di ufficio e, quindi, soprattutto le contravvenzioni.

3.1. Attività di indagine della polizia giudiziaria - L'articolo 11 del decreto disciplina le modalità di svolgimento delle indagini ad opera della polizia giudiziaria, funzionali all'assolvimento dell'obbligo di riferire la notizia di reato. La disposizione deroga, in parte, a quanto previsto dall'articolo 347 c.p.p., nel senso che impone alla polizia giudiziaria, che abbia acquisito una notizia di reato, di compiere di propria iniziativa tutti gli atti di indagine necessari per la ricostruzione del fatto e per l'individuazione dell'autore del reato. In realtà, anche sulla base degli articoli 347 e 348 c.p.p. la polizia giudiziaria compie oggi un'attività formale di indagine, consistente nell'assicurare le fonti di prova e nel raccogliere ogni elemento utile alla ricostruzione del fatto e alla individuazione del colpevole. La differenza è rappresentata dalla circostanza che la norma in esame, in maniera esplicita, attribuisce alla polizia giudiziaria il compito di porre in essere un'attività investigativa completa, non limitata all'espletamento degli atti urgenti o ad una prima informativa al pubblico ministero sulla notizia di reato. In particolare, la comunicazione o informativa di reato viene sostituita dalla relazione che la polizia giudiziaria deve trasmettere al pubblico ministero sull'attività investigativa svolta e l'articolo 11 comma 2 precisa che, nel caso in cui la stessa polizia ritenga fondata la notizia, debba predisporre anche un'ipotesi di imputazione (enunciazione del fatto in forma chiara e precisa, con l'indicazione degli articoli di legge violati), richiedendo l'autorizzazione a disporre la citazione a giudizio della persona sottoposta ad indagini. Da attività prevalentemente informativa, destinata a far apprendere i dati necessari per l'iscrizione della notizia nel registro di reato e a porre il pubblico ministero in condizione di orientare e dirigere le indagini, l'attività della polizia, in questa fase, diventa stabilmente funzionale ad esaurire le indagini, offrendo al pubblico ministero un quadro investigativo completo che gli consenta la scelta tra la richiesta di archiviazione o l'esercizio dell'azione penale.

D'altra parte, si tratta di una soluzione che risulta pienamente aderente al criterio di delega, che non contiene alcun riferimento ad una atipica attività investigativa della polizia giudiziaria, con nuovi termini di chiusura delle indagini o con un ampliamento dei poteri investigativi, ma che sembra piuttosto richiamare l'attuale modello procedimentale, seppure riconoscendo un ampliamento delle determinazioni investigative della polizia giudiziaria. Sono state tradotte le esigenze del legislatore delegante, tenendo in debito conto le ragioni organizzative degli uffici del pubblico ministero: conservare la possibilità di esercitare ogni forma di controllo, compresa quella relativa alla direzione delle indagini, ma senza l'onere della gestione diretta delle indagini, che almeno in prima battuta restano affidate alla polizia giudiziaria.

Peraltro, l'eventuale attribuzione di nuovi poteri investigativi alla polizia giudiziaria non avrebbe trovato una ragionevole giustificazione con riferimento ad un modello di processo che si pone tra gli obiettivi principali quello della conciliazione delle parti e della mediazione dei micro-conflitti interpersonali.

L'attribuzione di una maggiore capacità di iniziativa investigativa, che prescinde da un necessario ed immediato coinvolgimento nelle indagini del pubblico ministero, esige una completezza dei mezzi investigativi a disposizione della polizia giudiziaria. Nella misura in cui la fase delle indagini viene affidata prevalentemente alla polizia giudiziaria, con lo specifico compito di svolgere indagini tendenzialmente complete, ad essa deve essere assicurata la possibilità di compiere per lo meno tutti gli atti investigativi del pubblico ministero. Coerentemente con l'impostazione cui sopra si è fatto riferimento, non sono stati riconosciuti poteri nuovi e diretti in capo alla polizia giudiziaria, ma si è previsto, all'art. 13, un meccanismo procedimentale in forza del quale la polizia giudiziaria può richiedere al pubblico ministero di essere autorizzata al compimento di singoli atti che normalmente non può compiere autonomamente. In sostanza, si realizza un rovesciamento del rapporto tra polizia giudiziaria e pubblico ministero: non è quest'ultimo che, dirigendo le indagini, delega la polizia giudiziaria per alcuni atti, ma è la polizia giudiziaria che nello svolgimento delle investigazioni si rivolge al pubblico ministero, per essere autorizzata al compimento di un atto che ritiene sia necessario in quella fase delle indagini.

E' l'articolo 13 che individua gli atti oggetto di questa speciale autorizzazione: si tratta, innanzitutto, degli interrogatori e dei confronti, che sono già oggi delegabili dal pubblico ministero; inoltre, vengono presi in considerazione anche i sequestri e le perquisizioni, nei soli casi in cui la polizia non può procedervi di propria iniziativa; infine, vi sono ricompresi gli accertamenti tecnici irripetibili che la legge riserva al solo pubblico ministero. In questo modo, l'attività della polizia giudiziaria viene ad avvicinarsi, almeno per quanto concerne il ricorso ai mezzi tipici di investigazione, a quella del pubblico ministero, senza arrivare ad una attribuzione stabile di tali poteri, ma lasciando all'organo di direzione delle indagini ogni potere di valutazione in concreto.

Il meccanismo disciplinato dal richiamato articolo 13 prevede che dinanzi alla richiesta della polizia giudiziaria, il pubblico ministero possa autorizzare il singolo atto mediante delega specifica, oppure decidere di compiere personalmente l'atto richiesto. In entrambi i casi, l'intervento del pubblico ministero resta episodico, non finisce cioè per "condizionare" le indagini della polizia giudiziaria. Nel primo caso, si tratta di una semplice autorizzazione; nell'altra ipotesi il pubblico ministero si limita a compiere l'atto richiesto, per poi restituire la relativa documentazione alla polizia giudiziaria che procederà oltre nelle indagini. Non viene svolto alcun controllo o verifica sui risultati – parziali – delle indagini, ma il pubblico ministero si limita a rimuovere un ostacolo giuridico per il proficuo svolgimento delle indagini. Naturalmente, la polizia giudiziaria dovrà in qualche modo motivare le ragioni della richiesta e potrà anche portare a conoscenza del pubblico ministero i risultati provvisori sull'attività svolta.

Naturalmente il pubblico ministero potrà anche negare l'autorizzazione, sia in base a valutazioni di scelta investigativa, che per ragioni legate, ad esempio, alla mancanza di presupposti per lo svolgimento dell'atto richiesto.

Inoltre, l'articolo 13 considera espressamente l'ipotesi in cui il pubblico ministero anziché pronunciarsi sulla richiesta di autorizzazione, scelga di procedere personalmente nelle indagini. Si tratterà, normalmente, di casi in cui il pubblico ministero sia in grado di valutare le scelte investigative operate dalla polizia giudiziaria e, non condividendole, decida di assumere personalmente la direzione delle indagini, eventualmente anche delegando il compimento di atti diversi da quelli richiesti, oppure, più semplicemente, limitandosi ad impartire direttive per l'ulteriore corso delle investigazioni.

L'intera struttura del decreto legislativo, nella parte riguardante il processo, è costruita secondo una tecnica legislativa che, da un lato propone disposizioni in deroga alle norme e agli istituti del codice di procedura penale, dall'altra parte richiede la necessaria integrazione di quelle norme codicistiche che non siano incompatibili con il decreto stesso (articolo 2, comma 1). Tale impostazione è valida anche per le disposizioni in materia di indagini preliminari che, quindi, devono essere lette tenendo presente le norme del codice di rito con le quali vanno integrate.

In particolare, per quanto riguarda l'attività di polizia giudiziaria trovano applicazione tutte le ordinarie disposizioni in materia di atti di investigazione, dall'identificazione della persona nei cui confronti vengono svolte indagini (articolo 349 c.p.p.), alle norme sulla documentazione dell'attività di polizia giudiziaria (articolo 357 c.p.p.). Così, ad esempio, nel caso in cui la polizia giudiziaria proceda ad un sequestro, dovrà osservare le disposizioni contenute nell'articolo 355 c.p.p. in materia di convalida e, quindi, trasmettere il relativo verbale al pubblico ministero nei tempi e nei modi previsti dalla norma: in tale ipotesi, ovviamente, non troverà applicazione il termine per la presentazione della relazione al pubblico ministero di cui all'articolo 11 del decreto, ma il diverso termine indicato dall'articolo 355 comma 1 c.p.p. (senza ritardo e comunque non oltre le quarantottore). Identica situazione si avrà nel caso di perquisizione eseguita ad iniziativa della polizia giudiziaria (articolo 352 comma 4 c.p.p.) o di sequestro preventivo nei casi di urgenza (articolo 321 comma 3-bis c.p.p.).

In tutte queste ipotesi, la trasmissione del verbale al pubblico ministero secondo tempi diversi rispetto alla trasmissione della relazione finale, non impedisce alla polizia giudiziaria di continuare l'attività di indagine, ma consente alle parti interessate (persona sottoposta alle indagini, persona alla quale le cose sono state sequestrate e quella che avrebbe diritto alla loro restituzione) di poter far valere tempestivamente le proprie ragioni, anche attraverso una richiesta di riesame.

3.2 Notizie di reato ricevute dal pubblico ministero. - La disciplina descritta nel precedente paragrafo considera il caso in cui la notizia di reato sia direttamente acquisita dalla polizia giudiziaria. L'articolo 12 regola, invece, l'ipotesi in cui sia il pubblico ministero a ricevere la notizia di reato o perché ne prende direttamente conoscenza ovvero perché la riceve da privati, da pubblici ufficiali o incaricati di pubblico servizio.

In tali ipotesi, il pubblico ministero ha le medesime possibilità di scelta rispetto a reati non appartenenti alla competenza del giudice di pace e di cui ha immediata e diretta conoscenza: potrà, quindi, richiedere l'archiviazione o disporre la citazione a giudizio dell'imputato, ovvero svolgere le indagini.

La prima opzione si riferisce al caso in cui la notizia appare obiettivamente e immediatamente infondata: non vi è ragione di investire la polizia giudiziaria di una notizia che il pubblico ministero ritiene in partenza non fondata. Ovviamente, la richiesta può riguardare qualunque caso di archiviazione, compreso quello previsto dall'articolo 34 del decreto per la particolare tenuità del fatto.

La seconda scelta è collegata, invece, ad una notitia criminis completa in ogni suo aspetto, anche in relazione ai dati identificativi della persona alla quale il reato è attribuito, che consente al pubblico ministero di poter immediatamente formulare l'imputazione, autorizzando la polizia giudiziaria alla citazione a giudizio dell'imputato.

Nella terza ipotesi, infine, il pubblico ministero ritiene necessario lo svolgimento di indagini per verificare gli elementi contenuti nella notizia ovvero solo per procedere alla identificazione delle persone. L'articolo 12, tuttavia, prevede che il pubblico ministero anziché svolgere personalmente le indagini, attivi il procedimento "ordinario" in cui, come si è detto, è la polizia giudiziaria a svolgere l'attività investigativa. La notizia, quindi, viene trasmessa alla polizia giudiziaria perché proceda a norma dell'articolo 11, per poi consegnare la relazione per le definitive valutazioni sull'esercizio dell'azione penale. Si è preferito ribadire l'ordinarietà della procedura che affida alla polizia giudiziaria l'attività investigativa, almeno in prima battuta, preservando, in ogni caso, il potere del pubblico ministero di controllare lo svolgimento delle indagini nel momento in cui gli viene trasmessa la relazione conclusiva, ovvero anche prima, nelle ipotesi di richiesta di autorizzazione al compimento di atti specifici (articolo 13).

L'articolo 12 prevede, inoltre, che nel trasmettere la notizia di reato il pubblico ministero possa anche impartire alla polizia giudiziaria le necessarie direttive, in modo tale da impostare le indagini secondo filoni investigativi che egli stesso condivide. In questo modo, si evita di coinvolgere il pubblico ministero immediatamente nelle indagini, ma gli si assicura la possibilità di una immediata direzione dell'attività della polizia giudiziaria.

3.3. Iscrizione della notizia di reato. - L'articolo 14 disciplina il regime delle iscrizioni delle notizie di reato. In realtà, la disciplina prevista per il procedimento davanti al giudice di pace non si differenzia da quella prevista dal codice di procedura. Le particolarità sono conseguenti alla diversa struttura delle indagini preliminari. Infatti, nel caso del ricorso diretto ad istanza della persona offesa (articolo 21), mancando una fase preliminare di indagine, non vi è ragione di prevedere l'obbligo di iscrizione della notizia (una forma di registrazione del ricorso sarà prevista dalle norme regolamentari ex articolo 51).

L'iscrizione cui si riferisce l'articolo 14 riguarda, invece, il procedimento che si conclude con la citazione a giudizio ad opera della polizia giudiziaria. Si prevede che l'obbligo di iscrizione sorga con la trasmissione della relazione, che rappresenta il momento in cui il pubblico ministero viene ad avere conoscenza della notizia di reato. In questo caso, all'iscrizione non conseguirà la decorrenza del termine per lo svolgimento delle indagini, in quanto normalmente la trasmissione segnerà la fine e non l'inizio delle indagini. L'iscrizione svolge, prevalentemente, una funzione di registrazione e di controllo, ma ad essa non seguono sempre conseguenze di carattere processuale.

L'articolo 14, inoltre, prevede l'obbligo dell'iscrizione in tutti i casi in cui, anche prima della trasmissione della relazione, il pubblico ministero abbia cognizione della notizia. In particolare, l'iscrizione anticipata della notizia vi sarà in tutti i casi in cui il pubblico ministero ritenga di dovere svolgere personalmente le indagini e ogni volta che, anche in mancanza della relazione, ritenga di dover definire il procedimento con l'immediata richiesta di archiviazione o di citazione a giudizio (articolo 12).

3.4. Chiusura delle indagini preliminari.Gli articoli 15 e 16 disciplinano la fase successiva allo svolgimento delle indagini. Rispetto alle disposizioni del codice di procedura penale, identico è l'epilogo di questa fase: il pubblico ministero, al quale viene trasmessa la relazione, può richiedere l'archiviazione, qualora ritenga infondata la notizia di reato, ovvero esercitare l'azione penale. In quest'ultimo caso, dovrà formulare l'imputazione e, contestualmente, autorizzare la polizia giudiziaria a citare a giudizio l'imputato. Peraltro, nel formulare l'imputazione, qualora la scelta sia coincidente con quella della polizia giudiziaria, potrà utilizzare l'ipotesi di imputazione da questa predisposta nella relazione trasmessagli.

E' in questa fase che il pubblico ministero esercita il controllo sulla fondatezza della notizia e sulla completezza delle indagini.

Proprio con riferimento alle indagini, si è previsto (articolo 15, comma 2), con ciò integrando l'originaria disciplina dello schema di decreto, che il pubblico ministero, qualora ritenga incomplete le indagini eseguite dalla polizia giudiziaria, oppure reputi necessario un approfondimento delle stesse investigazioni, ne disponga l'integrazione.

Onde consentire moduli differenziati di supplemento investigativo, si è precisato che il pubblico ministero possa o provvedervi personalmente, ovvero avvalersi della polizia giudiziaria, alla quale, a seconda dei casi, potrà impartire direttive o delegare specifiche attività: al pubblico ministero è dunque assicurata la possibilità di assumere in pieno la direzione delle indagini

L'articolo 16 contiene la disciplina relativa ai termini di durata delle indagini per i procedimenti penali dinanzi al giudice di pace.

Tale termine, fissato in quattro mesi dall'iscrizione della notizia di reato, appare congruo in relazione alla tipologie degli illeciti devoluti alla competenza di questo giudice, e consente al pubblico ministero, ricevuta la notizia di reato, di avvalersi di tale spatium temporis per l'eventuale completamento delle investigazioni.

Peraltro, non potendosi escludere la necessità in taluni casi di ulteriore attività di indagine, si è, con ciò aderendosi alle osservazioni in tal senso formulate dal Senato, prevista la possibilità di un'ulteriore prosecuzione delle stesse.

Si è dunque introdotta una particolare disciplina (articolo 16, commi 2 e 3), che consente al pubblico ministero di disporre, in presenza di indagini particolarmente complesse, la loro prosecuzione.

Detta prosecuzione è disposta de plano con provvedimento motivato e per un periodo di tempo non superiore a due mesi.

Onde garantire il necessario controllo giurisdizionale in ordine alla legittimità di una dilazione degli ordinari termini di durata delle indagini, il provvedimento del pubblico ministero viene immediatamente comunicato al giudice di pace, individuato a norma dell'articolo 5, comma 2, che ove ritenga insussistenti, in tutto o in parte, le ragioni a fondamento della prosecuzione, dichiara, entro cinque giorni, la chiusura delle indagini ovvero riduce il termine fissato.

In tal modo, la durata massima delle indagini risulta determinata in sei mesi, termine come è noto che il codice di rito individua come quello ordinario per le indagini preliminari.

D'altro canto, nei procedimento de quo, la prosecuzione è sempre riconnessa ad una situazione di particolare complessità che integra un presupposto più rigoroso rispetto a quello della giusta causa previsto dall'articolo 406, comma 1, c.p.p..

Infine, a differenza del procedimento ordinario, è esclusa la possibilità di ulteriori dilazioni dei tempi di indagine.

3.5. Archiviazione - L'articolo 17 è dedicato al procedimento di archiviazione. Si è data attuazione al criterio della delega che prevede, espressamente, che il pubblico ministero debba richiedere l'archiviazione della notizia di reato al giudice di pace competente per territorio, riconoscendo, in questo modo, al giudice onorario le funzioni proprie del giudice per le indagini preliminari.

Come già evidenziato, si è provveduto ad individuare quale giudice di pace competente per l'archiviazione quello c.d. "circondariale", cioè il giudice di pace del luogo ove ha sede il tribunale del circondario in cui è compreso il giudice territorialmente competente. Si tratta di una scelta che non sembra porsi in contrasto con la delega e che, anzi, limita i possibili rischi di incompatibilità tra giudici che svolgono funzioni di controllo sull'esercizio dell'azione penale e quelli che invece devono pronunciarsi sulla responsabilità dell'imputato citato a giudizio. Una diversa soluzione, che ad esempio individuasse come giudice dell'archiviazione lo stesso giudice di pace competente per il giudizio, provocherebbe notevoli problemi organizzativi per lo svolgimento dei processi in tutte quelle sedi in cui, di fatto, vi è un solo giudice di pace: infatti, ogni qual volta il procedimento di archiviazione si dovesse concludere con l'invito al pubblico ministero a formulare l'imputazione o a svolgere ulteriori indagini scatterebbe una causa di incompatibilità per il giudice di pace, che non potrebbe celebrare il dibattimento.

Ciò comporterebbe gravi ricadute sulla funzionalità del sistema complessivo.

Infatti, tenuto conto dell'elevato numero di uffici con in organico solo due giudici di pace (ed in concreto in molti casi con un solo giudice in servizio), potrebbero determinarsi rilevanti difficoltà per l'individuazione del giudice competente al giudizio. Deve in proposito rilevarsi che la stessa legge di delega ha inserito, nella legge n. 374 del 1991, l'articolo 10-bis che fa divieto, salvo i casi di vacanza o impedimento temporaneo del giudice (situazioni non riconducibili a quella in argomento), di disporre l'applicazione o la supplenza dei giudici di pace presso altri uffici.

A fronte di tale disciplina, che non è parsa modificabile in sede di attuazione della delega, la soluzione adottata è sembrata l'unica in grado di non determinare seri rischi di paralisi del processo.

L'individuazione di una competenza "circondariale" per il procedimento di archiviazione è, d'altro canto, ugualmente rispettosa del criterio di delega, in quanto definisce, preventivamente ed in termini generali ed astratti una competenza per territorio del giudice di pace – sempre collegata al locus commissi delicti - e, inoltre, limita radicalmente i rischi di possibili cause di incompatibilità nella misura in cui assegna tale compito ad un giudice di pace avente sede negli uffici più grandi e dotati di un organico adeguato.

Per quel che riguarda le ipotesi in cui può disporsi l'archiviazione, la norma fa riferimento anzitutto ai casi di infondatezza della notizia di reato.

Inoltre, si potrà procedere all'archiviazione della notizia qualora manchi una condizione di procedibilità o il fatto non sia previsto dalla legge come reato oppure qualora il reato sia estinto (articolo 411 c.p.p.), ovvero l'autore o gli autori del reato restino ignoti (articolo 415 comma 1 c.p.p.).

Inoltre, è stata espressamente richiamata la disposizione di cui all'articolo 125 disp. att., che consente l'archiviazione quando gli elementi acquisiti nelle indagini preliminari non sono idonei a sostenere l'accusa in giudizio.

Infine, a fini di fugare ogni possibile dubbio, è stato previsto che la richiesta di archiviazione può essere formulata nell'ipotesi di cui all'articolo 34 del decreto (particolare tenuità del fatto).

Per quanto riguarda il procedimento, l'unica differenza di rilievo rispetto alla disciplina del codice è rappresentata dalla mancata previsione dell'udienza da tenere in caso di opposizione della persona offesa all'archiviazione. L'articolo 17, infatti, si limita a prevedere un contraddittorio cartolare, in omaggio al principio di semplificazione contenuto nella delega. Si prevede che copia della richiesta di archiviazione venga notificata alla persona offesa che nella notizia di reato o successivamente alla sua presentazione abbia dichiarato di volere essere informata circa l'eventuale archiviazione. Nella richiesta deve essere precisato che nel termine di dieci giorni la persona offesa può prendere visione degli atti e presentare richiesta motivata di prosecuzione delle indagini preliminari. Con l'opposizione alla richiesta di archiviazione la persona offesa deve indicare, a pena di inammissibilità, gli elementi di prova che giustificano il rigetto della richiesta o le ulteriori indagini necessarie.

Il pubblico ministero deve in ogni caso procedere ai sensi delle disposizioni indicate quando la richiesta di archiviazione è successiva alla trasmissione del ricorso immediato da parte del giudice di pace ai sensi dell'articolo 26, comma 2 del decreto (inammissibilità o manifesta infondatezza del ricorso).

Con la presentazione del ricorso diretto, infatti, la persona offesa assume un ruolo propulsivo del procedimento, dovendo pertanto essere necessariamente consentito il suo intervento in caso di richiesta di archiviazione.

Se la richiesta di archiviazione non viene accolta, il giudice restituisce gli atti al pubblico ministero indicando le ulteriori indagini necessarie e fissando il termine indispensabile per il loro compimento ovvero disponendo che entro dieci giorni il pubblico ministero formuli l'imputazione.

3.6. Assunzione di prove non rinviabili. - Il criterio generale della massima semplificazione del processo imposto dalla legge di delega e la stessa struttura della fase delle indagini delineata dall'articolo 17 comma 1 lett. b), hanno portato a ridurre il ruolo dell'incidente probatorio. Come è noto, si tratta di un istituto, previsto nel codice di procedura, destinato a consentire l'assunzione, nel rispetto del contraddittorio e davanti al giudice per le indagini preliminari, di prove destinate ad avere piena efficacia nella fase del giudizio, ma che vengono assunte nel corso delle indagini sul presupposto della non ripetibilità in dibattimento. Si tratta, cioè, di preservare al giudice del giudizio risultati probatori non sottraibili alla sua cognizione.

La scelta, contenuta nel decreto, di prevedere, solo per alcuni specifici atti, l'intervento del giudice di pace c.d. "circondariale" in funzione di giudice per le indagini preliminare, ha consigliato di ridurre al massimo l'ambito applicativo dell'incidente probatorio che, soprattutto a seguito delle ultime riforme, ha visto notevolmente ampliato il proprio ruolo. Peraltro, considerando la tipologia dei reati attribuiti alla competenza della magistratura onoraria, deve riconoscersi come il ricorso all'incidente probatorio sarebbe, in ogni caso, del tutto residuale in questo processo. Da qui l'opzione di non riproporre l'istituto, soprattutto con riferimento ai diversi casi previsti dall'articolo 392 c.p.p..

Tuttavia, una radicale esclusione di meccanismi processuali diretti a consentire l'immediata assunzione di prove non rinviabili al dibattimento, avrebbe avuto l'effetto di compromettere i diritti delle parti nel processo, che non avrebbero potuto azionare in maniera piena il proprio diritto alla prova.

E' stato, quindi, mutuato dal codice di rito l'istituto previsto dall'articolo 467 c.p.p., con gli opportuni adattamenti del caso (articolo 18). Come è noto si tratta di un istituto - la cui operatività è limitata ad un ambito temporale del processo individuabile nella fase degli atti preliminari al dibattimento - che consente alle parti di richiedere al presidente del tribunale l'assunzione delle prove urgenti non rinviabili al dibattimento.

L'articolo 18 del decreto non limita l'operatività degli atti urgenti alla fase interinale del processo, ma ne amplia l'ambito di applicazione ricomprendendo l'intera fase delle indagini preliminari, fino all'udienza di comparizione, sostituendo, di fatto, l'incidente probatorio, esperibile, appunto, nelle indagini preliminari.

Per quanto concerne il giudice competente ad assumere le prove non rinviabili, nella fase delle indagini all'incombente procederà il giudice circondariale, ai sensi dell'art. 4, comma 2.

Viceversa, dopo la chiusura delle indagini preliminari (e nel procedimento su ricorso della persona offesa, nel quale non vi sono indagini) le prove verranno assunte dallo stesso giudice del dibattimento: in questo caso, non si è individuato il giudice di pace c.d. "circondariale", dal momento che il novellato articolo 34 comma 2-quater c.p.p. esclude espressamente l'incompatibilità del giudice del dibattimento che, in precedenza, abbia provveduto all'assunzione dell'incidente probatorio nel corso delle indagini, fattispecie che deve ritenersi perfettamente applicabile al caso in esame.

La richiesta di assunzione delle prove può provenire dall'imputato, dalla parte offesa o dal pubblico ministero. L'assunzione delle prove avviene nel contraddittorio delle parti, secondo le forme previste per il dibattimento e, così come prescrive l'articolo 467 comma 2 c.p.p., deve essere dato avviso del compimento dell'atto almeno ventiquattro ore prima al pubblico ministero, alla persona offesa e ai difensori.

I verbali degli atti compiuti sono inseriti nel fascicolo per il dibattimento e, quindi, saranno direttamente utilizzabili dal giudice.

3.7. Intervento del giudice di pace nella fase delle indagini preliminariSi è già detto come, nel disciplinare la fase delle indagini preliminari, si siano tenuti in considerazione, da un lato, i criteri specifici dettati dalla citata lett. b), dall'altro la direttiva di ordine generale contenuta in apertura dell'articolo 17 della delega che, nell'imporre come modello di riferimento il procedimento davanti al tribunale in composizione monocratica, enuncia il criterio della massima semplificazione. Il presente decreto ha ritenuto di attuare tali criteri anche con riferimento ai soggetti che agiscono nel corso delle indagini non riproponendo la figura di un giudice ad hoc per le indagini preliminari.

Per evitare rischi di possibili cause di incompatibilità del giudice di pace, nell'esercizio delle diverse funzioni di giudice "delle indagini" e di giudice del dibattimento, si è previsto che la competenza ad emettere i provvedimenti di archiviazione o a disporre i sequestri preventivi e conservativi appartenga al giudice di pace del luogo ove ha sede il tribunale del circondario in cui è compreso il giudice competente territorialmente. In questo modo, è stata individuata una competenza generale "circondariale", impegnando quegli uffici più grandi, con organici adeguati ed in grado di ridurre i rischi di incompatibilità.

Lo stesso criterio di individuazione del giudice per l'archiviazione è previsto anche per una serie di altri provvedimenti che, nel processo ordinario, sono attribuiti al giudice per le indagini preliminari. Così, l'articolo 19, assegna al giudice di pace c.d. "circondariale" la competenza a decidere sull'opposizione degli interessati contro il decreto del pubblico ministero che dispone la restituzione o rigetta la richiesta di restituzione delle cose sequestrate, nonché sulla richiesta di sequestro a norma dell'articolo 368 c.p.p. e di riapertura delle indagini.

La soluzione prescelta coniuga le esigenze della semplificazione e della efficienza, con il rispetto delle garanzie processuali, dal momento che viene confermato il ruolo di controllo e di garanzia di un giudice nel corso delle indagini.

Peraltro, va pure tenuto presente che, nel processo davanti al giudice di pace, il ruolo svolto dal giudice nelle indagini preliminari non assume quegli aspetti di delicatezza che investono i poteri del g.i.p. nel procedimento ordinario, in quanto manca lo snodo dell'udienza preliminare, con i suoi possibili epiloghi alternativi al giudizio e non vi sono misure cautelari da disporre (ad eccezione di quelle di natura reale); allo stesso modo, come già evidenziato, non trova applicazione l'istituto dell'incidente probatorio.

Nello schema di decreto, era stata attribuita al giudice per le indagini preliminari la competenza in ordine all'autorizzazione a disporre le operazioni di intercettazione di conversazioni, mezzo di ricerca della prova utilizzabile, in forza dell'articolo 266 c.p.p., anche per i reati di ingiuria e di minaccia attribuiti alla cognizione del giudice di pace. Scartata l'idea di escludere, per questi reati, il ricorso alle intercettazioni, pena un pregiudizio ingiustificato circa l'utilizzo di un mezzo di ricerca della prova che una disposizione specifica ritiene funzionale all'individuazione dei responsabili di quel tipo di condotte illecite, si era preferito lasciare ad un giudice più attrezzato, anche dal punto di vista organizzativo, la gestione di un mezzo di ricerca della prova particolarmente invasivo.

Peraltro, nel parere formulato dalla Commissione Giustizia del Senato, si è evidenziato che tale soluzione non era del tutto ragionevole tenuto conto che in realtà i maggiori incombenti gravano sull'ufficio di procura.

L'osservazione è apparsa persuasiva e dunque si è prevista la competenza del giudice di pace "circondariale" anche in relazione alla richiesta di autorizzazione all'intercettazione e ai provvedimenti conseguenti.

4. Atti introduttivi del giudizio: la citazione ad opera della polizia giudiziaria. - L'articolo 20 disciplina una delle due forme di vocatio in ius previste dal presente decreto. In attuazione della delega è la polizia giudiziaria che, sulla base dell'imputazione formulata dal pubblico ministero, provvede a citare l'imputato davanti al giudice di pace.

La citazione contiene le generalità dell'imputato e le altre indicazioni personali che valgono ad identificarlo, l'indicazione della persona offesa, qualora risulti identificata, l'imputazione formulata dal pubblico ministero e l'indicazione delle fonti di prova di cui si chiede l'ammissione. Se viene chiesto l'esame di testimoni o consulenti tecnici, nell'atto devono essere indicate, a pena di inammissibilità, anche le circostanze su cui deve vertere l'esame. Per il resto la citazione deve contenere le normali indicazioni relative al giudice competente per il giudizio, nonché gli avvisi all'imputato circa le sue facoltà difensive. La citazione è notificata, a cura della polizia giudiziaria, all'imputato, al suo difensore e alla parte offesa almeno trenta giorni prima dell'udienza ed è depositata nella segreteria del pubblico ministero unitamente al fascicolo contenente la documentazione relativa alle indagini espletate.

L'atto di citazione di cui all'articolo 20, presenta una struttura a formazione complessa, nel senso che esso è composta dall'imputazione formulata dal pubblico ministero, inserita nella citazione a comparire, che è atto proprio della polizia giudiziaria, tanto è vero che è prevista la sottoscrizione di un ufficiale di polizia giudiziaria. In ogni caso, la citazione a giudizio avviene sulla base delle precise disposizioni del pubblico ministero che, oltre a formulare l'imputazione ed autorizzare la citazione, deve anche richiedere la data di fissazione dell'udienza al giudice (articolo 49) per poi comunicarla alla polizia giudiziaria, che dovrà provvedere alla materiale predisposizione dell'atto e alle necessarie notificazioni.

In realtà, il criterio di delega fa riferimento ai poteri della polizia giudiziaria di "disporre direttamente la comparizione dell'imputato davanti al giudice"; tuttavia, un interpretazione formalistica del criterio avrebbe portato a considerare la possibilità di disporre una sorta di comparizione, anche coattiva, dell'imputato ad opera della polizia giudiziaria, soluzione questa improponibile sia perché non conforme ai principi della Costituzione, sia perché non in linea con la stessa impostazione generale della legge delega, che nel procedimento davanti al giudice di pace esclude il ricorso a mezzi coercitivi.

Pertanto, la soluzione prescelta traduce la direttiva della delega nel senso di attribuire alla "responsabilità" della polizia giudiziaria l'intera fase che precede il giudizio: non solo lo svolgimento delle indagini, ma anche la vocatio in ius dell'imputato, utilizzando l'ordinario istituto della citazione a giudizio.

4.1. Citazione su istanza della persona offesa. - Gli articoli da 21 a 28, con un'appendice costituita dall'articolo 30 collocato nel capo dedicato al "giudizio" e dall'articolo 38 in tema di impugnazioni, disciplinano il "ricorso immediato" al giudice da parte della persona offesa per i reati procedibili a querela, in attuazione dell'articolo 17 comma 1 lett. c), d) ed e) della legge delega.

Sul punto si registra una delle innovazioni più significative (anche sul piano generale) introdotte dalla delega, in quanto il privato viene autorizzato, pur con alcuni temperamenti relativi alla informazione del pubblico ministero finalizzata ad un suo eventuale intervento, a promuovere direttamente il giudizio in materia penale, così evocando la figura dell'azione penale privata.

Si è posta, dunque, la necessità di una scelta di fondo tra una soluzione decisamente orientata verso questo istituto, non totalmente sconosciuto all'ordinamento vigente (v. per esempio, almeno secondo una certa interpretazione, l'articolo 100 d.p.r. 16 maggio 1960 n. 570 in materia di reati elettorali) e di per sè non contrastante con l'articolo 112 Cost. (v. per esempio Corte costituzionale, sent. 26 luglio 1979, n. 84), che comportasse l'insorgere di una vera e propria imputazione per volontà privata; ovvero una impostazione meno radicale e assolutista, oltre che più coerente col sistema processuale ordinario. E' prevalsa questa seconda impostazione, in quanto si è ritenuto di dover contemperare i benefici di speditezza per l'interessato e di deflazione del carico di lavoro dell'organo pubblico, assicurati dall'iniziativa del privato, con insopprimibili esigenze di controllo preventivo del pubblico ministero, anche a garanzia dei diritti di difesa, come del resto richiesto dall'articolo 17 comma 1 lett. e) della legge delega.

Probabilmente la formulazione della lettera c) del citato articolo 17 ("la citazione in giudizio può essere esercitata anche direttamente dalla persona offesa"), anche alla luce delle considerazioni sulla (non accolta) soppressione dell'inciso avanzate nel corso dei lavori parlamentari, non avrebbe consentito l'affidamento monopolistico dell'esercizio dell'azione penale al privato, sebbene soltanto per "taluni" reati da enucleare appositamente, ostandovi il dettato dell'articolo 112 Cost., che assegna al pubblico ministero (eventualmente non in maniera esclusiva) l'iniziativa penale. Ma pur nella scelta di un regime misto, è parso poi francamente troppo azzardato e in definitiva inaccettabile che il privato potesse comunque determinare motu proprio l'elevazione di una formale imputazione a carico della persona di cui si chiede la convocazione a giudizio e la assunzione in capo a questi della qualità di imputato. Ciò avrebbe provocato il rischio di avallare chiamate in giudizio totalmente infondate o puramente strumentali e comunque non pertinenti all'oggetto penale, con evidenti conseguenze pregiudizievoli, almeno nella sostanza e nell'immediato, a carico del vocatus in jus, sebbene redimibili, ma tardivamente, in fasi successive del giudizio con gli ordinari mezzi di controllo del pubblico ministero e del giudice.

Si è così preferito impostare il nuovo istituto sulla falsariga di una sorta di citazione civile con effetti penali (ispirandosi per certi versi al ricorso nel processo del lavoro, per la sua tempistica, e alla costituzione di parte civile nel processo penale), che consenta all'interessato di giungere in tempi brevi a quell'udienza volta a ottenere soddisfazione del torto subito, che per le vie ordinarie (ossia a seguito di semplice presentazione della querela) avrebbe sicuramente cadenze di fissazione molto più lunghe. Una volta avviato il procedimento con la presentazione del ricorso è, però, rimesso al pubblico ministero di aderirvi o meno, promuovendone la prosecuzione o la interruzione con le proprie richieste al giudice.

Con il ricorso immediato vengono posti in capo al ricorrente particolari oneri (si pensi al complesso contenuto del ricorso, agli oneri di notificazione, agli effetti della ingiustificata assenza in giudizio), che però non possono in alcun modo ritenersi "punitivi" e tali da scoraggiare a priori l'accesso a questo sistema alternativo di citazione a giudizio, da cui probabilmente molto si aspettava il legislatore delegante nell'introdurlo. Si deve, infatti, considerare innanzi tutto che il privato deve obbligatoriamente munirsi di un difensore tecnico, perfettamente in grado per estrazione professionale di adempiere agevolmente agli incombenti richiesti. Inoltre, appare pienamente giustificato che il prezioso vantaggio conferito alla persona offesa di poter ottenere la convocazione in udienza del presunto autore del reato entro un termine assai ristretto e comunque non superiore a centodieci giorni (v. articolo 27) debba essere compensato dalla previsione di stringenti formalità sia nell'ottica, perseguita dal legislatore delegante, di uno sgravio degli incombenti addossati alla pubblica accusa sia per scoraggiare iniziative infondate e strumentali. Né va dimenticato che la persona offesa che non intenda sobbarcarsi l'impegno processuale che il ricorso immediato comporta, avrà pur sempre la possibilità di seguire le vie ordinarie con la proposizione di una semplice querela.

4.2. Ambito applicativo del ricorso. - L'articolo 21, che disciplina il contenuto del ricorso, esordisce con la previsione di ammissibilità della citazione privata per i reati procedibili a querela di competenza del giudice di pace. Ciò significa, come si diceva, che per tali reati il regime introdotto è alternativo e non esclusivo rispetto alle forme ordinarie, che verranno attivate a seguito della presentazione della querela. Tale soluzione è stata ritenuta per certi versi obbligata, stante il precetto dell'articolo 112 Cost., che non consentirebbe di sottrarre in linea generale e definitiva al pubblico ministero il potere-dovere di esercitare l'azione penale; e per altri versi comunque preferibile sul piano della opportunità, per non imporre al cittadino, persona offesa del reato, di avvalersi di un meccanismo più dispendioso, derivante dalla necessità di un'assistenza tecnica.

I reati per i quali è consentito il ricorso sono quelli procedibili a querela di parte attribuiti alla competenza del giudice di pace. Tale formulazione estensiva non pare in contrasto con la delega che prevede il ricorso a questo strumento per "taluni reati perseguibili a querela". Infatti, la delega stessa non fornisce alcun criterio discretivo per presceglierli, né è apparso possibile individuarli altrimenti; in difetto di un ragionevole criterio diselezione, l'esclusione di un reato piuttosto che di un altro avrebbe potuto determinare dubbi di conformità costituzionale.

Va rilevato, infatti, che l'elemento comune di tali reati, costituito dalla loro procedibilità a querela, fa risaltare l'interesse privato alla punizione del colpevole; tale connotazione renderebbe poco giustificabile la limitazione a solo alcuni di essi dello strumento del ricorso immediato.

In ragione di questa caratterizzazione, si è costruito il ricorso come atto equivalente alla presentazione della querela, di cui produce tutti gli effetti.

Ne consegue che i soggetti abilitati ad avvalersene sono le persone offese dal reato indicate dall'articolo 120 c.p., con la limitazione che, per i minori degli anni quattordici, i minori ultraquattordicenni, gli interdetti e gli inabilitati, la legittimazione al ricorso compete soltanto (come riflesso della funzione anche risarcitoria dell'azione, come si vedrà infra) al genitore, al tutore o al curatore speciale nel caso dell'articolo 121 c.p.p. .

Proprio la disciplina delle formalità di costituzione di parte civile ai sensi dell'articolo 78 c.p.p. ha in qualche misura ispirato il contenuto del ricorso, in particolare per quanto attiene alle lettere b), c) ed e).

Rispondono a una logica diversa i requisiti di cui alle lettere f), g) e h).

E', dunque, richiesto che l'offeso descriva "in forma chiara e precisa" il fatto che si addebita alla persona citata a giudizio, con formulazione che di proposito richiama quella analoga del decreto che dispone il giudizio (articolo 429 comma 1 lett. c) c.p.p.) e del decreto di citazione a giudizio (articolo 552 comma 1 lett. c) c.p.p.). Ciò non contraddice il contenuto meramente propositivo e non dispositivo della contestazione privata rispetto all'intervento del pubblico ministero di cui all'articolo 25. E infatti anche la terminologia adottata ("descrizione" e non "enunciazione" come nelle citate disposizioni del codice di rito) è indice della circostanza che nel ricorso non è elevata una imputazione, ma è solo descritto un fatto di reato come si assume avvenuto.

Ciò nonostante, si pretende ugualmente l'adempimento da parte del ricorrente di un onere di chiarezza e precisione in quanto la descrizione del fatto costituisce la base dell'intervento del pubblico ministero, che potrà anche soltanto confermare l'addebito come prospettato nel ricorso. D'altra parte, il necessario intervento del difensore renderà possibile l'adempimento dell'onere.

Conformemente a quanto richiesto per la citazione a giudizio disposta dalla polizia giudiziaria (articolo 20), le caratteristiche di massima semplificazione e speditezza che devono plasmare il rito davanti al giudice di pace hanno imposto altresì di anticipare alla presentazione del ricorso l'indicazione delle fonti di prova a sostegno della richiesta e delle circostanze su cui deve vertere l'eventuale esame di testimoni e consulenti tecnici, nonché l'allegazione dei documenti di cui si chiede l'acquisizione. Tali oneri sono tanto più stringenti in quanto previsti a pena di inammissibilità del ricorso (articolo 24 comma 1 lett. c).

E' importante, infine, sottolineare la previsione dell'onere di indicazione delle altre persone offese dal medesimo reato di cui sia nota l'identità (articolo 21, comma 1 lett. d), in quanto funzionale al meccanismo di "intervento per adesione" di cui all'articolo 28.

Il ricorso si chiude con la richiesta al giudice di fissazione dell'udienza per procedere contro le persone citate a giudizio. Tale formulazione combina icasticamente la duplice funzione propria del ricorso: da una parte quella di manifestazione della volontà punitiva (che lo parifica alla querela) e dall'altra quella di impulso processuale.

Ciò spiega anche perché il ricorso vada sottoscritto sia dalla persona offesa (o dal suo legale rappresentante), sia dal difensore. La sottoscrizione del primo è autenticata dal secondo, come oggi consentito per la costituzione di parte civile dal novellato articolo 100, comma 1, c.p.p.

4.3. Presentazione del ricorso. - Il ricorso deve essere presentato nella cancelleria del giudice di pace territorialmente competente entro il termine di tre mesi dalla conoscenza del fatto che costituisce reato, termine che è significativamente identico a quello previsto dall'articolo 124 c.p. per la proposizione della querela (articolo 22).

Al ricorso deve essere allegata la documentazione attestante la preventiva comunicazione al pubblico ministero tramite deposito di copia del ricorso nella sua segreteria, con modalità, dunque, analoghe a quelle previste in via generale dall'articolo 153 c.p.p.. Ciò è funzionale a garantire l'intervento preventivo dell'organo pubblico di cui all'articolo 25.

I successivi commi dell'articolo in esame risolvono il problema dei rapporti tra ricorso e querela.

In questa prospettiva, la questione attiene non tanto il profilo relativo al carattere della citazione privata rispetto alla querela, già risolto dal primo comma dell'articolo 21; piuttosto, il problema delicato consiste nella scelta circa l'eventualità di una doppia via di accesso alla giustizia, quella ordinaria, per il tramite della querela, e quella immediata per mezzo del ricorso, anche dopo che ne sia già stata attivata una.

Nel caso di originaria presentazione del ricorso il problema non si pone neppure, poiché, come si è visto, esso è parificato alla querela.

Diverso il caso opposto, in cui sia stata proposta la querela e solo successivamente l'interessato maturi l'intenzione di avvalersi dello strumento acceleratorio costituito dal ricorso. Consentire alla persona offesa di attivare in sequenza entrambi gli strumenti di impulso processuale potrebbe determinare taluni problemi derivanti dalla possibile interferenza dei due procedimenti, uno ordinario e l'altro speciale.

Sulla base di tali argomentazioni, nello schema di decreto si era prefigurata una soluzione drastica, volta ad inibire strumento del ricorso immediato a chi avesse già presentato querela, ovviamente per il medesimo fatto.

Peraltro, nel parere formulato dal Senato, tale scelta è stata oggetto di rilievi, sia sotto il profilo di un interesse della persona offesa a presentare una immediata querela, con successiva attivazione del meccanismo del ricorso immediato, sia sulla base della considerazione che l'eventuale attività svolta dalla polizia giudiziaria dopo la presentazione della querela non è inutile ai fini conciliativi e dell'eventuale giudizio.

La disciplina è stata dunque modificata nel senso auspicato dal Senato, prevedendosi che, se per il medesimo fatto la persona offesa ha già presentato querela, deve farne menzione nel ricorso, allegandone copia e depositandone altra copia presso la segreteria del pubblico ministero.

In tal modo, si scongiura il rischio di una duplicazione di procedimenti: il pubblico ministero, una volta che il giudice avrà fissato l'udienza a seguito del ricorso, disporrà infatti la cessazione delle investigazioni.

La norma precisa poi che il giudice di pace dispone l'acquisizione dell'originale della querela e che nel procedimento non sono applicabili le diverse disposizioni relative all'ordinaria procedura.

La diversa ipotesi di più persone offese dallo stesso reato che abbiano già proposto querela, trova la sua specifica disciplina nell'articolo 28.

4.4. Costituzione di parte civile nel ricorso. - Il ricorso immediato al giudice sarà normalmente scelto dall'offeso del reato con lo scopo di ottenere in tempi rapidi non solo e non tanto la condanna della persona citata a giudizio, quanto piuttosto il ristoro dei danni subiti. Si è, infatti, già sottolineata la natura tendenzialmente mista (attivazione del procedimento penale accompagnata da una funzione di tutela civilistica) che caratterizza l'istituto.

Pertanto, sebbene non possa escludersi un ricorso che non si accompagni a una pretesa risarcitoria, sarà questa la regola, già nella intenzione del privato. Se ne è tratta la conseguenza sul piano normativo prevedendo, da una parte, che la costituzione di parte civile debba avvenire, a pena di decadenza, con la presentazione stessa del ricorso (senza possibilità di recuperi successivi, come avrebbe altrimenti consentito la disposizione generale di cui all'articolo 79 c.p.p.); dall'altra, equiparando la richiesta motivata di restituzione o di risarcimento del danno, contenuta nel ricorso, alla costituzione di parte civile (articolo 23).

Tale parificazione si giustifica tanto più in quanto il ricorso contiene già, ai sensi dell'articolo 21 comma 2, tutti gli elementi che l'articolo 78 c.p.p. richiede per una valida costituzione di parte civile nel processo davanti al tribunale, ad eccezione della espressa domanda che introduce il contenzioso civilistico; ma che, appunto, una volta inglobata nel ricorso, gli permette di svolgere anche questa ulteriore funzione.

4.5. Casi di inammissibilità del ricorso. - L'articolo 24 disciplina i casi di inammissibilità del ricorso e va coordinata con i successivi articoli 25 e 26, che prevedono, tra l'altro, le modalità di deduzione di tale vizio da parte del pubblico ministero e della declaratoria del giudice e le relative conseguenze.

Le cause di inammissibilità possono suddividersi in tre gruppi, che rispecchiano rispettivamente ciascuno degli aspetti che sostanziano il ricorso.

La lettera a) considera l'ipotesi di presentazione del ricorso oltre il termine di tre mesi dalla notizia del fatto costituente reato. La ratio evidente della disposizione si fonda sulla circostanza che il ricorso equivale a presentazione della querela, sicché la proposizione del primo non può, ovviamente, avvenire oltre i termini assegnati in via generale per l'esercizio della seconda.

La lettera b) riguarda la presentazione del ricorso fuori dei casi previsti. Il riferimento rimanda ai limiti di proponibilità di cui all'articolo 21 comma 1, e dunque alle ipotesi in cui il reato non sia di competenza del giudice di pace o non sia procedibile a querela di parte ovvero ancora il ricorso sia stato presentato da soggetto non legittimato.

Le lettere successive disciplinano casi variamente riconducibili a vizi formali dell'atto. Per quanto attiene alle lettere c) ed e), vi è solo da evidenziare come la prima afferisca al difetto dei requisiti di cui all'articolo 21 comma 2 e alla mancata sottoscrizione da parte dei soggetti e con le modalità indicate dai commi 3 e 4 del medesimo articolo; mentre la seconda si riferisce alla mancanza di prova della comunicazione del ricorso al pubblico ministero. Conviene precisare che l'erronea indicazione degli articoli di legge che si assumono violati (v. articolo 21 comma 2 lett. f) non comporta inammissibilità del ricorso, perché essa non equivale ad omissione.

D'altra parte, la sanzione dell'inammissibilità nel caso di vera e propria omissione si giustifica poiché il privato è tenuto a delimitare con precisione l'ambito oggettivo degli addebiti in ordine ai quali il ricorso è proposto.

La descrizione dei fatti potrebbe contenere, magari per ragioni di contesto, anche riferimenti a fattispecie, astrattamente suscettibili di ricorso immediato, ma per le quali l'offeso non intende avvalersi dello strumento di impulso processuale (si pensi, a titolo di esempio, ad un soggetto che sia stato ingiuriato e minacciato, ma che non intenda procedere per le ingiurie perché già risarcito per le stesse oppure perché le ritiene non punibili ai sensi dell'articolo 599 c.p.).

Di maggiore rilievo è la causa di inammissibilità sanzionata dalla lettera d), allorché sia insufficiente la descrizione del fatto o l'indicazione delle fonti di prova.

La prima ipotesi è ispirata alla comminatoria di nullità di cui agli articoli 429 comma 2 e 552 comma 2 c.p.p. per il caso di insufficiente enunciazione del fatto: tale scelta si giustifica, innanzitutto, con la considerazione che il privato è tenuto, al fine di consentire un immediato accesso al giudice, non preceduto da attività di indagine, ad indicare in maniera analitica le circostanze di reato attribuite alla persona citata a giudizio.

D'altra parte, il ricorrente deve supportare la descrizione del fatto con l'indicazione delle fonti di prova, sia perché le rapide cadenze procedimentali impongono una anticipazione dell'incombente alla fase introduttiva del giudizio, sia per contribuire a prevenire, con tale sbarramento, citazioni apodittiche e infondate. Ne consegue la prevista sanzione di inammissibilità del ricorso per carente indicazione delle fonti di prova.

Si noti, infine, che i casi esposti nella lettera d) non sono completamente sovrapponibili a quelli della lettera c) in relazione alla assenza di determinati requisiti del ricorso, in quanto non solamente la totale mancanza, ma anche l'insufficienza nella descrizione dell'addebito o nella indicazione delle fonti di prova, rende il ricorso inammissibile.

4.6. Richieste del pubblico ministero. - L'articolo 25, dedicato all'intervento del pubblico ministero, costituisce un momento centrale della citazione per ricorso immediato e del subprocedimento correlativo.

Infatti, la funzione di tale intervento si rinviene nella necessità di salvaguardare l'esercizio dei poteri che, nel rispetto della delega, sono assegnati all'organo pubblico. La scelta di anticipare o posticipare l'intervento del pubblico ministero rispetto all'udienza di convocazione delle parti, l'adesione, anche solo implicita, a favore della previsione dell'addebito mosso dal privato e contenuto nel ricorso o, al contrario, la necessaria sussunzione del medesimo in una formale imputazione, rappresentano questioni di fondo ad alto valore discriminante nella configurazione dell'istituto del ricorso immediato.

Come si è anticipato in premessa, ci si è attestati su una soluzione meno dirompente degli assetti processuali tradizionali, conservando in capo al pubblico ministero l'iniziativa penale propriamente detta, ma cercando nel contempo di sfruttare al massimo le potenzialità propulsive insite nel ricorso privato.

Il sistema è stato, pertanto, scandito in questi passaggi. Il pubblico ministero entro dieci giorni dal deposito del ricorso nella propria segreteria presenta le proprie richieste al giudice di pace, dovendo in particolare valutare se esso possiede tutti i requisiti perché il procedimento possa proseguire.

Qualora il ricorso risulti inammissibile (ai sensi dell'articolo 24), manifestamente infondato o presentato davanti a giudice territorialmente incompetente, il pubblico ministero trasmetterà al giudice parere contrario alla citazione.

Se invece il pubblico ministero non ritenga la sussistenza di tali vizi, dovrà formulare l'imputazione. Si ribadisce così l'esclusiva prerogativa dell'organo pubblico sul tema della imputazione. D'altra parte, l'addebito contenuto nel ricorso potrà, se del caso, essere semplicemente fatto proprio dal pubblico ministero, con un atto formale di assunzione dell'iniziativa penale, che rimanderà alla descrizione del fatto contenuta nel ricorso. Quando, invece, occorra in qualche modo ritoccare l'addebito, il pubblico ministero è abilitato a provvedervi; ciò in sintonia ed in attuazione del principio di delega sulla previsione di "strumenti idonei a una puntuale formulazione della imputazione" (articolo 17 comma 1 lett. e).

In proposito, si deve ritenere che la modifica operata dal pubblico ministero non possa giungere fino al punto di snaturare il thema decidendi circoscritto dall'originario addebito di derivazione privata, integrandolo magari con contestazioni che, pur descritte nella narrativa del ricorso, non abbiano formato oggetto dell'addebito in ordine al quale avviene la citazione.

Il termine di dieci giorni è meramente ordinatorio e, dunque, il parere del pubblico ministero potrà essere validamente espresso anche successivamente; ma l'articolo 26 consente al giudice di soprassedere al parere del pubblico ministero non pervenuto nei termini e decidere ugualmente in ordine ai profili di inammissibilità e manifesta infondatezza del ricorso.

4.7. Provvedimenti del giudice. - Decorso il termine di dieci giorni dalla comunicazione del ricorso al pubblico ministero, il giudice, anche in assenza del parere del primo, potrà valutare l'esistenza di cause di inammissibilità del ricorso o la sua manifesta infondatezza.

In tali ipotesi, il giudice disporrà la trasmissione degli atti al pubblico ministero, per l'ulteriore corso del procedimento.

Il riferimento è alla procedura ordinaria di cui agli articoli 11 e seguenti, ad iniziativa della polizia giudiziaria. Sebbene la delega menzioni espressamente la polizia giudiziaria, si è preferito indicare come destinatario della trasmissione direttamente il pubblico ministero, dal momento che è rimessa a quest'ultimo l'individuazione dell'organo di polizia giudiziaria che dovrà svolgere le indagini.

Per i casi di inammissibilità si è poi scartata l'ipotesi, pur in astratto sostenibile, della pronuncia da parte del giudice di una ordinanza impugnabile, in quanto in tal modo si sarebbe innestata una ulteriore fase incidentale che, anche per i prevedibili tempi ordinari di decisione, si sarebbe posta in netto contrasto con la accentuata caratteristica di immediatezza della citazione per ricorso.

D'altra parte, la trasmissione degli atti non inibisce la prosecuzione del procedimento nelle forme ordinarie, che potrà sfociare, all'esito di eventuali approfondimenti investigativi, in una successiva citazione a giudizio ai sensi dell'articolo 20.

Peraltro, resta aperta la strada alla archiviazione del procedimento ai sensi dell'articolo 17. Esito, questo, verosimile nel caso di precedente declaratoria di manifesta infondatezza.

Con riferimento al meccanismo delineato in ordine alle ipotesi di inammissibilità del ricorso, va rilevato che l'articolo 17 comma 1 lett. d) della legge delega prevede espressamente che il giudice, anziché fissare l'udienza, trasmetta la notizia di reato alla polizia giudiziaria allorché sia necessario svolgere indagini.

Nell'attuare il criterio di delega, si è ritenuto che la valutazione in ordine alla necessità di indagini, collocata in una fase precedente al giudizio, abbia ad oggetto la carenza nella stessa prospettazione offerta dal ricorrente di indicazione di idonei elementi probatori.

Infatti, nel segmento procedimentale in cui si situa la delibazione del giudice (e prima del pubblico ministero, chiamato ad esprimere il proprio parere) non vi è altro parametro di raffronto se non il ricorso medesimo. Ne consegue che la suddetta valutazione non potrà che esercitarsi sulla manifesta inconsistenza dei supporti probatori palesata già dall'atto di citazione privata.

In tal modo si viene incontro anche all'esigenza di prevenire ed evitare imputazioni evanescenti, o al limite calunniose, che nel sistema concepito non sarebbero state ovviabili, una volta convocate le parti in udienza, se non dopo l'assunzione della qualità di imputato e con una sentenza di proscioglimento; mentre, la prevista trasmissione degli atti, in caso di inammissibilità del ricorso per insufficiente indicazione delle fonti di prova, consente una conclusione del procedimento meno traumatica e pregiudizievole, almeno sul piano sostanziale e dell'immagine, per il soggetto a cui l'addebito è rivolto, in quanto resta possibile un provvedimento di archiviazione.

Quando il ricorso è stato presentato in relazione a un reato che non appartiene alla competenza del giudice di pace, non avrebbe senso prevedere una trasmissione degli atti in funzione dell'attivazione delle indagini da parte della polizia giudiziaria, secondo lo schema delineato nel decreto.

Si è, pertanto, previsto che gli atti vadano trasmessi al pubblico ministero, che procederà nelle ordinarie forme disciplinate dal codice di procedura penale.

Diverso il caso in cui l'incompetenza sia territoriale: il giudice di pace dichiara con ordinanza la propria incompetenza restituendo al ricorrente. In questa ipotesi, si è ritenuto irragionevole non consentire di coltivare ulteriormente, davanti al giudice di pace competente, il ricorso; ciò a condizione che la "riassunzione" del procedimento avvenga con reiterazione del ricorso entro il termine, fissato a pena di inammissibilità, di venti giorni dalla restituzione degli atti.

D'altronde, qualora in concreto dopo la restituzione degli atti disposta dal giudice di pace incompetente per territorio residui, rispetto all'ordinario termine di tre mesi dalla notizia del fatto di reato, un termine maggiore di venti giorni, deve ritenersi che la riproposizione del ricorso possa avvenire entro tale maggior termine, sulla base della regola contenuta nell'articolo 22, comma 1.

4.8. Decreto di convocazione delle parti. - Quando il giudice, investito del ricorso, non debba adottare i provvedimenti di cui all'articolo 26, convoca le parti in udienza con decreto.

Il meccanismo di citazione, non immemore nelle sue cadenze del ricorso nel processo del lavoro, si articola sul rispetto di tre termini, di cui i primi due (articolo 27, commi 1 e 2) hanno natura acceleratoria (in quella prospettiva di immediata celebrazione dell'udienza che si è voluto imprimere al ricorso privato) e sono rivolti al giudice, che dovrà osservarli nella fissazione dell'udienza.

Il terzo termine (comma 4) ha carattere dilatorio e riguarda la notificazione del decreto alle parti. Più precisamente il giudice deve emettere il decreto di convocazione non oltre venti giorni dal deposito del ricorso e l'udienza non dovrà essere fissata oltre novanta giorni decorrenti dal medesimo dies a quo.

Detti termini hanno comunque, a differenza del termine a comparire, natura ordinatoria.

Il decreto del giudice contiene una serie di indicazioni, avvisi o statuizioni (si pensi alla nomina del difensore d'ufficio) che, in armonia con il contenuto della citazione ad opera della polizia giudiziaria (articolo 20), ma anche della stessa citazione a giudizio disciplinata dal codice di procedura penale, mirano a garantire il pieno esercizio del diritto di difesa. Va sottolineato l'elemento caratteristico dell'espresso invito a comparire rivolto alla persona nei cui confronti è presentato il ricorso e teso a promuovere quell'incontro tra le parti, che potrebbe essere foriero di soluzioni conciliatorie.

Il decreto, che contiene l'imputazione, è l'atto da cui dipende l'assunzione della qualità di imputato ai sensi dell'articolo 3 e deve essere notificato, unitamente al ricorso, almeno venti giorni prima dell'udienza al pubblico ministero, alla persona citata a giudizio e al suo difensore. Al fine di consentire l'integrazione del contraddittorio disciplinata dall'articolo 28 è altresì previsto che la notificazione debba raggiungere anche le altre persone offese dal medesimo reato delle quali il ricorrente conosca l'identità.

La previsione che la notificazione del decreto avvenga a cura del ricorrente è parsa consona a questo tipo di vocatio in iudicium, rimessa alla volontà del privato e alla sua diligente attivazione.

La convocazione è nulla nei casi indicati nel comma 5, che si ispirano alle analoghe cause di nullità previste per la citazione a giudizio nel processo davanti al tribunale.

4.9. Pluralità di persone offese. - L'articolo 28 mira a dare disciplina all'ipotesi in cui, essendo plurimi gli offesi dal medesimo reato, non tutti si avvalgano del ricorso immediato.

A parte il caso in cui siano separatamente presentati più ricorsi, che potrà essere risolto attraverso l'istituto della riunione, può verificarsi che le persone offese diverse dal ricorrente siano rimaste del tutto inerti, non presentando neppure querela, oppure l'abbiano autonomamente proposta. Con riguardo alla prima ipotesi l'integrazione del contraddittorio mira a evitare duplicazioni di procedimenti, che rimarrebbero altrimenti possibili.

Si è così previsto che le persone offese non ricorrenti, le quali avranno ricevuto la notificazione del decreto di convocazione, ai sensi dell'articolo 27 comma 4, possano aderire al ricorso con gli stessi diritti e oneri del ricorrente principale. Pertanto, esse dovranno munirsi dell'assistenza di un difensore e potranno costituirsi parte civile, alle condizioni e con le modalità ordinarie previste dal codice di procedura penale, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento.

In analogia agli effetti sulla procedibilità previsti dall'articolo 30 comma 1 per il ricorrente principale ingiustificatamente assente, la mancata comparizione delle persone offese, a cui sia stato regolarmente notificato il decreto di convocazione, determina la rinuncia tacita al diritto di querela. ove non ancora presentata, o la sua remissione in caso contrario (art. 28, comma 3).

5. Giudizio. - Il capo IV del decreto dà attuazione all'articolo 17 comma 1 lettere g) ed l) della legge 24 novembre 1999 n. 468, ove sono indicati i criteri su cui modellare il giudizio davanti al giudice di pace.

Nella relativa disciplina, si sono, ovviamente, tenuti presenti anche i nuovi principi introdotti nell'articolo 111 della Costituzione.

In particolare, le previsioni costituzionali del necessario contraddittorio e delle limitate ipotesi in cui la prova può legittimamente formarsi al di fuori della dialettica delle parti, hanno inciso sulla normativa processuale, nella quale esigenze di funzionalità e di massima semplificazione del rito si sono coniugate con le doverose garanzie dell'imputato.

Sulla base di tali premesse, si è escluso di poter introdurre un generalizzato giudizio allo stato degli atti, che prescindesse dall'espresso consenso dell'imputato, quale modalità privilegiata di definizione del processo.

La struttura del giudizio ricalca invece quella del rito monocratico, con l'introduzione di limitate deroghe, motivate dall'esigenza di adeguare gli istituti processuali alle peculiari caratteristiche del giudice di pace e della competenza penale lui devoluta.

Nel delineare tale disciplina, si è escluso di introdurre l'udienza preliminare; questo istituto, da un lato è apparso incompatibile con le esigenze di massima semplificazione correlate alla natura dei reati attribuiti alla competenza del giudice di pace, dall'altro la sua introduzione è sembrata non conforme al criterio di delega, che prescrive di tenere conto delle norme del libro ottavo del codice di procedura penale riguardanti il procedimento davanti al tribunale in composizione monocratica. Infatti, per i reati che sono trasferiti al giudice di pace l'articolo 550 c.p.p. già oggi prevede il meccanismo della vocatio in ius a mezzo di citazione diretta.

Allo scopo di esaltare il momento conciliativo e di deflazione processuale, si è prevista – così come nel nuovo procedimento monocratico senza udienza preliminare - l'udienza di comparizione.

Scopo primario dell'udienza di comparizione è dunque quello di favorire, nei reati perseguibili a querela, la composizione conciliativa, e comunque di evitare ove possibile di procedere al dibattimento.

Per quel che riguarda la specifica disciplina di tale udienza, l'articolo 29 prevede anzitutto, con riferimento alla fase antecedente la celebrazione dell'udienza, il deposito almeno sette giorni prima della data fissata per l'udienza presso la cancelleria del giudice di pace dell'atto di citazione a giudizio (e delle relative notifiche) da parte del pubblico ministero o del ricorso da parte della persona offesa nel caso previsto dall'articolo 21.

Tale incombente consente al giudice di pace di verificare la regolarità delle notifiche dell'atto introduttivo del giudizio e di conoscere l'oggetto del processo, anche al fine di attivare i propri poteri in ordine alla riunione dei processi.

Identico termine è previsto per il deposito delle liste testimoniali delle parti diverse dal pubblico ministero e dal ricorrente privato nei casi previsti dagli articoli 20 e 21 (i quali devono indicare i propri testi e le relative circostanze direttamente nell'atto di vocatio in ius). Il deposito è evidentemente funzionale ad attuare la necessaria discovery probatoria, ed il relativo termine – analogo a quello previsto dall'articolo 555 comma 1 c.p.p. per l'udienza di comparizione a seguito di citazione diretta davanti al tribunale in composizione monocratica – appare idoneo a garantire l'esercizio del diritto di prova contraria.

Analogamente alla disciplina ordinaria contenuta nell'articolo 143 disp. att. c.p.p., si è previsto che l'eventuale rinnovazione della citazione a giudizio o della convocazione (come anche delle loro notificazioni), sia direttamente disposta, anche d'ufficio, dal giudice di pace. La disciplina proposta evita regressioni processuali, che non troverebbero giustificazione né nell'ipotesi di ricorso diretto dell'offeso, in cui l'atto di vocatio in ius promana dal giudice di pace, né nel procedimento ordinario, attesa la mancanza di riti alternativi attivabili prima dell'udienza.

5.1. Udienza di comparizione e fase conciliativa. - La peculiare funzione conciliativa dell'udienza di comparizione è stata valorizzata (articolo 29 comma 4) appunto prevedendo, nei casi di reati perseguibili a querela, un intervento compositivo ad opera del giudice di pace, tenuto a procedere al tentativo di conciliazione delle parti private, finalizzato alla remissione della querela, in conformità al criterio direttivo della legge delega.

L'attribuzione diretta dell'attività di conciliazione al giudice – anziché al pubblico ministero, parte processuale, alla quale dunque sembra difficile riconoscere un reale ruolo di mediazione - è d'altronde ora prevista in via ordinaria nel procedimento dinanzi al giudice monocratico, ed appare particolarmente congeniale alla natura e alla vocazione proprie del giudice di pace.

Il buon esito dell'attività di pacificazione delle parti è stato favorito attraverso il conferimento al giudice di pace di una funzione "promozionale" della conciliazione, nonché prevedendo espressamente il possibile intervento di soggetti esterni.

Quanto al primo profilo, è stabilito che il giudice di pace promuove la conciliazione delle parti; in tal modo, si riconosce al giudice una funzione di stimolo e di ricerca della soluzione compositiva degli opposti interessi.

Tale attività, non basata sull'esame degli eventuali atti di indagine, non implica alcuna anticipazione della decisione dell'oggetto del processo, e non determina dunque profili di incompatibilità del giudice per l'eventuale successivo giudizio.

Onde evitare comunque che le dichiarazioni rese dalle parti possano confluire nel materiale probatorio, si è espressamente previsto che le dichiarazioni rese in fase conciliativa non siano utilizzabili ai fini della decisione.

Funzionale al buon esito della conciliazione è poi la previsione di un possibile rinvio dell'udienza per un periodo non superiore a due mesi.

La possibile dilazione della fase di mediazione appare opportuna, attesi i vantaggi derivanti da una sospensione, dedicata all'esame delle proposte formulate in udienza, ed eventualmente diretta anche a verificare la praticabilità di condotte riparatorie o ripristinatorie da parte dell'imputato.

Inoltre, il giudice, ove occorra, può avvalersi dell'attività di strutture pubbliche e private operanti nel territorio. Tali strutture di mediazione che attualmente operano (prevalentemente nel settore minorile) in un numero limitato di distretti, dovrebbero, anche a seguito della previsione contenuta in questa norma, diffondersi maggiormente sul territorio.

L'esito favorevole della conciliazione viene consacrato in apposito verbale nel quale si attesta la remissione della querela e la sua accettazione o la rinunzia al ricorso presentato dalla persona offesa.

In tale ultima ipotesi, poiché la presentazione del ricorso della persona offesa è equiparata alla presentazione della querela (articolo 21 comma 5), si è precisato che la rinuncia al ricorso produce gli stessi effetti della remissione della querela.

Prima del momento preclusivo rappresentato dalla dichiarazione di apertura del dibattimento (articolo 492 c.p.p.), l'imputato può inoltre presentare domanda di oblazione.

Considerata la natura delle contravvenzioni devolute al giudice di pace, sanzionate con la pena pecuniaria, da sola o in alternativa alle pene paradetentive (comunque ai sensi dell'articolo 58 comma 1 giuridicamente considerate corrispondenti all'arresto), le stesse risultano tutte oblabili.

Terminata la fase deputata alla definizione anticipata attraverso la conciliazione o l'oblazione, il giudice, se il processo non è stato definito, dichiara aperto il dibattimento.

In tal caso, se è possibile procedere immediatamente al giudizio, il giudice di pace valuta l'ammissibilità delle le prove richieste dalle parti.

E' apparso opportuno, tenuto conto della natura del giudizio, accentuare il potere del giudice in ordine all'ammissione dei mezzi di prova; pertanto non dovranno essere ammesse, oltre ovviamente alle prove vietate dalla legge secondo il principio generale di cui all'articolo 190 c.p.p., le prove che risultino superflue o irrilevanti.

Un'apposita disciplina è stata inoltre dettata in riferimento alla formazione del fascicolo per il dibattimento. La soluzione prescelta, in base alla quale il giudice invita le parti ad indicare gli atti da inserire, ovviamente a norma della disposizione generale di cui all'art. 431 c.p.p., nel fascicolo per il dibattimento, appare funzionale a garantire il pieno contraddittorio sulla formazione del materiale utilizzabile per la decisione, nel contempo assicurando la sollecita decisione del giudice in ordine ad eventuali questioni insorte al riguardo.

Inoltre, con disciplina analoga a quella dell'articolo 493 comma 2 c.p.p., introdotta dalla legge 479 del 1999. si prevede che, in tale fase, le parti possono concordare l'acquisizione al fascicolo del dibattimento degli atti di indagine, della documentazione relativa all'attività di investigazione difensiva e della documentazione allegata al ricorso immediato al giudice.

L'ampliata possibilità di definizione del giudizio prima dell'apertura del dibattimento, rende ragionevole prevedere che i testimoni non saranno direttamente condotti in udienza ad opera delle parti prima della loro ammissione da parte del giudice di pace.

Pertanto, all'ultimo comma dell'articolo 29, si è stabilito che qualora sia necessario fissare altra udienza per il giudizio, il giudice di pace autorizzi ciascuna parte alla citazione dei propri testimoni e consulenti tecnici. In tale fase, precedente all'adozione del provvedimento di ammissione delle liste testimoniali, il potere giudiziale di esclusione delle testimonianze è limitato a quelle vietate dalla legge o manifestamente sovrabbondanti, per le quali ovviamente appare del tutto irrazionale autorizzare la citazione.

Infine, è stato espressamente previsto, con ciò aderendo ad un orientamento giurisprudenziale, che l'omessa citazione di testi e consulenti tecnici, autorizzata dal giudice, all'eventuale udienza di rinvio, determina la decadenza dalla prova per la parte che, pur avendone richiesto l'ammissione, abbia in tal modo manifestato per facta concludentia la carenza di interesse all'acquisizione del mezzo di prova.

In tale ipotesi, la decadenza della prova lascia comunque salva la possibilità di integrazione probatoria ex officio da parte del giudice di pace, come disciplinata dall'articolo 507 c.p.p.

Deve evidenziarsi che per quanto non previsto dalla specifica disciplina ora descritta, in base alla norma generale di richiamo di cui all'articolo 2, comma 1, troveranno applicazione le disposizioni contenute nel libro VII del codice di procedura penale, comprese quelle in tema di disciplina dell'udienza e di pubblicità della stessa, nonché le disposizioni che consentono al giudice di disporre l'accompagnamento coattivo dell'imputato (articoli. 132 e 490 c.p.p.) e delle altre persone che devono partecipare al dibattimento (articolo 133 c.p.p.).

5.2. Udienza di comparizione a seguito di citazione della persona offesa. - L'articolo 30 del decreto contiene alcune norme specifiche dedicate all'udienza di comparizione a seguito della citazione a giudizio da parte della persona offesa. Per quanto non previsto nella disposizione, si applica anche a tale udienza la normativa generale oggetto del precedente articolo.

Il comma 1, in considerazione delle prerogative attribuite alla persona offesa nel procedimento de quo, stabilisce quale causa di improcedibilità del ricorso la ingiustificata assenza del ricorrente o di un suo procuratore speciale all'udienza di comparizione.

La presenza del ricorrente, oltre che funzionale a scongiurare il rischio di pretestuose presentazioni del ricorso, appare imposta dalla necessità di assicurare un contatto – anche a fini conciliativi - tra offeso e persona cui il reato è attribuito, contatto vieppiù necessario quando la vocatio in ius non sia preceduta da attività di indagine.

D'altro canto, in un procedimento le cui cadenze sono rimesse all'iniziativa del ricorrente, la ingiustificata mancata comparizione di questi all'udienza manifesta chiaramente una carenza di interesse alla prosecuzione del giudizio.

È stato comunque previsto che il processo prosegua in caso di richiesta in tal senso formulata dall'imputato (che potrebbe avere interesse ad una pronuncia decisoria) o dalla persona offesa non ricorrente, intervenuta nel giudizio, che abbia presentato querela e che in tal modo si sostituisce al ricorrente inerte.

Al fine di maggiormente responsabilizzare il ricorrente e per sanzionare adeguatamente ricorsi temerari, si è previsto che il giudice, con l'ordinanza che dichiara l'improcedibilità del ricorso, condanni il ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonché, in caso di richiesta della persona citata in giudizio, al risarcimento dei danni in favore della stessa.

Infine, si è disciplinata l'ipotesi di ricorso presentato per un reato di competenza del giudice di pace, ma per il quale detto procedimento non è ammesso.

Se tale causa di inammissibilità non è stata dichiarata dal giudice e si sia dunque pervenuti all'udienza di comparizione, lo stesso dispone la trasmissione degli atti al pubblico ministero, che adotterà le proprie determinazioni a norma dell'articolo 12.

Peraltro, il giudizio prosegue qualora l'imputato chieda che si proceda ugualmente. La previsione, che intende evitare regressioni del procedimento laddove l'imputato non ritenga di doversi dolere dell'irrituale vocatio in ius, corrisponde sostanzialmente alla disciplina dettata in materia di giudizio direttissimo dinanzi al giudice monocratico.

La previsione dell'improcedibilità del ricorso conseguente alla mancata comparizione della persona offesa, (o del suo procuratore speciale) ha reso necessario delineare un rimedio giurisdizionale volto a far accertare che la mancata comparizione è derivata da caso fortuito o forza maggiore, situazioni per loro natura non sempre tempestivamente deducibili.

Pertanto, l'articolo 31 prevede che in caso di dichiarazione di improcedibilità pronunziata dal giudice di pace, il ricorrente può presentare istanza di fissazione di una nuova udienza se prova che la mancata comparizione è dipesa da caso fortuito o forza maggiore.

Conformemente alla disciplina della restituzione nel termine –istituto per certi aspetti analogo a quello qui introdotto- la presentazione dell'istanza deve avvenire, a pena di decadenza, nel termine di dieci giorni dalla cessazione del fatto impeditivo della comparizione.

In caso di accoglimento dell'istanza, il giudice convoca le parti per una nuova udienza, invitando il ricorrente a provvedere alle necessarie notifiche.

Nei confronti dell'ordinanza con cui viene rigettata la richiesta di fissazione di una nuova udienza di comparizione, è stato previsto il ricorso innanzi al tribunale in composizione monocratica (per la scelta di quest'organo quale giudice naturale delle impugnazioni dei provvedimenti del giudice di pace, v § 7.3). La decisione del tribunale, che non ha natura di sentenza, è inoppugnabile.

5.3. Dibattimento. – Alla disciplina del dibattimento davanti al giudice di pace è dedicato l'articolo 32 del decreto. Anche in questo caso, per quanto non previsto si osservano le disposizioni del codice di procedura penale, nei limiti dell'applicabilità.

La normativa relativa al dibattimento, in ossequio al criterio di delega, presenta taluni profili di ulteriore semplificazione rispetto a quella dettata per il giudizio monocratico.

In materia di esame di testimoni, periti e consulenti tecnici, si prevede che lo stesso possa essere condotto, sull'accordo delle parti, direttamente dal giudice sulla base delle domande e delle contestazioni proposte dal pubblico ministero e dal difensore.

La formula utilizzata (sull'accordo delle parti) – analoga a quella propria del vecchio dibattimento pretorile - permette di ritenere che, a differenza della nuova disciplina del rito monocratico (che richiede la concorde richiesta delle parti: articolo 559 comma 2 c.p.p.), l'esame diretto da parte del giudice potrà fondarsi anche su un consenso tacitamente prestato in ordine alla differente modalità di conduzione dell'esame.

Onde evitare possibili incertezze interpretative, si precisato (comma 2) che, terminata l'acquisizione delle prove, il giudice può procedere ai sensi dell'articolo 507 c.p.p., disponendo, anche d'ufficio, l'assunzione di nuovi mezzi di prova, anche in relazione agli atti acquisiti al fascicolo per il dibattimento sul consenso delle parti.

Tenuto conto della tipologia di reati devoluti al giudice di pace, si è poi prevista, come forma ordinaria di redazione del verbale di udienza, quella riassuntiva. Non essendo richiesto il necessario consenso delle parti per tale forma di verbalizzazione, sarà il giudice di pace a dover stabilire i casi in cui, per la complessità delle questioni prospettate o degli esami da svolgere, è opportuno far luogo alla verbalizzazione integrale.

Sempre in considerazione della materia attribuita alla competenza del giudice è stata inoltre adottata una nuova modalità di redazione della sentenza. Si prevede, infatti, che la motivazione della sentenza sia redatta dal giudice in forma abbreviata e, se non dettata direttamente a verbale, depositata nel termine di quindici giorni dalla lettura del dispositivo.

La nuova formula normativa intende indicare una tecnica di redazione ispirata a criteri di brevità e chiarezza, evitandosi sovrabbondanti esposizioni dello svolgimento del processo e digressioni non necessarie in punto di diritto, del tutto inappropriate in relazione alla natura e alla competenza penale del giudice di pace.

La motivazione in forma abbreviata è d'altronde già prevista per le sentenze rese dal giudice amministrativo in talune materie: affidamento di incarichi di progettazione e questioni connesse in tema di opere pubbliche e di pubblica utilità (articolo 19, del decreto legge 25 marzo 1997 n. 67, convertito nella legge 23 maggio 1997, n. 135); richieste di sospensione dei provvedimenti adottati dall'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (articolo 1 comma 27 della legge 31 luglio 1997, n. 249). In entrambe le ipotesi, la motivazione in forma abbreviata è prevista per il provvedimento giurisdizionale che definisce il giudizio nel merito.

Deve anche rilevarsi che la Corte costituzionale, chiamata a pronunciarsi in ordine alla legittimità della disciplina della motivazione in forma abbreviata dei giudizi amministrativi relativi alle opere pubbliche, ha ritenuto che tale disciplina non viola il diritto di difesa (sent. 10 novembre 1999, n. 427).

Infine, si è stabilito che in caso di impedimento del giudice di pace, la sentenza è sottoscritta dal presidente del tribunale, organo al quale spetta anche l'esercizio della sorveglianza sui giudici di pace del circondario, in virtù della delega disposta con delibera del Consiglio superiore della magistratura in data 25 maggio 1995, ai sensi dell'articolo 16 della legge n. 374 del 1991.

5.4. Sentenza di condanna alla permanenza domiciliare. - Il nuovo assetto del sistema sanzionatorio (v. artt. 52 e seguenti del decreto legislativo) provoca talune significative ripercussioni sulla formazione e il contenuto della sentenza di condanna emessa dal giudice di pace.

La pena del lavoro di pubblica utilità e l'esecuzione continuativa della pena della permanenza domiciliare trovano infatti applicazione solo se l'imputato lo richiede. Ne deriva, pertanto, la necessità di individuare la fase processuale nella quale saggiare la volontà dell'imputato. In proposito, è stata scartata la possibilità di sondare le sue intenzioni prima della deliberazione della sentenza, per intuitive ragioni connesse alla delicatezza di questa fase, in cui un'eventuale richiesta di applicazione di un certo tipo di sanzione può "suonare" come un'implicita ammissione di responsabilità. Si è così privilegiata la scelta di interpellare l'imputato subito dopo la lettura del dispositivo della sentenza di condanna. Questa soluzione si lascia preferire anche sul piano sistematico, poiché il giudizio sulle modalità applicative di talune sanzioni, che presuppone l'affermazione della penale responsabilità, guadagna un'autonomia funzionale che valorizza la stessa dimensione collaborativa sottesa alle nuove pene.

La disciplina della sentenza di condanna alla sanzione paradetentiva è contenuta nell'articolo 33 che rivela un'orditura solo all'apparenza complessa che presuppone, tuttavia, per poter essere compiutamente apprezzata, alcune concise considerazioni sulle modalità di determinazione delle sanzioni da parte del giudice di pace, riservando ulteriori approfondimenti alla parte della relazione dedicata al sistema sanzionatorio (v. § 10 e segg.).

Nei reati puniti con pene alternative, il giudice di pace è chiamato dapprima a determinare, sulla scorta degli usuali criteri indicati negli articoli 132 e seguenti del codice penale, la pena da applicare. In tal senso, può decidere per l'applicazione della sanzione pecuniaria, nel qual caso la sentenza di condanna rispecchia l'ordinario modulo stabilito nel codice di rito.

Qualora, invece, il giudice pace ritenga di dover applicare pene non pecuniarie, la sentenza di condanna presenta una fisionomia più articolata che l'articolo 33 si fa appunto carico di disciplinare.

La prima evenienza contemplata dalla norma nel comma 1 è quella che il giudice di pace si determini per l'applicazione "secca" della pena della permanenza domiciliare, vale a dire ritenuta "non surrogabile" dalla pena del lavoro sostitutivo: questa situazione si fonda sul fatto che il giudice, nell'esercizio del suo potere discrezionale in sede di determinazione della pena, reputa adeguata, rispetto al fatto-reato commesso, la sola sanzione della permanenza domiciliare. Dinanzi ad una simile pronuncia, l'imputato o il suo difensore, munito di procura speciale, possono, subito dopo la pronuncia della sentenza, chiedere al giudice l'esecuzione continuativa della pena, visto che, di regola, la pena della permanenza domiciliare comporta l'obbligo di rimanere nella propria abitazione nei giorni di sabato e domenica (v. art. 53, comma 1).

La seconda evenienza disciplinata dal comma 2 dell'articolo 33 sottende l'ipotesi in cui il giudice di pace affianchi alla pena della permanenza domiciliare quella del lavoro di pubblica utilità, sul presupposto che quest'ultima sanzione, sulla scorta dei citati criteri di cui agli articoli 132 e seguenti del codice penale, risulti parimenti idonea a fronteggiare l'illecito in luogo della pena della permanenza domiciliare. La circostanza che la sentenza veda affiancate le due sanzioni discende dalla necessità di rendere completa la pronuncia di condanna: l'applicazione del lavoro sostitutivo postula - come si è detto - la richiesta dell'imputato e, di conseguenza, la pena della permanenza domiciliare trova applicazione quando difetta la richiesta di irrogazione del lavoro sostitutivo. Ne deriva che quest'ultima sanzione non ha natura di pena "sostitutiva" della permanenza domiciliare, ma tuttavia la sua "alternatività" operativa con la permanenza domiciliare dipende dal fatto che la richiesta dell'imputato funge da condizione necessaria per la sua applicazione.

La disposizione dell'articolo in discorso deroga, dunque, alle norme del codice di rito solo nell'ipotesi in cui il giudice condanna alla pena della permanenza domiciliare.

Quanto all'illustrazione delle scansioni del nuovo modello di sentenza, l'imputato o il suo difensore, munito di procura speciale, possono richiedere l'esecuzione continuativa della pena della permanenza domiciliare ovvero la pena del lavoro di pubblica utilità se il giudice, in questo secondo caso, esplicita nella sentenza che la ritiene applicabile in luogo della permanenza domiciliare.

Poiché le richieste riguardano la natura e le modalità applicative delle sanzioni, si è in presenza di atti di natura "personali": solo l'imputato è perciò legittimato a compiere scelte destinate ad incidere, sia pure in modo sensibilmente attenuato rispetto alle pene detentive, sulla sua libertà.

Ne discende che l'imputato contumace, salvo che il suo difensore non risulti munito di procura speciale, non potrà avvalersi del potere di formulare alcuna richiesta: dalla sua scelta di rimanere "fuori" dal processo scaturisce l'impossibilità di esercitare la facoltà di richiesta.

Nel comma 3 dell'articolo 33, si stabilisce che il giudice può differire l'udienza, per giustificati motivi, accordando un rinvio non superiore a dieci giorni. Il differimento dell'udienza costituisce un'eccezione rispetto ad un meccanismo procedimentale che prefigura la decisione sulla sanzione senza alcuna soluzione di continuità, in omaggio ad evidenti ragioni di concentrazione processuale, legittimate dalla semplicità delle decisioni da assumere. In questa ottica, la possibilità di rinvio si fonda sulla necessità di tenere comunque conto delle esigenze dell'imputato, chiamato a valutare e soppesare le ricadute della scelta in rapporto alla sua vita professionale, familiare, ecc.

Una volta acquisite le dichiarazioni dell'imputato, il giudice integra il dispositivo con le determinazioni assunte in ordine alle richieste dell'imputato e ne dà lettura. In questo ambito, il giudice mantiene intatto il suo potere discrezionale nei confronti della richiesta di esecuzione continuativa della permanenza domiciliare, ben potendo rigettare la domanda. Quanto al lavoro di pubblica utilità, invece, la sua applicazione è "automatica" quando vi è stata la richiesta dell'imputato, visto che il giudice ne ha già "anticipato" l'applicazione con la pronuncia della sentenza.

Va infine precisato che, qualora l'imputato o il suo difensore non avanzino alcuna richiesta, resta ferma la funzionalità e l'efficacia del dispositivo di sentenza letto subito dopo la chiusura del dibattimento: a questo proposito, sarà sufficiente attestare nel verbale che, dopo la pronuncia della sentenza, non vi è stata alcuna richiesta dell'imputato.

6. Definizioni alternative del procedimento: particolare tenuità del fatto come causa di improcedibilità. L'istituto della "particolare tenuità del fatto" come causa di improcedibilità muove dal presupposto che, negli ordinamenti contemporanei (caratterizzati dall'ipertrofia del sistema penale), l'obbligo astratto del perseguimento totale dei reati non possa trovare pratica attuazione. A ben vedere, l'obbiettivo di una punizione generalizzata, oltre che impossibile da raggiungere, sembra anche insensata sotto il profilo politico-criminale.

Lo sviluppo assunto dalla criminalità di massa crea innanzi tutto un problema di funzionalità del sistema penale, che impone inevitabilmente il ricorso a meccanismi di "autoriduzione" che vanno, per citare alcuni di quelli più noti, dal filtro della querela, alla prescrizione, all'amnistia sino alla stessa "cifra nera" (cioè allo scarto esistente tra i reati commessi e quelli che vengono effettivamente a conoscenza dell'autorità giudiziaria).

D'altro canto, la spinta alla depenalizzazione (che si è tradotta proprio di recente in un significativo intervento di sfoltimento con il decreto legislativo n. 507/1999) è motivata dall'intento di restituire "razionalità" ed "economicità" alla giustizia penale. La dilatazione di campo del diritto penale ha infatti comportato la criminalizzazione in astratto di fatti di minima rilevanza e la conseguente crescita degli affari penali in concreto, con l'induzione di gravi diseconomie processuali.

L'istituto della "particolare tenuità del fatto", analogamente a quanto è avvenuto in altri paesi europei, tende a fornire una risposta, in sinergia con i descritti meccanismi interni ed esterni di autoriduzione, all'istanza di deflazione del sistema penale che costituisce un obbiettivo largamente condiviso e irrinunciabile.

Va ricordato in proposito che il Governo aveva presentato un disegno di legge (il n. 4625/C) che introduceva l'istituto, sia pure sotto la denominazione di "irrilevanza penale del fatto", per i reati puniti con una pena non superiore nel massimo a tre anni, in tal modo esportando sul terreno della legislazione ordinaria un meccanismo deflattivo già operante, come si sa, nel processo minorile (v. art. 27 del D.P.R. 22 settembre 1988, n.448). La proposta governativa confluì in un primo tempo nel più ampio provvedimento di modifica del processo penale davanti al giudice monocratico (poi sfociato nella legge n. 479/1999) dal quale venne stralciata durante i lavori parlamentari.

Il presente decreto legislativo segna dunque l'esordio dell'istituto sul terreno della legislazione penale comune, sia pure in un'orbita piuttosto circoscritta e peculiare, quale è quella disegnata dalla giurisdizione del giudice di pace. Tuttavia, proprio questo esordio anche topograficamente prudente potrebbe avere il vantaggio di consentire un attento sondaggio sulla funzionalità dell'istituto, allo scopo di saggiare la praticabilità di eventuali, successive estensioni applicative.

La legge delega in materia di competenza penale del giudice di pace prevede il nuovo istituto nell'articolo 17, comma 1, lettera f). La norma autorizza il Governo a prevedere "l'introduzione di un meccanismo di definizione del procedimento nei casi di particolare tenuità del fatto e di occasionalità della condotta, quando l'ulteriore corso del procedimento può pregiudicare le esigenze di lavoro, di studio, di famiglia o di salute della persona sottoposta ad indagini o dell'imputato".

Dal criterio di delega traspare con chiarezza la finalità deflattiva dell'istituto, ancorato sull'esiguità dell'illecito penale e sull'occasionalità del comportamento, nonché sulla circostanza che lo sviluppo del procedimento possa produrre effetti desocializzanti e pregiudizievoli per l'indagato o per l'imputato.

Sul piano strutturale e sistematico, il perno della causa di improcedibilità è rappresentato dalla categoria della "tenuità" ("esiguità") dell'illecito, quale connotato di una strategia deflattiva che non si risolve nella mera abolizione.

Vi è ormai concordia di opinioni nel ritenere il reato come un'entità graduabile, proprio nella sua dimensione quantitativa, apprezzabile non solo sul terreno della commisurazione della sanzione, ma anche sotto il profilo dell'an della responsabilità.

In questi casi, il fatto, seppure offensivo, risulta graduabile "verso il basso" in termini di complessivo disvalore, così da non giustificare l'esercizio dell'azione penale.

Risalta appieno la differenza con la categoria dei cd. "fatti inoffensivi conformi al tipo" che, come noto, si traducono in una ipotesi di "tipicità apparente", in cui il fatto si rivela sostanzialmente e completamente inoffensivo verso il bene tutelato. La giurisprudenza e la dottrina intravedono, in questo ambito, la carenza di un elemento costitutivo del tipo, cioè l'offesa al bene tutelato.

L'istituto disciplinato nel presente decreto legislativo, al contrario, presuppone l'esistenza di un fatto tipico, antigiuridico e colpevole, tuttavia segnato da una generale esiguità lesiva e affiancato, come si vedrà meglio più avanti, dall'inesistenza di un interesse della persona offesa alla prosecuzione del procedimento.

Il concetto di "graduabilità" investe tutti gli elementi costitutivi del reato e rende possibile ritagliare "sottofattispecie bagatellari" che non giustificano l'esercizio dell'azione penale. In altre parole, non è la fattispecie astratta di reato a risultare "bagatellare", ma la sottofattispecie concreta. Si pensi, per fare un esempio, al reato di lesioni personali di competenza del giudice di pace di cui all'articolo 582 c.p.: la fattispecie incriminatrice astratta non può certo dirsi "bagatellare", perché sanziona comportamenti meritevoli di sanzione penale; e, tuttavia, possono darsi, in concreto, fatti di lesione contrassegnati da una particolare tenuità di disvalore (derivante dalla esiguità dell'offesa e della colpevolezza) che non giustificano, in questo caso, l'esercizio dell'azione penale.

Quanto alla tecnica di formulazione degli elementi costitutivi della clausola di improcedibilità, il primo problema da affrontare è stato quello relativo all'opportunità di limitarsi semplicemente a riprodurre in sede di attuazione i criteri della "tenuità" del fatto e dell'"occasionalità" della condotta menzionati nella delega. Il citato disegno di legge del Governo n. 4625/C delimitava in modo più rigoroso i parametri di operatività dell'istituto: la fuoriuscita dal sistema penale veniva infatti condizionata alla ricorrenza congiunta dell'esiguità lesiva della condotta, dell'evento e della colpevolezza, nonché dell'occasionalità della violazione, sì che il carattere bagatellare dell'illecito dipendeva dal suo esiguo disvalore oggettivo e soggettivo. L'adozione di parametri così stringenti e provvisti di un'elevata formalizzazione teorico-sistematica era funzionale al contenimento della discrezionalità del giudice e, soprattutto, a rendere l'istituto conforme con il principio di legalità processuale.

Il tema del coefficiente di determinatezza sotteso a questa causa di improcedibilità si è perciò riproposto in sede di attuazione delle delega, aprendo il campo a diverse prospettive: da una lato, si potrebbe sostenere che la peculiare matrice professionale del giudice di pace sconsigli un'eccessiva tipicizzazione della tenuità del fatto, che implica cognizioni di natura tecnica non del tutto compatibili con il ruolo e la funzione di questo giudice; dall'altro lato, si paventa il pericolo che il generico riferimento alla tenuità del fatto e alla occasionalità della condotta possa fomentare applicazioni distorte e disomogenee.

Il Governo, facendosi carico di tutte queste istanze, ha delineato una soluzione che, senza rinunciare ad un livello adeguato, ma non pulviscolare, di tipicizzazione, privilegia un modello agevolmente decrittabile e non particolarmente sofisticato sul piano della tecnica di formulazione.

Nella norma dell'art. 34, viene in primo luogo in considerazione, nell'ambito dell'elemento oggettivo del reato, l'esiguità del danno o del pericolo, come elementi costitutivi e forme di manifestazione dell'offesa penale. Si pensi, in proposito, alle ipotesi in cui l'illecito penale si risolve nella causazione di un danno particolarmente tenue, come può accadere in taluni reati contro il patrimonio ovvero in alcune forme di attacco al bene dell'integrità fisica produttive di "microlesioni". Proprio il riferimento all'esiguità del danno o del pericolo, fa sì che questa valutazione possa riguardare anche il disvalore della condotta nei reati sprovvisti di evento naturalistico o comunque caratterizzati dalla rilevanza delle "modalità di lesione".

Viene poi in considerazione il grado della colpevolezza. Non vi è dubbio che il giudizio di esiguità possiede, in questo caso, una portata più facilmente riconoscibile: si rifletta sulle ipotesi di dolo di impeto, di dolo eventuale, di colpa lieve ovvero all'esistenza di situazioni "semi-scusanti".

Quanto all'ulteriore requisito costitutivo rappresentato dall'occasionalità, esso assume un indiscusso rilievo sul terreno della politica criminale, con particolare riguardo alle esigenze della "prevenzione speciale". Basti pensare che una serie di fatti scarsamente lesivi può spesso sancire l'inizio di una carriera criminale. Di conseguenza, il fatto bagatellare consumato da un autore "non bagatellare" deve sfuggire al filtro della improcedibilità, quando, ad esempio, costituisce la spia della capacità a delinquere nel contesto delle tipologie criminose interessate dall'istituto.

L'effettività della declaratoria di improcedibilità è dunque subordinata alla ricorrenza congiunta di tutte le componenti del modello sinora descritte. E' ovvio peraltro che il criterio dell'esiguità del danno o del pericolo assumerà la funzione di primo indice rivelatore: solo dopo aver appurato l'esiguità di questo elemento sarà possibile procedere alla verifica delle altre componenti che serviranno, in buona sostanza, a confermare o negare l'indizio di esiguità rintracciato sul piano della dimensione oggettiva del reato.

In omaggio al dettato della delega, la norma dell'articolo 34 contiene il riferimento alla proiezione desocializzante del procedimento nei confronti dell'imputato, che replica la disposizione dell'art. 27 del procedimento penale minorile, dove si consente l'adozione di una sentenza di proscioglimento per irrilevanza penale del fatto, legata alla tenuità dell'illecito e all'occasionalità della condotta, "quando l'ulteriore corso del procedimento pregiudica le esigenze educative del minorenne".

Nello schema di decreto trasmesso al Parlamento per il parere, il Governo aveva richiamato l'attenzione delle Camere sui problemi che potevano scaturire dall'attuazione della delega in parte qua.

In particolare, veniva posto in evidenza come il pregiudizio che il processo può arrecare sulla vita di relazione del soggetto orienta l'istituto verso esigenze di natura socio-personologica che potevano porsi in contrasto con la Carta costituzionale, segnatamente con l'art. 3, espressivo del principio di uguaglianza. Il riferimento alle esigenze di lavoro, di studio, di famiglia o di salute dell'autore del reato, potrebbe risolversi, infatti, in una discriminazione verso quei soggetti che non possono vantare l'attualità di simili esigenze, perché disoccupati, o privi di un nucleo familiare o che non hanno esigenze di studio. In altre parole, la riproposizione puntuale del criterio di delega sembra postulare una discriminante di natura sociale tra soggetti "marginali" e "non", con la conseguente estromissione di questi ultimi dalla sfera applicativa della causa di improcedibilità. Per essere ancora più espliciti, si pensi ad un autore del reato privo di famiglia e di occupazione: in questo caso, lo sviluppo del procedimento non potrebbe in alcun modo alimentare una proiezione sociale negativa, dirigendosi verso un soggetto che, volontariamente o involontariamente, si trova già al di fuori dei più importanti circuiti "relazionali".

Una simile discriminante potrebbe così contrastare con il principio di uguaglianza, atteso che l'estensione del meccanismo deflattivo (posto dinanzi ad un fatto di particolare tenuità) finirebbe con il dipendere dalla collocazione sociale dell'autore del reato. Giova rimarcare che la caratterizzazione soggettiva dell'istituto risulta invece giustificata nell'ambito del procedimento minorile dove, come è noto, si ha a che fare con una tipologia di autori (i soggetti minorenni) bisognosa di osservazione e di particolare trattamento: prova ne sia il risaputo carattere di "specialità" delle giustizia minorile, che impinge proprio su una diversa prospettiva personologica.

A queste considerazioni, dirette a palesare le perplessità del Governo sulla compatibilità con la Costituzione del criterio di delega per la parte in discorso, se ne saldavano altre di natura più schiettamente politico-criminale, legate allo spessore empirico-criminologico di cui sono intessuti i reati devoluti alla competenza del giudice di pace. E' piuttosto agevole rilevare che si è in presenza di reati di modesta o scarsa gravità, insuscettibili di riverberare effetti desocializzanti o negativi verso l'indagato: detto in altri termini, non è certo questa l'area delle incriminazioni in cui lo stigma penale raggiunge i suoi maggiori effetti. Ma non basta: l'apparato sanzionatorio previsto per i reati di competenza del giudice di pace (in cui viene bandito il ricorso alla pena detentiva) e il diverso regime delle iscrizioni sul casellario, restituiscono l'immagine di un diritto penale "mite", depotenziato nello stigma e nelle proiezioni sociali negative tradizionalmente insiti nella sanzione penale e nel procedimento deputato alla sua applicazione.

Le perplessità del Governo sono state condivise dalla Commissione Giustizia della Camera che, nel parere, ha sollecitato l'estromissione di questa parte delle disposizione. Di contrario avviso la Commissione Giustizia del Senato.

Quest'ultima, nel suo ampio parere, ha sottolineato che <<anche il soggetto che non ha (…) famiglia, studi in corso o lavoro, ben può ricevere pregiudizio dalla prosecuzione del procedimento: vuoi perché proprio la sua povertà di relazioni sociali lo rende più vulnerabile dalle sanzioni (…), vuoi perché il processo può comunque nuocergli nella prospettiva di conseguire un lavoro e in genere di realizzare una maggiore integrazione sociale. Non si ravvisano quindi i prospettati sospetti di incostituzionalità.>>

E' opinione del Governo che le considerazioni svolte nel parere reso dal Senato risultino tutto sommato condivisibili e che, pertanto, la norma debba mantenere la formulazione contenuta nello schema di decreto. A ciò si aggiunga che nella disposizione dell'art. 34, le esigenze di lavoro, di studio, di famiglia o di salute dell'imputato costituiscono un criterio di valutazione ulteriore ed integrativo per il giudice (nella disposizione si afferma che occorre "tenere altresì conto delle esigenze di lavoro …") e non già una condizione ineludibile per il riconoscimento della particolare tenuità del fatto. L'improcedibilità rimane così saldamente ancorata a presupposti oggettivi e soggettivi (la tenuità dell'illecito e la sua occasionalità) rispetto ai quali il riferimento alle ripercussioni del procedimento sulle condizioni di vita dell'autore fornisce un ulteriore, ma non decisivo, contributo di chiarificazione.

Esaurito l'esame di questo aspetto, occorre rimarcare che la tipicizzazione della clausola di improcedibilità risponde ad esigenze di natura sostanziale e processuale.

Da un lato, infatti, l'individuazione dei criteri di esiguità rende maggiormente tassativa la predeterminazione delle ipotesi nelle quali il legislatore reputa il fatto "non bisognoso" dello svolgimento di un procedimento penale finalizzato all'irrogazione della sanzione penale. A questo proposito, occorre ricordare che già ora il sistema penale richiama la dimensione quantitativa dell'illecito per abbassare la pena o escluderla del tutto. Vi è un'ampia gamma di disposizioni che incidono sulla punibilità del fatto in ragione della sua dimensione complessivamente "esigua" o "tenue": si pensi, a titolo esemplificativo, all'attenuante dell'articolo 62, numero 4, del codice penale, applicabile quando il danno cagionato sia "di speciale tenuità"; all'attenuante prevista per il delitto di ricettazione se "il fatto è di particolare tenuità"; all'applicazione dell'amnistia, in cui alcuni decreti prevedono che si debba tenere conto, in via eccezionale, della circostanza attenuante dell'articolo 62, numero 4, del codice penale ove prevalente o equivalente rispetto ad altre circostanze; alla legislazione in materia di armi che configura un'attenuante per il fatto di lieve entità.

Dall'altro lato, il sistema così prefigurato appare in perfetta sintonia con il principio costituzionale di obbligatorietà dell'azione penale, proprio perché la declaratoria di improcedibilità risulta sufficientemente "conformata" nei suoi presupposti applicativi e destinata a formare oggetto di un provvedimento del giudice. La violazione del principio non si verifica, giacché l'articolo 112 della Costituzione non esclude che l'ordinamento possa prevedere ipotesi in cui l'obbligo del pubblico ministero di esercitare l'azione penale intervenga all'esito di applicazione di canoni fissati dal legislatore con carattere di generalità ed astrattezza. E' utile ricordare, in proposito, che, dovendo vagliare la non manifesta infondatezza di una questione di legittimità costituzionale dell'articolo 27 del procedimento penale minorile, la Corte di cassazione, con la sentenza 7 febbraio 1994, n.1208, ha escluso la fondatezza della questione con riferimento agli 3 e 25.

Quanto alla collocazione sistematica del modello, si è considerato che il Parlamento ha voluto certamente riferirsi ad elementi interni alla fattispecie, evocati dalla locuzione tenuità del fatto, ma anche elementi ad essa esterni, richiamati dall'estremo dell'occasionalità della condotta. E' indubbio, tuttavia, che la distinta considerazione di ciascuno di tali aspetti (di cui non si può tacere lo spessore anche "sostanzialistico") avrebbe potuto suggerire una collocazione dell'istituto nell'alveo di diverse categorie dogmatiche. Peraltro, l'esigenza di non creare, se non nei casi strettamente indispensabili, meccanismi non previsti dalla delega ed ignoti all'ordinamento, ha portato a valorizzare la circostanza che la legge delega, per la parte che qui interessa, si è ispirata dall'articolo 27, comma 1, del processo minorile laddove si prevede che "durante le indagini preliminari, se risulta la tenuità del fatto e l'occasionalità del comportamento, il pubblico ministero chiede al giudice sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto quando l'ulteriore corso del procedimento pregiudica le esigenze educative del minorenne". Tutto ciò ha indotto a configurare la particolare tenuità del fatto come causa di non procedibilità. Questa scelta, poi, è decisamente rafforzata dal fatto che un ulteriore, importante presupposto applicativo dell'istituto è costituito dalla carenza di un interesse della persona offesa alla prosecuzione del procedimento e, dunque, all'accertamento processuale.

Si tratta di una condizione che non compariva nel più volte citato disegno di legge governativo n. 4625/C e che non è annoverata tra i presupposti applicativi dell'istituto nel contesto del procedimento minorile. Il suo inserimento nella norma dell'articolo 34 corrisponde appieno alla ratio che presiede alla configurazione del modello come causa di improcedibilità.

L'esiguità di disvalore dell'illecito fonda, da un lato, la tenuità dell'interesse sociale, che pure ha portato all'incriminazione astratta della condotta, e che, nel caso concreto, giustifica il venir meno della domanda di processo.

La carenza di un interesse privato dell'offeso alla prosecuzione del procedimento valorizza, dall'altro lato, la prospettiva vittimologica, riconoscendo un'autonoma dignità agli interessi della persona offesa. A questo proposito, occorre sottolineare quale sia la cornice criminologica in cui si muove la giurisdizione penale del giudice di pace. Si ha in prevalenza a che fare - lo si è già detto - con reati espressivi di microconflittualità privata, non particolarmente gravi, ma che spesso alimentano ragioni di disagio nei rapporti interindividuali che, ove non "contenuti", possono non di rado sfociare in comportamenti illeciti più gravi. E' opportuno, quindi, che la domanda di processo si arresti solo se la persona offesa manifesti un sostanziale disinteresse alla prosecuzione del procedimento: disinteresse che, in larga misura, potrà costituire la spia di un conflitto ormai sedato, o attraverso forme di riparazione o, più semplicemente, per intimo convincimento.

La considerazione di un tale interesse impedisce inoltre che si pervenga a prassi sostanzialmente abrogative di illeciti penali. Va ricordato, infatti, che i reati devoluti alla cognizione del giudice di pace sono già di per sé caratterizzati da una non particolare gravità: questo rilievo amplifica, per certi versi, la difficoltà di valutazione del rapporto scalare "da più a meno" sotteso all'individuazione dello spessore di gravità dell'illecito. Detto in altri termini, il giudizio di particolare tenuità del fatto potrebbe rivelarsi più arduo proprio in questa fascia di reati, in cui la forbice che racchiude i diversi livelli di gravità delle condotte presenta un'apertura piuttosto ridotta. Di qui la necessità di evitare – come si è detto – prassi abrogative, segnate da un eccessivo ricorso alla causa di improcedibilità, che provocherebbe preoccupanti effetti di denegata giustizia nei confronti delle vittime, costrette a ricorrere ai rimedi offerti dalla giustizia civile, i cui tempi, come si sa, non sono sempre solleciti nel corrispondere alle esigenze di giustizia del privato.

Per queste ragioni, si è ritenuto di dover salvaguardare l'interesse del privato alla prosecuzione del procedimento: scelta, questa, che, a ben vedere, valorizza appieno lo stesso microcosmo conciliativo-punitivo del giudice di pace, istituzionalmente destinatario delle domande di giustizia dei privati in qualità di organo di mediazione, di composizione e di risoluzione dei microconflitti sociali. L'estromissione del rilievo riconosciuto alla volontà dell'offeso avrebbe l'effetto di snaturare, sia pure in parte, le funzioni di questo sistema di giustizia penale, in nome di istanze deflattive che, peraltro, non sembrano ricavabili dal numero non di certo elevato di reati assegnati al giudice di pace.

Su questi aspetti si è soffermato il parere della Commissione Giustizia del Senato, laddove, pur condividendo la scelta del Governo di evitare che la domanda di processo si arresti quando la persona offesa ha manifestato un interesse alla prosecuzione del procedimento, ha tuttavia sottolineato che non sembra opportuno condizionare rigidamente la non celebrazione del processo ad un consenso del privato. Nel parere si propone allora di ricorrere ad una formulazione della norma più flessibile, prevedendo che la particolare tenuità del fatto possa essere dichiarata <<sempre che la persona offesa non si opponga , e in tal caso il suo interesse non sia stato o non possa essere altrimenti soddisfatto>>.

Ritiene il Governo che questa proposta, al di là delle condivisibili intenzioni che la animano, finisca in realtà per vanificare il rilievo assegnato alla volontà della vittima. Basta osservare, sul punto, che l'interesse della persona offesa risulterà quasi sempre tutelabile in altro modo, ad esempio ricorrendo alla giustizia civile: di conseguenza il giudice pace finirebbe per delegare ad altri i suoi compiti elettivi (che ne giustificano la stessa ragion d'essere).

Rispetto all'obbiezione che il sistema delineato dal Governo tradisce un'eccessiva rigidità, assegnando alla vittima una sorta di potere interdittivo, si può replicare che non sembra opportuno riconoscere al giudice di pace il potere di opporre un fine di non ricevere alla domanda di giustizia del privato, magari presentata con il ricorso diretto: al contrario, la funzione di questo giudice è quella di aprirsi alle istanze del privato e di conoscere il conflitto. Del resto, il potere della vittima di interdire l'arresto del procedimento è fortemente temperato dall'esistenza di una causa estintiva del reato (v. art. 35) derivante dalla tenuta di condotte riparatorie o risarcitorie che il giudice reputa congrue a soddisfare l'interesse della vittima. Come si vede, dunque, la persistenza di una (ingiustificata) volontà punitiva dell'offeso è destinata a soccombere proprio nella fase della conciliazione, vale a dire nell'udienza di comparizione, in cui il giudice è chiamato a svolgere la mediazione e la composizione del conflitto. In questa fase, il giudice può suggellare, anche di imperio, l'equilibrata composizione del conflitto, scavalcando la volontà punitiva del privato, ritenuta non più meritevole di attenzione. In questo caso, la composizione avviene in presenza delle parti, sì che il giudice può vagliare con maggiore rigore lo spessore e la legittimità delle loro richieste.

L'arresto del procedimento per la particolare tenuità del fatto, per contro, si fonda su una decisione in cui il giudice non convoca le parti, ma può al più conoscere le loro pretese sulla scorta di un contraddittorio meramente cartolare. Questa notazione non è smentita dal fatto che il consenso della vittima condiziona l'operatività dell'istituto anche dopo l'esercizio dell'azione penale. In questa evenienza, la persistenza del diniego della vittima risulterà quasi sempre giustificato, dovendosi ritenere ormai esaurita, con esito negativo, l'attività di conciliazione, specie con riguardo alle offerte risarcitorie e riparatorie: è appena il caso di ricordare, infatti, che se l'imputato dimostra di aver risarcito o riparato il danno, il giudice pronuncia l'estinzione del reato, salvo che reputi tali condotte inidonee a compensare il disvalore dell'illecito e a salvaguardare le esigenze di prevenzione (v. art. 35, comma 2).

Le relazioni funzionali e le scansioni diacroniche che intercorrrono tra l'istituto deflattivo della particolare tenuità del fatto e quelli di natura conciliativo-estintiva restituiscono, pertanto, l'immagine di un sistema equilibrato, che non oppone subito un rifiuto alla domanda di giustizia del privato, ma che neppure la enfatizza oltre ogni misura quando si possa pervenire ad una ragionevole e soddisfacente composizione del conflitto.

Sulla scorta di queste considerazioni, il Governo ritiene pertanto di dover mantenere intatta la fisionomia della norma del'art. 34.

Sul versante della disciplina procedimentale, occorre distinguere tra la fase antecedente all'esercizio dell'azione penale e quella successiva.

Durante la fase pre-processuale delle indagini preliminari, la richiesta di improcedibilità per la particolare tenuità del fatto può essere avanzata dal pubblico ministero a condizione che non risulti l'interesse della persona offesa alla prosecuzione del procedimento. Il ruolo della vittima è stato tradotto nella norma con una espressione di sintesi, ma non sembra arduo individuare le modalità attraverso le quali è possibile acclarare l'esistenza di un interesse allo sviluppo del procedimento. Il ventaglio delle ipotesi è piuttosto ampio: si pensi all'offeso dal reato che ha richiesto di essere avvertito in caso di domanda di archiviazione e che manifesta la sua contrarietà al mancato esercizio dell'azione penale per la particolare tenuità del fatto; oppure all'offeso che ha esplicitato una simile volontà nel corso delle indagini. Ove dovessero mancare simili elementi dai quali ricavare quale sia la volontà della vittima, il pubblico ministero o la polizia giudiziaria potranno sempre escuterla per verificarne gli intendimenti.

Non è invece previsto un meccanismo di opposizione dell'indagato alla richiesta del pubblico ministero, in considerazione del fatto che la pronuncia di improcedibilità non produce alcun effetto "negativo" nei suoi confronti.

Dopo l'esercizio dell'azione penale, la declaratoria di improcedibilità è subordinata all'esistenza della "non opposizione" della persona offesa e dell'imputato. La non opposizione della persona offesa costituisce il pendant del suo interesse ad ottenere una sentenza, che non può certo essere estromesso una volta che vi sia stato l'esercizio dell'azione penale. Quanto alla posizione dell'imputato, si è previsto che egli possa opporsi e conseguentemente rinunciare alla causa di improcedibilità, in vista di un esito processuale più favorevole nel merito. In altre parole, occorre riconoscere all'imputato la possibilità di ottenere una sentenza di proscioglimento nel merito, atteso che il non luogo a procedere per la particolare tenuità del fatto può comunque incidere, in futuro, sulla valutazione della "occasionalità" del fatto che, come è noto, costituisce uno degli elementi costitutivi della condizione di procedibilità.

6.1. Casi di estinzione del reato per condotte riparatorie. - L'articolo 35 del decreto legislativo esercita la delega relativamente alla disposizione dell'articolo 17, comma 1, lettera h), della legge 24 novembre 1999, n.468, che reca la previsione di ipotesi di estinzione del reato conseguenti a condotte riparatorie o risarcitorie del danno.

La scelta si colloca in linea con quelle che hanno condotto ad introdurre meccanismi quali l'improcedibilità per la particolare tenuità del fatto ed il tentativo di conciliazione. Peraltro, va subito precisato che la norma si discosta significativamente da quella (art. 29) prefigurata nello schema di decreto legislativo trasmesso alle Camere per il parere, che era così strutturata:

    1. limitava il rilievo dell'istituto ai reati diversi da quelli perseguibili a querela, sul presupposto della ritenuta intangibilità della volontà punitiva manifestata dal privato;
    2. poneva in essere, nell'esercitare la delega, due argini: uno di carattere temporale ed uno afferente alla valenza della condotta di riparazione dell'offesa. Sotto il primo profilo, si creava uno sbarramento di carattere temporale tale per cui la riparazione del danno cagionato o la eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose del reato, per essere rilevanti ai fini dell'estinzione del reato, dovevano intervenire non oltre l'udienza di comparizione, salvo che la parte dimostrasse di non averlo potuto fare in precedenza. In tale ultimo caso, con meccanismo non dissimile rispetto a quello inteso a favorire la conciliazione tra le parti, era possibile al giudice disporre la sospensione, per un breve periodo, del procedimento attivando meccanismi di verifica dell'adempimento delle prestazioni.

La Commissione Giustizia del Senato ha svolto ampie considerazioni sull'intera problematica degli istituti deflattivi, conciliativi e sulla causa di estinzione in esame, riservando una speciale attenzione al ruolo assegnato alla persona offesa.

In particolare, l'estensore del parere ha dato atto che una parte della Commissione reputa possibile configurare una "potestà di scavalcamento" da parte del giudice dell'eventuale indebita persistenza della volontà punitiva del querelante/ricorrente in favore del quale siano state efficacemente poste in essere attività risarcitorie e riparatorie. In altre parole, questo orientamento punta ad estendere la causa di estinzione del reato ai reati perseguibili a querela, riconoscendo al giudice di pace, nell'ottica di un potenziamento della sue funzioni conciliative, il potere di valutare la congruità e l'effettività delle condotte riparatorie e di pervenire ad una declaratoria di estinzione del reato pur in presenza di un pervicace rifiuto dell'offeso a ritirare la sua domanda di punizione.

Altra parte della Commissione, pur apprezzando questi obbiettivi, ha tuttavia rilevato che la volontà punitiva del privato non sembra neutralizzabile con un atto di imperio del giudice.

A ben vedere, dunque, la Commissione Giustizia del Senato, pur ritenendo condivisibile la scelta operata nello schema di decreto, ha introdotto importanti elementi di riflessione che il Governo ha inteso valorizzare allo scopo di rendere più incisiva la funzione conciliatrice del giudice di pace, specie in presenza di condotte dirette a reintegrare l'offesa recata agli interessi lesi dal reato, che, come noto, costituiscono tangibile spia di un atteggiamento di fattiva resipiscenza dell'autore del reato.

Si è così rimodellata la causa estintiva con riferimento alla sua orbita applicativa e ai suoi presupposti operativi. Restano, invece, inalterati, rispetto alla norma dello schema di decreto, i limiti temporali e le modalità di accesso alla causa estintiva indicati sopra nel punto 2).

Sul versante dell'orbita applicativa, si è previsto che la causa di estinzione abbracci tutti i reati di competenza del giudice di pace. Questa modifica sembra meglio ottemperare al dettato della delega che, nel criterio di cui alla lettera h) del comma 1 dell'art. 17, non opera alcuna delimitazione in ordine all'estensione della causa di estinzione, interamente ancorata sulla tenuta di condotte riparatorie. In proposito, occorre ricordare che il delegante aveva ben presente quali fossero i reati di competenza del giudice di pace, fatta eccezione per quelli previsti nella legislazione speciale, di cui peraltro era facile pronosticare un'individuazione non particolarmente folta a causa degli stringenti parametri di selezione imposti dalla delega. In altre parole, l'ossatura più significativa dei reati devoluti al giudice di pace era proprio quella dei reati perseguibili a querela, tipicamente espressivi di quella microconflittualità privata che costituisce il terreno di elezione di questo microcosmo punitivo-conciliativo. Ne deriva che il legislatore delegante, se avesse davvero inteso escludere dalla sfera applicativa della nuova causa di estinzione del reato i reati punibili a querela della persona offesa, lo avrebbe senz'altro espressamente esplicitato, vista la rilevanza qualitativa e quantitativa di tali illeciti.

Del resto, l'eventuale esclusione di tali reati, a cui pure si era ispirato il Governo in sede di formazione dello schema, fa sì che la causa estintiva si traduca un mero simulacro, magari provvisto di efficacia evocativa, ma destinato a rivelare un impatto poco più che trascurabile sul sistema. Di fatto, esso avrebbe operato solo per pochissime contravvenzioni non oblabili a norma degli art. 162 e 162-bis del codice penale. Questa constatazione rafforza il Governo nella convinzione che il delegante non abbia voluto riservare uno spazio così angusto a una causa estintiva densa di implicazioni sul piano sistematico e politico-criminale, ancor più accentuate in un sistema di giustizia animato da scopi conciliativi come è quello delineato per il giudice di pace.

Sul versante concernente i presupposti di operatività della causa estintiva, si è ritenuto di dover riconoscere al giudice di pace il potere di sindacare la congruità delle attività risarcitorie, rafforzandone anche i poteri conformativi: si è infatti previsto che, qualora l'imputato chieda di poter riparare e risarcire nel corso dell'udienza di comparizione, il giudice, oltre che assegnare un termine per l'adempimento, possa altresì impartire prescrizioni che, nella maggior parte dei casi e ove possibile, saranno finalizzate all'eliminazione delle cause del reato.

Ma non basta. Il Governo è consapevole che l'esistenza di un meccanismo estintivo interamente fondato sulla realizzazione di condotte riparatorie, di cui pure si deve apprezzare la congruità, rischia di fomentare una sorta di "monetizzazione" della responsabilità penale, vale a dire una comoda e talvolta ingiustificata fuoriuscita dal sistema punitivo. Per ovviare a questa evenienza, si è stabilito nel comma 2 dell'art. 35, che il giudice di pace pronuncia la sentenza di estinzione solo se le condotte riparatorie sono idonee a soddisfare le esigenze di riprovazione del reato e quelle di prevenzione.

Questa previsione assume un valore strategico fondamentale e dunque irrinunciabile: essa tende a valorizzare gli obbiettivi di prevenzione generale e di prevenzione speciale insiti nel sistema penale. Può accadere, infatti, che le attività riparatorie, sia pure espletate in modo adeguato a compensare la vittima o a reintegrare l'offesa e perciò stesso intessute anche di uno spessore sanzionatorio, non consentano di contrastare sufficientemente l'illecito sul versante delle retribuzione e della prevenzione. In questi casi, cioè, il risarcimento e l'eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose del reato non integrano un presidio sanzionatorio sufficiente a compensare il disvalore complessivo del'illecito e/o le esigenze di prevenzione speciale. Si pensi, ad esempio, ad un reato commesso con modalità particolarmente gravi o insidiose per la vittima, ovvero da un autore con una spiccata capacità a delinquere. Il giudice di pace è chiamato a valutare se occorre "punire" il soggetto agente, quando risulta insufficiente, per le ragioni descritte, la sola attività (sanzione) riparatoria. Questa valutazione, dunque, si risolve in una ponderazione di tutti gli interessi in giuoco: di quelli (pubblici e privati) sottesi alla fattispecie incriminatrice e di quelli che concernono più da vicino l'autore e, dunque, l'esigenza di contrastare la recidiva, e in definitiva si àncora ai parametri di cui all'articolo 133 c.p. .

Dinanzi a questi considerazioni, l'obbiezione relativa all'intangibiltà della volontà punitiva della persona offesa rischia di risolversi in un'affermazione di sapore prevalentemente assertivo, che non tiene conto del fatto che il sindacato riconosciuto al giudice di pace sulla congruità e l'effettività delle attività risarcitorie e riparatorie e sulla sufficienza di queste a salvaguardare le esigenze retributive e preventive, non vanifica gli interessi tutelati dalla norma penale, ma, al contrario, ne riafferma e ne rafforza il valore, promuovendone la reintegrazione.

In definitiva, gli istituti deflattivi, conciliativi ed estintivi delineati nel decreto contribuiscono, in piena sinergia, a configurare un sistema che vuole porsi come mezzo di tutela sostanziale dei beni giuridici lesi, più che come astratto ed indefettibile meccanismo retributivo conseguente alla commissione del reato. Va da sé, quindi, che la nuova formulazione della causa estintiva esalta la funzione conciliatrice del giudice di pace, che diventa così un "mediatore effettivo": non solo conosce e apprezza i conflitti, ma dispone di strumenti in grado di suggellarne la composizione.

Da ultimo, si osserva che l'innovazione proposta non crea particolari problemi di coordinamento che con la causa estintiva dell'oblazione, sia essa semplice o speciale. Questa opererà con riferimento alle contravvenzioni punite con la sola pena dell'ammenda; quanto a quelle punite con pena alternativa, l'oblazione potrà operare quando non permangano le conseguenze dannose o pericolose del reato.

7. Impugnazioni. - Nell'attuare la delega sulla disciplina delle impugnazioni avverso le sentenze emesse in materia penale dal giudice di pace è stato necessario chiarire preliminarmente una contraddizione presente nella legge n. 468 del 1999.

Lo specifico criterio di delega, contenuto nell'articolo 17 comma 1, lett. n), prevede espressamente l'appellabilità delle sentenze emesse dal giudice di pace, ad eccezione di quelle che applicano la sola pena pecuniaria e di quelle di proscioglimento relative a reati puniti con la sola pena pecuniaria.

Il successivo articolo 18 ha sostituito il comma 3 dell'articolo 593 c.p.p., stabilendo, in via generale, l'inappellabilità delle sentenze di condanna relative a reati per i quali è stata applicata la sola pecuniaria e delle sentenze di proscioglimento o di non luogo a procedere relative a reati puniti con la sola pena pecuniaria o con pena alternativa.

Tra i due diversi parametri che individuano l'inappellabilità delle sentenze, si è ritenuto di dover dare prevalenza al criterio specifico di delega. La scelta è motivata da un duplice ordine di ragioni.

Sotto il profilo formale, sembra infatti corretto ritenere che la delega, relativa proprio all'appellabilità delle sentenze emesse dal giudice di pace, debba prevalere, quale disposizione speciale, sulla norma che ha modificato l'articolo 593 c.p.p.

D'altronde, per precetto costituzionale, la delega legislativa deve essere esercitata nel rispetto dei principi e criteri direttivi determinati dal Parlamento, per cui il mancato rispetto di specifiche indicazioni contenute nella delega, sia pur al fine di adeguare la disciplina delle impugnazioni delle sentenze penali del giudice di pace al novellato articolo 593 c.p.p., sembra porsi in contrasto con l'articolo 76 della Costituzione.

Peraltro, la scelta operata si fonda anche su considerazioni di natura sostanziale.

Il regime di maggior appellabilità delle sentenze di proscioglimento emesse dal giudice di pace, rispetto ad analoghe sentenze del tribunale, si giustifica in considerazione della natura, non professionale, del primo giudice e nella particolare semplificazione del procedimento. Di fronte ad un giudizio di primo grado connotato da tali elementi è apparso opportuno ampliare le possibilità di appello dinanzi al giudice professionale.

Altra questione di ordine generale, relativa al regime delle impugnazioni configurabile sulla base della delega, riguarda la possibilità o meno di dettare regole anche in deroga alla generale disciplina contenuta nel codice di procedura penale.

Si è ritenuto che tale possibilità non sia impedita dai criteri direttivi contenuti nella legge di delegazione, dai quali non sembra derivare l'obbligo di dettare una normativa del tutto speculare rispetto a quella generale delle impugnazioni, sempre che la diversità appaia giustificata in ragione della specialità del rito processuale introdotto.

Per quanto riguarda la revisione delle sentenze del giudice di pace, è evidente che sulla base dell'articolo 2, comma 1, del decreto si applica integralmente la disciplina del codice di procedura penale, anche in riferimento alla competenza della corte di appello.

7.1. Impugnazione del pubblico ministero e del ricorrente. - Tenuto conto dei principi della delega, l'ambito dell'appello da parte del pubblico ministero (articolo 36) concerne anzitutto le sentenze di condanna emesse dal giudice di pace che hanno applicato una pena diversa da quella pecuniaria.

Inoltre, il pubblico ministero può proporre appello contro le sentenze di proscioglimento relative a reati puniti con pena diversa da quella pecuniaria.

Tra le sentenze di proscioglimento appellabili, se il relativo reato è punito anche con la pena non pecuniaria, rientrano anche quelle che escludono la procedibilità nei casi di particolare tenuità del fatto.

Il comma 2 precisa infine che il pubblico ministero può proporre ricorso per cassazione contro le sentenze del giudice di pace.

Si è inoltre previsto (articolo 38) che il ricorrente che ha citato a giudizio l'imputato a norma dell'articolo 21 può proporre impugnazione, anche agli effetti penali, contro le sentenze di proscioglimento (limitazione questa introdotta a seguito dei rilievi formulati dalla Commissione Giustizia del Senato) del giudice di pace, negli stessi casi in cui tale potere è riconosciuto al pubblico ministero.

La disciplina in questione è sembrata un naturale effetto del regime delineato per la citazione diretta da parte della persona offesa.

Al sostanziale esercizio di un diritto di azione, riconosciuto al ricorrente dalla disciplina introdotta dal decreto, non può non conseguire il diritto di impugnazione, anche agli effetti penali, avverso le sentenze emesse dal giudice di pace nel procedimento in questione che abbiano dichiarato l'infondatezza della prospettazione accusatoria.

D'altro canto, l'ordinamento già conosce casi di impugnazione, anche agli effetti penali, da parte del querelante costituito parte civile. Si fa riferimento alla regola dettata per le sentenze emesse per i reati di ingiuria e diffamazione dall'articolo 577 c.p.p.

Tale previsione è apparsa estensibile, nell'ambito del procedimento a citazione diretta, a tutte le ipotesi di reato.

In relazione all'impugnazione proposta dal ricorrente, si è infine normativamente chiarito che in caso di rigetto o inammissibilità dell'impugnazione il ricorrente viene condannato, oltre che alle spese del procedimento, alla rifusione delle spese processuali sostenute dall'imputato e dal responsabile civile e, in caso di colpa grave, anche al risarcimento dei danni.

Trattasi di opportuno deterrente volto a scoraggiare impugnazioni temerarie del ricorrente.

7.2. Impugnazione dell'imputato. - La disciplina dei casi di impugnazione da parte dell'imputato deriva direttamente dalla scelta operata in ordine alla prevalenza da attribuire al criterio di delega già esaminato rispetto al nuovo testo dell'articolo 593 c.p.p. (v. sub § 7).

Pertanto (articolo 37) l'imputato può proporre appello contro le sentenze di condanna che applicano una pena diversa da quella pecuniaria.

Su sollecitazione della Commissione Giustizia del Senato, è stata inoltre prevista l'appellabilità da parte dell'imputato delle sentenze che applicano la sola pena pecuniaria, qualora questi impugni il capo relativo alla condanna, anche generica, al risarcimento del danno.

In effetti, mentre la non appellabilità delle sentenze che applicano la sola pena pecuniaria appare del tutto giustificata, in ragione della modesta concreta afflittività della sanzione, quando, esercitata in sede penale l'azione civile, la sentenza rechi condanna, anche generica, al risarcimento del danno (possibile per somme anche notevolmente superiori all'ordinario limite di competenza per valore del giudice di pace civile), consentire un secondo giudizio è apparsa una scelta opportuna.

D'altro canto, lo specifico criterio di delega, che fa riferimento alla non appellabilità da parte dell'imputato delle sentenze che applicano la sola pena pecuniaria può ben essere letta nel senso di sottrarre alla garanzia del secondo grado di merito le pronunce che rechino condanna alla sola pena pecuniaria, e non anche quelle nelle quali sia statuita una ulteriore condanna (sia pur relativa all'azione civile).

Non si è, invece, ritenuto di poter dare attuazione all'ulteriore principio contenuto nella lettera o) dell'articolo 17 della legge-delega, che prevede l'appellabilità da parte dell'imputato delle sentenze di non luogo a procedere e di proscioglimento, per reati puniti con la pena alternativa, eccezion fatta per le sentenze che dichiarano che il fatto non sussiste o che l'imputato non l'ha commesso.

Infatti, attribuire all'imputato la facoltà di appellare tali sentenze risulta del tutto in contrasto con la riconosciuta inappellabilità delle sentenze di condanna per reati puniti con la pena alternativa, quando sia stata applicata la pena pecuniaria.

Paradossalmente, mentre nei casi di condanna, ove sicuramente maggiore è l'interesse dell'imputato al giudizio di secondo grado, la sentenza non è appellabile, in caso di proscioglimento l'appello sarebbe consentito.

Per altro verso, nell'ipotesi di sentenza di proscioglimento (nella quale rientrano formule assolutorie e di non doversi procedere) la garanzia del ricorso per cassazione, allo scopo di ottenere una formula assolutoria maggiormente favorevole, costituisce rimedio appropriato ed idoneo a tutelare adeguatamente i diritti dell'imputato.

Questi, potrà dunque proporre ricorso per cassazione contro le sentenze di condanna che applicano la sola pena pecuniaria e contro le sentenze di proscioglimento.

7.3. Disciplina del giudizio di appello. - L'articolo 39 disciplina il giudizio di appello. Al comma 1, in conformità a quanto stabilito dall'articolo 19 della legge di delega, viene individuato nel tribunale il giudice di appello avverso le sentenze emesse dal giudice di pace.

Viene inoltre precisato che tale tribunale è quello del circondario in cui ha sede il giudice di pace che ha emesso la sentenza appellata e che il tribunale giudica in composizione monocratica. L'articolo 19 citato indica, quale giudice di appello avverso i provvedimenti in materia penale del giudice di pace, genericamente il tribunale. Peraltro, a norma dell'articolo 48 dell'Ordinamento giudiziario, come modificato dal decreto legislativo n. 51 del 1998, il tribunale giudica in materia civile e penale in composizione monocratica, e nei casi previsti dalla legge, in composizione collegiale.

Il silenzio della legge delega in tema di composizione del tribunale quale giudice di appello costituisce chiara opzione a favore della generale composizione monocratica.

Inoltre, anche quando giudica in materia civile quale giudice di appello avverso le sentenze emesse dal giudice di pace, il tribunale opera in composizione monocratica e una differente composizione del giudice di appello in materia penale non è sembrata dunque giustificata.

Pertanto, anche allo scopo di evitare incertezze interpretative, è stato ritenuto opportuno chiarire in via normativa che il tribunale giudica in appello in composizione monocratica.

Infine, il secondo comma dell'articolo 39 delinea una disciplina diversa da quella ordinaria per le ipotesi in cui l'imputato sia rimasto contumace in primo grado.

Se questi infatti prova di non essere potuto comparire per caso fortuito o per forza maggiore o per non aver avuto conoscenza del provvedimento di citazione a giudizio, sempre che in tal caso il fatto non sia dovuto a sua colpa, ovvero, quando l'atto è stato consegnato al difensore, non si sia sottratto volontariamente alla conoscenza degli atti del procedimento, il giudice di appello dispone l'annullamento della sentenza impugnata, con restituzione degli atti al giudice di pace per un nuovo giudizio.

La diversa disciplina rispetto al regime ordinario, delineato nell'articolo 603 c.p.p., che in tale ipotesi, come è noto, prevede la rinnovazione dell'istruzione dibattimentale in sede di appello, si giustifica tenendo conto delle peculiarità del procedimento innanzi al giudice di pace e dei meccanismi conciliativi e di definizione alternativa del procedimento. Nell'ipotesi in cui l'imputato non sia, senza colpa, potuto comparire nel giudizio di primo grado, la regressione del processo dinanzi al giudice di pace appare dunque necessaria.

8. Disciplina dell'esecuzione. - Il capo VII del decreto contiene le disposizioni relative all'esecuzione dei provvedimenti emessi in materia penale dal giudice di pace.

Anche in questo caso sono state dettate soltanto le norme che derogano l'ordinaria disciplina, altrimenti applicabile in virtù del generale rinvio contenuto nell'articolo 2, comma 1.

La normativa introdotta è apparsa necessaria al fine di adeguare la disciplina dell'esecuzione penale alla nuova figura di giudice e alle relative sanzioni, mentre le due norme sul casellario giudiziale (articoli 45 e 46) costituiscono attuazione dello specifico comando contenuto nella lett. p) dell'articolo 17 della legge di delega.

8.1. Procedimento di esecuzione dei provvedimenti del giudice di pace. - L'introduzione di una competenza penale in capo al giudice di pace ha reso necessario disciplinare, sulla falsariga dell'articolo 665 c.p.p., i profili relativi all'individuazione del giudice dell'esecuzione competente.

A tale proposito, l'articolo 40 stabilisce anzitutto che, fatte salve diverse disposizioni di legge, competente a conoscere dell'esecuzione di un provvedimento è il giudice di pace che l'ha emesso.

Se invece l'esecuzione concerne più provvedimenti emessi da diversi giudici di pace, giudice dell'esecuzione competente è, in conformità alla regola generale, il giudice di pace che ha emesso il provvedimento divenuto irrevocabile per ultimo.

Il terzo comma stabilisce che se i provvedimenti sono stati emessi dal giudice di pace e da altro giudice ordinario, è competente in ogni caso quest'ultimo.

Trattasi di regola -analoga a quella prevista per l'ipotesi di concorso tra provvedimenti del pretore e di altri giudici ordinari nell'articolo 665 c.p.p. prima delle modifiche apportate con l'introduzione del giudice unico di primo grado- che si giustifica tenendo conto non solo della limitata competenza penale attribuita al giudice di pace, ma anche in virtù della natura non professionale di tale giudice, che inoltre per espressa previsione della delega non può applicare sanzioni detentive.

Il quarto comma regola un'ulteriore ipotesi, costituita dal concorso, in sede esecutiva, di provvedimenti emessi dal giudice di pace e da un giudice speciale (l'esempio maggiormente ricorrente è quello del tribunale militare).

Orbene, tale caso è nell'articolo 665 risolto con l'attribuzione della competenza in executivis al giudice ordinario.

Tuttavia, l'indicazione del giudice di pace quale giudice dell'esecuzione per tale fattispecie non è apparsa, per le medesime ragioni esposte poc'anzi, opportuna.

Si è dunque stabilito che in questi casi la competenza quale giudice dell'esecuzione appartenga al tribunale nel cui circondario ha sede il giudice di pace.

In tal modo resta confermato il principio generale della prevalenza in executivis del giudice ordinario, individuato nel giudice cui per legge è devoluto l'appello avverso i provvedimenti del giudice di pace (articolo 19 della legge di delega).

Tuttavia, tenuto conto della composizione collegiale dei giudici speciali (tribunale militare, tribunale per i ministri, Corte costituzionale) è sembrato opportuno stabilire che il tribunale in questa ipotesi decide in composizione collegiale.

Infine, tenuto conto della peculiarità del rito innanzi al giudice di pace, si è stabilito, in deroga all'articolo 665 c.p.p., che la competenza individuata secondo le regole suindicate è mantenuta anche nell'ipotesi di riforma del provvedimento da eseguire.

Il successivo articolo 41 disciplina il procedimento di esecuzione innanzi al giudice di pace, al quale, salva la deroga che si andrà subito ad evidenziare, si applica la disciplina generale contenuta nell'articolo 666 c.p.p. .

Allo scopo di rendere più snello il procedimento di impugnazione avverso i provvedimenti emessi in sede esecutiva dal giudice di pace, ed in ossequio al preciso disposto di cui all'articolo 19 della legge n. 468, secondo il quale sulle impugnazioni proposte contro le sentenze e i provvedimenti penali del giudice di pace è competente il tribunale, si è previsto che contro il decreto che dichiara inammissibile la richiesta formulata nel procedimento di esecuzione e contro l'ordinanza che decide sulla richiesta stessa, l'interessato possa proporre ricorso, limitato ai soli motivi di legittimità, al tribunale.

Anche in questo caso è apparso opportuno statuire in modo espresso che il tribunale giudica in composizione monocratica, osservando le disposizioni di cui all'articolo 127 c.p.p..

8.2. Esecuzione delle pene pecuniarie. - L'articolo 42 disciplina l'esecuzione delle condanne a pene pecuniarie inflitte dal giudice di pace, stabilendo che questa ha luogo a norma della regola generale di cui all'articolo 660 c.p.p. .

Peraltro, per ragioni di economia processuale, funzionali alla concentrazione delle competenze in executivis, e apparendo opportuno valorizzare anche in tale fase il ruolo del giudice di pace, si è previsto che l'accertamento dell'effettiva insolvibilità del condannato sia svolto dal giudice di pace competente per l'esecuzione, il quale adotta anche i provvedimenti in ordine alla rateizzazione o alla conversione della pena pecuniaria.

In tal modo si evitano gli inconvenienti, avvertiti nell'applicazione della disciplina attualmente vigente, derivanti dalla frammentazione delle competenze tra giudice dell'esecuzione e magistrato di sorveglianza.

8.3. Esecuzione delle pene paradetentive. - L'esecuzione delle nuove pene applicabili dal giudice di pace (permanenza domiciliare e lavoro di pubblica utilità) ha richiesto una specifica disciplina, anch'essa ispirata a criteri di semplificazione e funzionalità, contenuta negli articoli 43 e 44 dello schema di decreto.

Il procedimento è così strutturato.

La cancelleria del giudice di pace trasmette al pubblico ministero competente per l'esecuzione l'estratto della sentenza penale irrevocabile. Il pubblico ministero, emesso l'ordine di esecuzione, lo trasmette immediatamente, unitamente all'estratto della sentenza di condanna contenente le modalità di esecuzione della pena, all'ufficio di pubblica sicurezza del comune in cui il condannato risiede o, se questo manchi, al comando dell'Arma dei carabinieri territorialmente competente.

L'organo di polizia, ricevuto il provvedimento di esecuzione, ne consegna copia al condannato, ingiungendogli di attenersi alle prescrizioni ivi contenute. Nell'ipotesi in cui il condannato sia detenuto od internato, e dunque non è possibile la contestuale esecuzione della sanzione paradetentiva, è stabilito che copia dell'ordine di esecuzione venga notificata anche al direttore dell'istituto o della sezione, il quale è tenuto ad informare anticipatamente l'organo di polizia della dimissione del condannato. In tal caso, la pena inizia a decorrere dal primo giorno (di permanenza domiciliare o di lavoro di pubblica utilità) successivo all'avvenuta dimissione.

L'articolo 44 regola invece l'ipotesi di eventuali modifiche delle modalità di esecuzione di tali sanzioni.

In tal caso, è previsto che la modifica venga disposta, per motivi di assoluta necessità, dal giudice di pace competente per l'esecuzione osservando le disposizioni di cui all'articolo 666 c.p.p. .

Onde evitare ingiustificate interruzioni nell'esecuzione, il comma 2 stabilisce che la richiesta dell'interessato di modifica delle modalità di esecuzione non sospende automaticamente l'esecuzione della pena. Peraltro, in caso di assoluta urgenza, le modifiche possono essere disposte dal giudice di pace con provvedimento provvisorio adottato de plano, suscettibile di revoca nelle fasi successive del procedimento. La disciplina è analoga a quella oggi vigente per la modifica delle modalità di esecuzione della semidetenzione e della liberà controllata (che, al contrario delle pene edittali paradetentive previste per i reati di competenza del giudice di pace, hanno natura di sanzioni sostitutive), con la differenza che la competenza è stata attribuita al giudice di pace, anziché al magistrato di sorveglianza

Considerata la peculiare natura delle sanzioni non pecuniarie previste per i reati di competenza del giudice di pace e tenuto conto della specifica disciplina della loro esecuzione, appare evidente che non possano trovare applicazione le disposizioni di cui all'articolo 656 c.p.p.

8.4. Disposizioni sul casellario giudiziale. - Con gli articoli 45 e 46 del decreto si è data attuazione al criterio direttivo di cui alla lett. p) dell'articolo 17 della legge di delega, che fa riferimento ad una particolare disciplina delle iscrizioni nel casellario giudiziale e dei loro effetti, assicurando fra l'altro che i certificati richiesti dall'interessato non riportino le iscrizioni delle condanne per reati la cui competenza è attribuita al giudice di pace.

A quest'ultimo comando della delega è dedicato l'articolo 45. Nella norma si stabilisce dunque che le sentenze emesse dal giudice di pace non siano riportate nei certificati del casellario richiesti dai privati.

Con l'articolo 46 vengono introdotti casi ulteriori, rispetto alla disciplina generale contenuta nell'articolo 687 c.p.p., di eliminazione delle iscrizioni dal casellario, con riferimento alle sentenze emesse dal giudice di pace in materia penale.

In particolare, si prevede che le iscrizioni relative alle sentenze di proscioglimento per difetto di imputabilità siano eliminate dal casellario, trascorsi tre anni dal giorno in cui la sentenza è divenuta irrevocabile. Nella vigente disciplina, l'eliminazione di dette iscrizioni avviene dopo dieci anni, se la pronuncia concerne delitti, e dopo tre anni, in caso di contravvenzioni. Considerata la particolare natura delle sanzioni previste per i reati di competenza del giudice di pace, che non hanno comunque natura detentiva, è sembrato corretto introdurre un unico termine, omogeneo rispetto a quello attualmente previsto per l'eliminazione delle iscrizioni delle sentenze di proscioglimento per non imputabilità relative alle contravvenzioni.

Si prevede inoltre l'eliminazione delle iscrizioni relative alle sentenze di condanna, trascorsi cinque anni dal giorno in cui la sanzione è stata eseguita se è stata inflitta la pena pecuniaria, o dieci anni se è stata inflitta una pena diversa, sempre che nei periodi indicati non sia stato commesso un ulteriore reato.

La disposizione intende da un lato favorire l'esecuzione delle sanzioni inflitte dal giudice di pace, apprestando un meccanismo che colleghi alla tempestiva esecuzione delle pene effetti favorevoli per il condannato, dall'altro, tenuto conto della natura dei reati devoluti a tale giudice e delle relative sanzioni, contenere nel tempo l'efficacia di precedente penale di tali pronunce.

La previsione che l'eliminazione è subordinata alla mancata commissione di ulteriori reati potrà inoltre avere un effetto deterrente in ordine alla reiterazione della condotta criminosa.

9. Norme di coordinamento e di attuazione. - Nel capo VIII del titolo I dello schema di decreto sono contenute una serie di disposizioni processuali, aventi natura di coordinamento e funzionali all'attuazione della disciplina processuale.

In particolare, l'articolo 47 interviene sul codice di procedura penale, aggiornando l'elenco dei giudici tra cui è ripartita la competenza per materia, nell'ambito dell'esercizio della giurisdizione penale. L'articolo 6 c.p.p. omette – a ragione – di menzionare il tribunale militare, perché è un giudice speciale consentito dalla nostra Costituzione (articolo 103 comma 3 e VI disposizione trans. e finale). Omette altresì di menzionare il tribunale dei minori, perché ad esso è assegnata una competenza ratione personae.

Non ci sarebbe invece ragione di sottacere la presenza del giudice di pace fra gli organi titolari di giurisdizione penale ordinaria.

Con l'articolo 48 viene affermata, al di fuori dell'ipotesi di connessione eterogenea a favore del giudice togato e della competenza del tribunale per i minorenni, la cognizione esclusiva del giudice di pace nella cognizione dei reati ad esso assegnati.

La norma si rivolge al giudice togato (giudice dell'udienza preliminare, giudice del dibattimento, giudice di appello, corte di cassazione), il quale si renda conto che il reato per il quale sta procedendo appartiene alla competenza del giudice di pace. Anziché trattenere il giudizio, decidendo nel merito (come accade di regola, quando un giudice si trova a dover decidere su un reato attribuito al giudice di competenza inferiore) egli è tenuto a trasmettere gli atti al pubblico ministero, il quale provvederà a investire del reato stesso il giudice di pace. Volutamente non si è precisata la ragione dell'incompetenza, la quale può verificarsi per qualsiasi causa: conflitto di competenza, mutamento dell'imputazione nel corso dell'udienza preliminare, del giudizio abbreviato o del dibattimento di primo grado, rilevata erroneità della qualificazione giuridica nel giudizio di merito o in quello di legittimità.

La norma si applica "in ogni stato e grado del processo". Se l'incompetenza fosse rilevata nel corso delle indagini preliminari, troverebbe applicazione l'articolo 22 c.p.p.: il giudice dovrebbe, anche in tal caso, trasmettere gli atti al pubblico ministero, con esiti identici a quelli che si avrebbero se l'incompetenza fosse rilevata "in corso di processo".

Una soluzione praticabile poteva essere nel senso di imporre al giudice del procedimento ordinario la trasmissione diretta degli atti al giudice di pace, giacché un tal modo di procedere non pregiudicherebbe alcuna delle chances difensive offerte dalla legge all'imputato. Si è tuttavia preferito stabilire che la dichiarazione di incompetenza sia seguita dalla trasmissione degli atti al pubblico ministero, ribadendo la regola prevista dall'articolo 23 c.p.p., come emendato dalla Corte costituzionale (sent. n. 73/1993): questo perché si è ritenuto che la soluzione consistente nell'imporre la trasmissione degli atti al giudice non assicura un consistente risparmio di tempo e di risorse; tanto vale perciò adeguarsi alla regola generale che offre il vantaggio della uniformità.

Degna di nota la parte conclusiva dell'articolo in questione, che fa salva la validità di tutte le prove formate dal giudice togato incompetente, ivi comprese quelle a contenuto dichiarativo. L'osservanza delle regole per la formazione della prova nel processo a quo è parsa garanzia sufficiente per le parti e, in particolare, per l'imputato. Nessuna delle prove che il tribunale ha assunto è dunque destinata ad andare perduta nel giudizio davanti al giudice di pace.

L'articolo 49 prevede che ai fini dell'emissione della citazione a giudizio nel procedimento ordinario il pubblico ministero richieda al giudice di pace competente l'indicazione del giorno e dell'ora della comparizione.

Al fine di consentire un rapido ed efficiente collegamento tra i due uffici interessati si è stabilito che la richiesta del pubblico ministero e l'indicazione del giudice di pace sono comunicate, ove disponibili, con mezzi telematici.

Con l'articolo 50 si è inteso dare attuazione ad uno specifico comando contenuto nell'articolo 17 lett. m) della legge n. 468 del 1999, relativo alla delega della funzioni di pubblico ministero nel procedimento penale davanti al giudice di pace.

Si è così previsto che le funzioni di pubblico ministero nell'udienza dibattimentale siano delegate dal procuratore della Repubblica, che non intenda svolgerle personalmente, ad uditori giudiziari, vice procuratori addetti all'ufficio, ufficiali di polizia giudiziaria diversi da quelli che hanno svolto le indagini preliminari e frequentanti il secondo anno della scuola di specializzazione per le professioni legali.

Inoltre, è sembrato necessario prevedere anche la delegabilità delle funzioni di pubblico ministero a vice procuratori onorari anche per l'intervento nel procedimento ordinario e in quello su ricorso del querelante e nei procedimenti di esecuzione, camerali e di opposizione al decreto del pubblico ministero di liquidazione del compenso a periti, consulenti tecnici e traduttori.

La disposizione si giustifica in quanto già nell'attuale disciplina la delega è ammessa per la richiesta di decreto penale di condanna (che rappresenta una modalità di esercizio dell'azione penale) e nei procedimenti in questione; la delegabilità delle funzioni di pubblico ministero anche in queste ipotesi appare inoltre funzionale a consentire agli uffici di procura di svolgere in modo efficiente e sollecito le proprie funzioni dinanzi al giudice di pace.

Analoga previsione non è è invece necessaria in relazione ai praticanti avvocati.

A norma dell'articolo 7 comma 1 della legge 16 dicembre 1999, n. 479, i praticanti avvocati abilitati al patrocinio possono infatti esercitare l'attività professionale nelle cause di competenza del giudice di pace, ivi comprese quelle di natura penale.

Infine, l'articolo 51 prevede che con regolamento emanato ai sensi dell'articolo 17 comma 3 della legge 23 agosto 1988, n. 400, il ministro della giustizia adotti le necessarie disposizioni regolamentari relative alle modalità di formazione e tenuta dei fascicoli degli uffici giudiziari, al rilascio dei certificati del casellario giudiziale da parte degli uffici del giudice di pace e alle altre attività necessarie per l'attuazione del decreto.

Inoltre, con decreto ministeriale verrà disciplina la tenuta dei registri relativi al procedimento davanti al giudice di pace.

IV. Disciplina sanzionatoria

10. Sanzioni applicabili dal giudice di pace. Le opzioni del legislatore delegante in tema di sanzioni irrogabili dal giudice di pace risultano dagli articoli 14, 15 e 16 della legge 24 novembre 1999, n. 468.

Con la prima disposizione, si fa riferimento alla necessità di modificare "l'apparato sanzionatorio" dei reati devoluti alla competenza del giudice di pace, espressione questa che ricorre altresì nell'incipit del citato articolo 16, ove si fissano altresì una serie di principi e criteri direttivi. Essenzialmente, il legislatore delegato è tenuto a prevedere, in luogo delle pene vigenti, la sola sanzione pecuniaria per un importo non superiore ai cinque milioni, ovvero, nei casi di maggiore gravità o di recidiva, di sanzioni alternative alla detenzione quali la prestazione di attività non retribuita o altre forme di lavoro sostitutivo per un periodo non superiore ai sei mesi, l'obbligo di permanenza in casa per un periodo non superiore ai quarantacinque giorni, ovvero misure prescrittive specifiche <<determinando la misura o il tempo della sanzione indipendentemente dalla commisurazione con le attuali pene edittali>>.

In secondo luogo, la legge delega impone di prevedere, per le pene pecuniarie non pagate, un meccanismo di conversione in lavoro sostitutivo per un periodo non inferiore ad un mese e non superiore a sei mesi, nonché l'applicabilità delle disposizioni di cui agli articoli 102, quarto comma, e 108, primo comma, della legge 24.11.1981, n. 689.

Infine, è necessario introdurre un nuovo e specifico delitto, punibile con pena detentiva fino ad un anno non sostituibile, per le gravi inosservanze o le violazioni reiterate degli obblighi connessi alle sanzioni alternative alla detenzione, da attribuire alla competenza del tribunale.

10.1. Problemi posti dalla legge delega. - Dall'insieme di tali direttive parrebbe emergere in modo inequivoco l'intento del legislatore delegante di arrivare ad una ridefinizione della comminatoria edittale delle pene per i reati attribuiti alla cognizione del giudice di pace piuttosto che alla previsione di sanzioni sostitutive "obbligatorie" applicabili dal quest'ultimo organo: tali le conclusioni che sembrano doversi ricavare dall'insistito richiamo alla necessità di modificare l'apparato sanzionatorio dei reati, nonché di prevedere misure prescrittive la cui durata o entità può prescindere dalla "commisurazione con le attuali pene edittali", oltre che, infine, dalla previsione di uno specifico delitto - piuttosto che di un meccanismo di conversione- per i casi di violazione degli obblighi connessi alle nuove sanzioni. Per altri versi, deve dunque ritenersi che il richiamo (che pure compare nelle lettere a) e c) dell'articolo 16 della legge 468/1999) alle misure "alternative alla detenzione" sia in realtà del tutto atecnico, volendo indicare semplicemente l'intenzione di bandire la sanzione "carceraria" dall'armamentario sanzionatorio del giudice di pace.

D'altra parte, la previsione della attribuzione alla cognizione del giudice di pace dei reati espressamente indicati dall'articolo 15 della legge delega, ma non di rado circoscritta a talune forme di manifestazione del medesimo delitto (è il caso, ad esempio, delle lesioni personali colpose), ovvero alla sola figura-base del reato o ad ipotesi specificamente individuate (paradigmatica l'ipotesi di cui al primo e secondo comma dell'articolo 595 c.p., che "torna", per così dire, nella competenza del tribunale quando sia circostanziata a norma dei commi 3 e 4 del medesimo articolo), rende immediatamente percepibili le ragioni che hanno imposto di collocare le nuove sanzioni applicabili dal giudice di pace al di fuori del codice penale e secondo una tecnica ("a griglia", se può adoperarsi l'espressione) solitamente utilizzata per le sanzioni sostitutive. D'altro canto, quest'ultima soluzione, oltre che dalle ragioni appena accennate, appare imposta da un'altra serie di considerazioni.

La prima risiede nella assoluta - ed ermeneuticamente non supplibile - assenza di criteri relativi alle eventuali modifiche da apportare al codice penale, rispetto al quale si sarebbe dovuto incidere non solo "agendo" su talune fattispecie (ancora una volta può tornare comodo l'esempio delle lesioni colpose e dell'ingiuria), ma, anche, sulla disciplina generale del codice dovendosi adeguare alle nuove sanzioni non solo il "catalogo" generale delle pene principali, ma, altresì, taluni istituti di portata generale che avrebbero dovuto esser resi conformi alla nuova realtà normativa con conseguenze, sul piano sistematico, assolutamente imprevedibili.

La seconda scaturisce dalla impossibilità di (sostituire e, nel contempo) diversificare le nuove sanzioni senza far perdere identità e natura alle violazioni alle quali sono destinate ad accedere essendo la pena pecuniaria, la permanenza domiciliare, il lavoro socialmente utile e gli eventuali obblighi riconducibili tanto ai delitti quanto alle contravvenzioni attribuite alla cognizione del giudice di pace in base ai criteri di delega già richiamati.

Un cenno merita la collocazione sistematica del capo relativo alle sanzioni e che appare anch'esso frutto delle disposizioni della legge delega sopra richiamate le quali, nel prevedere l'applicabilità di determinate sanzioni solo per opera del giudice di pace e solo a seguito di una peculiare disciplina processuale, antepongono logicamente quegli aspetti a quest'ultimo rendendo così plausibile la sistematica "interna" del presente provvedimento normativo.

A tale aspetto si lega la terza ed ultima considerazione.

Pur senza giungere a configurare una giurisdizione alternativa, attivabile a richiesta del privato, la legge delega disegna una connessione tra i profili sostanziali e quelli processuali più stretta di quanto non sembri a prima vista.

Come evidenziato nel paragrafo 2, infatti, la selezione delle fattispecie interessate dal presente schema di decreto legislativo, è stata operata con esclusivo riguardo alle caratteristiche del giudice destinato conoscerle e quindi, in definitiva, con riferimento al tipo di procedimento (più duttile e meno formalizzato) suscettibile di applicazione (si noti che ciò vale sia con riguardo ai reati già indicati dal delegante, sia con riguardo a quelli selezionati dal delegato sulla base dei criteri additati dal primo).

A ciò si aggiunga che l'apparato sanzionatorio delineato nella delega, a sua volta, non riflette giudizi di (dis)valore calibrati sulle singole fattispecie: esso è piuttosto modellato sulle caratteristiche del nuovo giudice e si informa quindi, in ultima analisi, anch'esso scelte di natura processuale.

Sicché, ove si fosse inciso direttamente sul dettato del codice penale, modificando gli editti sanzionatori delle singole fattispecie, la citata, intima connessione tra aspetti sostanziali e processuali sarebbe rimasta sottintesa e dunque invisibile. L'impostazione (a prima vista più agevole da realizzare) avrebbe dunque generato un effetto grave di disorientamento nel lettore, in antitesi con la naturale aspirazione di qualunque codice. In altri termini, sarebbe risultato difficile per il comune cittadino cogliere la ragione per cui fatti meno gravi avrebbero continuato ad essere puniti secondo le attuali previsioni, e fatti più gravi sarebbero stati invece alleggeriti sotto il profilo sanzionatorio (a titolo esemplificativo, si segnala l'inestetismo di un codice che avrebbe visto comminata per la lesione dolosa una sanzione pecuniaria, a fronte di quella detentiva, residuata per la corrispondente ipotesi colposa perseguibile d'ufficio).

Peraltro, è vero che la disarmonia permane anche nell'ambito dell'impostazione prescelta, tuttavia si tratta di una conseguenza inevitabile (oltre che imposta dalla delega) che trova più convincente giustificazione alla luce dell'impianto complessivo dello schema di decreto legislativo. Come accennato nella premessa sulle linee generali della riforma, questo traccia infatti una sorta di "microsistema di tutela integrata", vale a dire un meccanismo in cui le funzioni conciliative del giudice di pace condizionano la creazione di un sistema di diritto penale più mite dal punto di vista delle sanzioni applicabili; alla mancata incidenza su un valore di rango costituzionale primario (quale la libertà personale) ben corrisponde, a sua volta, una deformalizzazione degli strumenti processuali che conduce ad una semplificazione ulteriore rispetto a quella già operata per il rito monocratico nei procedimenti ordinari. Il tutto in un ordito normativo in cui l'una opzione ripete la sua legittimazione dall'altra.

Il fine ultimo che si è inteso perseguire e che emerge dalle linee dello schema legislativo è dunque la realizzazione di una giustizia più semplice e più vicina anche alla comprensione dei cittadini. In ciò, un ruolo essenziale è svolto proprio dalle sanzioni.

Il modello di giustizia prescelto gioca le sue carte non più sulla minaccia astratta di una pena detentiva (destinata sempre più frequentemente a rimanere sulla carta ovvero ad applicazioni casuali e quindi sperequative), quanto sull'effettività della risposta, e soprattutto sulla supplenza da parte di modelli lato sensu compensativi, che antepongano le aspettative dei cittadini alla pretesa punitiva dello Stato, come tradizionalmente intesa.

10.2. Soluzione accolta - Sulla scorta delle osservazioni appena svolte si comprende allora la soluzione proposta nello schema di decreto legislativo in materia in ordine all'apparato sanzionatorio. Le norme "centrali" del nuovo meccanismo sono rappresentate dagli articoli 52 e 58 del presente testo normativo. La prima disposizione contiene le nuove previsioni edittali, consentendo peraltro la "conservazione" delle "vecchie" - secondo uno schema di "doppia cornice edittale" - destinate ad essere utilizzate quante volte, come rilevato, il reato ritorni nella cognizione del giudice ordinario per effetto della presenza di aggravanti o per altri motivi e, nel contempo, non fa "smarrire" la natura di delitto o di contravvenzione "originaria" ai fatti-reato ai quali accedono. La necessità di sostituire l'apparato sanzionatorio si è manifestata con riguardo ai soli reati che implicavano l'applicazione della pena detentiva: una tal conclusione, che appare imposta dall'esordio della lettera a) dell'articolo 16, comma 1, della legge di delega, spiega perché siano state mantenute ferme le sanzioni di natura pecuniaria (multa e ammenda) già previste in via esclusiva per i reati devoluti alla competenza del giudice di pace. Con riferimento alle ipotesi di reato che in precedenza prevedevano pene detentive, si è invece operata una distinzione che considera dotati di maggior disvalore quei fatti cui in precedenza veniva riconnesso un più severo trattamento sanzionatorio: si è così optato per una soluzione che diversifica i "casi di maggiore gravità" rispetto a quelli di "recidiva" richiamati dal citato articolo 16 della legge delega, essendo stati i primi ricondotti ad una valutazione "astratta" e calibrata sulle singole fattispecie, con riferimento alle quali si è agito diversificando per un verso i minimi delle sanzioni pecuniarie, visto che la legge delega imponeva un tetto massimo della sanzione pecuniaria piuttosto contenuto e quindi meno idoneo ad ottenere analogo risultato e, per altro verso, prevedendo edittalmente che la permanenza domiciliare possa essere irrogata quante volte il fatto denoti maggiore disvalore. Una diversa soluzione avrebbe evidentemente implicato la creazione di una ipotesi di circostanza aggravante indefinita, riferibile a qualsivoglia dei reati attribuiti alla cognizione del giudice di pace, concretamente esposta ad un deficit di tassatività.

Nei casi di recidiva, invece, si ipotizza il ricorso ad una valutazione in concreto che si riconnette al già esistente istituto sostanziale, i cui effetti si è ritenuto peraltro di neutralizzare con riferimento a quelle ipotesi nelle quali la sua applicazione si sarebbe certamente tradotta o avrebbe potuto tradursi in un trattamento deteriore rispetto alle sanzioni previgenti (si è perciò esclusa l'operatività della recidiva nei casi di reati precedentemente puniti con sola pena pecuniaria, ovvero in quelli di cui alla lettera a) del comma 2 dell'articolo 52).

La seconda norma sopra richiamata, ossia l'articolo 58 del presente decreto, enuclea invece i criteri di ragguaglio ed ha, pertanto, la fondamentale funzione di raccordo tra l'apparato sanzionatorio applicabile dal giudice di pace e l'intero sistema penale: la quantificazione di tali criteri risponde alla logica della legge delega che vuole certamente meno afflittive la permanenza domiciliare ed il lavoro di pubblica utilità rispetto alle attuali sanzioni detentive e, naturalmente, il lavoro di pubblica utilità rispetto alla permanenza domiciliare; di qui la determinazione di un parametro che individua in due o tre il multiplo utilizzabile per ragguagliare le nuove ipotesi al precedente assetto sanzionatorio, fermo restando il limite di 75.000 lire di ragguaglio per la pena detentiva.

In proposito si è peraltro resa necessaria una specifica deroga all'articolo 78 c.p., determinata dal fatto che le attuali pene pecuniarie hanno limiti diversi (per l'ammenda vale il limite di 2 milioni in base all'articolo 26 c.p., mentre per la multa quello di 10 milioni in base all'articolo 24 c.p.) da quelli previsti dalle sanzioni pecuniarie irrogabili dal giudice di pace (fissati dalla legge delega in 5 milioni). Ne deriva l'esigenza di prevedere, nell'ipotesi di pluralità di violazioni, un tetto agli aumenti delle pene principali: poiché già il codice penale compie un'opzione nel senso dell'aumento del triplo nel caso di concorso di reati ex articolo 73 c.p., o di (circa) il quadruplo ove il giudice si avvalga della facoltà di aumento di cui all'articolo 133-bis c.p. (articolo 78 comma 1, n. 3, c.p.), si è operato attenendosi al medesimo criterio, tuttavia "unificato", quanto al risultato, dalla identità di soglia massima fissata per la pena pecuniaria che accede in eguale misura ai delitti come alle contravvenzioni. Di conseguenza, gli aumenti della pena pecuniaria non possono eccedere, rispettivamente, i 15 ovvero i 60 milioni.

10.3. Obbligo di permanenza domiciliare - L'introduzione di nuove ipotesi di pene principali che, per quanto collocate (di necessità) al di fuori del codice penale, ne vanno nondimeno ad arricchire il catalogo, ha ovviamente imposto una specifica disciplina destinata ad individuare i contenuti delle nuove sanzioni. Si è così previsto che la permanenza domiciliare comporta l'obbligo di rimanere presso la propria abitazione o in altro luogo di privata dimora ovvero in un luogo di cura, assistenza o accoglienza nei giorni di sabato e domenica; il giudice, tuttavia, avuto riguardo alle esigenze familiari, di lavoro, di studio o di salute del condannato, può disporre che la pena venga eseguita in giorni diversi della settimana ovvero, a richiesta del condannato, continuativamente. La durata della permanenza domiciliare, poi, non può essere inferiore a sei giorni né superiore a quarantacinque ed il condannato non è considerato in stato di detenzione con riguardo agli oneri e delle spese ricollegabili alla permanenza stessa. Il giudice può altresì imporre al condannato, valutati i criteri di cui all'articolo 133 comma secondo del codice penale, il divieto di accedere a specifici luoghi nei giorni in cui non è obbligato alla permanenza domiciliare, tenuto conto delle esigenze familiari, di lavoro, di studio o di salute del condannato; tuttavia il divieto non può avere durata superiore al doppio della durata massima della pena della permanenza domiciliare e cessa in ogni caso quando è stata interamente scontata la pena della permanenza domiciliare. L'obbligo di permanenza domiciliare, in definitiva, appare strutturato in modo da essere sensibilmente "distante" da istituti "paradetentivi" che prevedono una continuativa permanenza presso il proprio domicilio; tuttavia, ragioni di opportunità - non contrastate sul punto da alcuna diversa previsione della delega - hanno imposto la previsione di una diversificazione dei contenuti della sanzione allorquando sia lo stesso condannato a farne richiesta ed il giudice ritenga di potervi aderire. La previsione di appositi obblighi destinati ad operare solo in caso di "esecuzione frazionata" appare imposta dell'articolo 16, comma 1, lett. a) della legge delega, che individua, come genere della permanenza domiciliare, altre "misure prescrittive specifiche" alle quali si è ritenuto di accordare carattere "accessorio" per valorizzare la principale misura prescrittiva individuata dallo stesso legislatore delegante; una tal previsione ha nondimeno imposto l'individuazione di correlativi "limiti massimi" a cui assoggettare le prescrizioni.

10.4. Lavoro di pubblica utilità. - Per quanto attiene invece al lavoro di pubblica utilità, esso consiste (articolo 54) nella prestazione di attività non retribuita in favore della collettività da svolgere presso lo Stato, le Regioni, le Province, i Comuni o presso enti o organizzazioni di assistenza sociale e di volontariato, per un periodo non inferiore a dieci giorni né superiore a sei mesi.

Rispetto allo schema di decreto, sono state apportate alcune significative modifiche con riguardo alle modalità di svolgimento della prestazione.

Nel testo trasmesso alle Camere, la sanzione consisteva (articolo 47, comma 2) nella la prestazione di tre ore di lavoro giornaliero da svolgere con modalità e tempi che non pregiudichino le esigenze di lavoro, di studio, di famiglia e di salute del condannato.

Nel rendere il parere, il Senato ha, in primo luogo, mostrato di non condividere la scelta di subordinare l'applicabilità della sanzione alla richiesta del condannato e, in secondo luogo, suggerito di rendere più appetibile il ricorso a questa sanzione rispetto alla permanenza domiciliare, attenuando la rigidità e la durata del meccanismo applicativo.

Con riguardo al primo profilo, il Senato contesta che si tratterebbe di una scelta imposta dalla Convenzione europea (legge 4 agosto 1955, n. 848) atteso che quest'ultima, dopo aver sancito il divieto del lavoro forzato, precisa però che tale non può essere ritenuto quello "richiesto ad una persona detenuta". Si aggiunge inoltre che l'art. 20 dell'ordinamento penitenziario stabilisce che il lavoro è obbligatorio per i condannati e per i sottoposti a misura di sicurezza.

Le descritte considerazioni non paiono condivisibili, perché accomunano situazioni diverse. In particolare, non sembra corretto, per sostenere l'applicabilità della sanzione senza il consenso del condannato, il richiamo al lavoro svolto dal detenuto. In questo caso, il lavoro ha una funzione trattamentale, quale elemento del complesso percorso che dovrebbe portare alla rieducazione del reo. Tanto è vero, che dall'eventuale rifiuto del detenuto di prestare il lavoro o la sua irregolare esecuzione non scaturisce un illecito penale o l'irrogazione di nuove sanzioni afflittive: la mancata prestazione del lavoro si risolve essenzialmente in una prognosi negativa sul comportamento del condannato, idonea ad inibire la concessione dei benefici previsti dalla legge sull'ordinamento penitenziario.

La legge delega sulla competenza penale del giudice di pace prevede, invece, a presidio dell'effettività della sanzione, una specifica ipotesi di reato in caso di violazione del suo contenuto: di conseguenza, l'inadempimento del lavoro di pubblica utilità risulta penalmente sanzionato, con ciò traducendosi, ove non si prevedesse il consenso del condannato, in una sorta di "lavoro forzato".

La convinzione del Governo è che il lavoro di pubblica utilità, proprio perché sanzione fondata su un facere, implica il consenso del condannato per conseguire apprezzabili risultati sul terreno dell'effettività. Non è un caso, del resto, che tutti gli ordinamenti (continentali e non) che prevedono questo tipo di sanzione, ne subordinano l'applicazione al consenso del reo, nella convinzione che non sarebbe seriamente immaginabile una sua esecuzione senza l'esistenza di un atteggiamento "collaborativo" del condannato, che costituisce la spia di una volontà di rieducazione e che, nel contempo, legittima appieno l'irrogazione della sanzione detentiva nel caso di violazione della sanzione.

Per queste ragioni viene mantenuta ferma la scelta effettuata nello schema.

Le modifiche apportate nel comma 2 dell'articolo 54 sulla durata e sulle modalità di svolgimento del lavoro di pubblica utilità recepiscono, invece, le considerazioni svolte nel parere, laddove si suggerisce di rendere più appetibile il ricorso a questa sanzione.

A questo proposito, occorre premettere che, nel delineare la disciplina del lavoro di pubblica utilità, ci si è, anzitutto, sensibilmente distaccati dal "modello" offerto, in materia, dall'articolo 105 della legge 24 novembre 1981, n. 689, per plurime ragioni: anzitutto, non si versa, qui, in ipotesi di conversione bensì di pena principale, sia pure applicata, su richiesta dell'imputato, in luogo della permanenza domiciliare; in secondo luogo, le modalità di svolgimento del lavoro sostitutivo previsto dalla citata legge 689/1981 (una giornata lavorativa per settimana, salvo che il condannato chieda di essere ammesso ad una maggiore frequenza) appaiono incompatibili con le previsioni di cui all'articolo 16 della legge delega che fissa in 6 mesi il limite massimo di questo tipo di sanzione: una diversa disciplina del lavoro di pubblica utilità avrebbe dunque potuto comportare, ove si fosse seguito quel diverso criterio, un "prolungamento" della pena entro limiti temporali inaccettabili ed inoltre (ove si fosse ipotizzata una diversa durata della giornata lavorativa) avrebbe potuto avere effetti del tutto desocializzanti, non potendosi tenere conto, in una previsione astratta, delle concrete esigenze lavorative, sociali, di famiglia (e così via dicendo) del condannato che si sarebbe trovato a poter disporre di una giornata lavorativa "piena" solo quando non avesse altri tipi di impegno.

Lo schema di decreto stabiliva, pertanto, che la sanzione comportava lo svolgimento di tre ore di lavoro giornaliero e che la durata della pena oscillasse da un minimo di dieci giorni ad un massimo di sei mesi.

Così congegnata, la pena rischia però di apparire meno vantaggiosa rispetto alla (astrattamente più grave) permanenza domiciliare, che si traduce, in via principale, nell'obbligo di rimanere nella propria abitazione nei giorni del fine settimana (sabato e domenica), per una massimo di 45 giorni.

Il lavoro di pubblica utilità si snoderebbe, invece, continuativamente nell'arco di tutti i giorni della settimana, per tre ore al giorno, assumendo perciò un consistente connotato di afflittività.

Per riequilibrare il rapporto tra le sanzioni e favorire il decollo del lavoro di pubblica utilità, il Governo ha così previsto nell'articolo 54, comma 3, un monte ore settimanale di durata della misura, pari a sei ore. Purtuttavia, per rendere ancora più flessibile l'istituto, anche in relazione alle esigenze del condannato, si è previsto che questi possa chiedere di essere ammesso al lavoro per un tempo superiore alle sei ore settimanali.

L'unico limite insuperabile concerne la durata massima di una giornata di lavoro, fissata in otto ore (analogamente a quanto avviene per le attività lavorative ordinarie).

Nel comma 4, si è infine stabilito che, ai fini del computo della pena, un giorno-pena di lavoro consiste nella prestazione, anche non continuativa, di due ore di lavoro.

10.5 Altre disposizioni. Dopo aver delineato i contorni dell'armamentario sanzionatorio devoluto al giudice di pace, la legge delega si preoccupa anche di prevedere meccanismi idonei ad assicurarne l'effettività: da questo punto di vista, peraltro, essa distingue (articolo 16, comma 1, lett. b) tra la conversione della pena pecuniaria rimasta ineseguita per insolvibilità del condannato, che impone la previsione della sua "trasformazione" in lavoro sostitutivo oltre che quella <<dell'applicabilità delle disposizioni di cui agli articoli 102, quarto comma, e 108, primo comma, della legge 24 novembre 1981, n. 689, e successive modificazioni>>, e la previsione di uno specifico delitto, da devolvere al tribunale, per i casi di grave inosservanza o di violazione reiterata <<degli obblighi connessi alle sanzioni alternative alla detenzione>>.

La prima direttiva trova specifica attuazione nell'articolo 55, dove si prevede la conversione in lavoro sostitutivo della pena pecuniaria ineseguita per insolvibilità: i contenuti del lavoro sostitutivo vengono peraltro qui individuati con riferimento a quelli propri del lavoro di pubblica utilità, essendo risultata improponibile una diversificazione delle due misure (che risultano pertanto assimilate, in assenza di contrarie direttive, anche in punto di durata massima), mentre rimane fermo che esse comportano, in caso di violazione, conseguenze affatto diverse in sintonia con il dettato della legge delega sopra richiamata. L'unità di misura individuata per la conversione (25 mila lire) scaturisce dalla richiamata norma di ragguaglio, mentre la violazione degli obblighi riconnessi al lavoro sostitutivo da luogo alla conversione in permanenza domiciliare: non è parso in effetti possibile tradurre in alcun altro modo il richiamo effettuato alla applicazione del comma 1 dell'articolo 108 della cit. legge 689/1981 (che richiama pene la cui applicazione è preclusa al giudice di pace), mentre quello riferito al comma 2 dell'articolo 102 della medesima legge si è risolto in una disposizione analoga, che prevede, cioè, la possibilità di far cessare la sanzione sostitutiva attraverso il pagamento anche del residuo. Per le ragioni già esposte, si è poi stabilito che il lavoro sostitutivo possa trovare applicazione in sede di conversione delle pene pecuniarie ineseguite per insolvibilità solo su richiesta del condannato, in assenza della quale l'unica ulteriore sanzione applicabile dal giudice di pace, seppure in sede di "sostituzione", rimane la permanenza domiciliare i cui contenuti saranno dunque quelli indicati nell'articolo 53, ma con la rilevante eccezione della inapplicabilità dei divieti. Anche in tal caso l'unità di misura per la conversione è individuata in base ai criteri di ragguaglio generali.

La Commissione Giustizia del Senato ha tuttavia obbiettato, nel suo parere, che la scelta di individuare nella permanenza domiciliare la pena da applicare, in sede di conversione della pena pecuniaria, quando il condannato violi le prescrizioni inerenti al lavoro sostituivo o non ne accetti l'esecuzione (v. art. 50 dello schema) potrebbe esporsi a censure di illegittimità costituzionale, richiamando, in proposito, le sentenze della Corte costituzionale n. 149/1971 e n. 131/1979.

Il rilievo non sembra però condivisibile.

A questo proposito, occorre ribadire che la delega non autorizza il ripristino della sanzione detentiva: infatti, l'apparato sanzionatorio è caratterizzato dalla presenza di sanzioni "non carcerarie", fornite di autonomia e non già meramente sostitutive. Di conseguenza, non sembra possibile sancire, sia pure nell'ipotesi particolare in esame, la riviviscenza della pena detentiva carceraria.

L'unica soluzione praticabile è, dunque, quella di sancire l'applicabilità della pena della permanenza domiciliare che, giova ripeterlo, opera solo se il condannato non consente al lavoro sostituivo o ne viola le prescrizioni. Questo meccanismo replica la gradualità di quello attualmente previsto dalla legge 689/81: anche qui si prevede, in caso di insolvibilità, l'applicazione della sanzione della libertà controllata o, in taluni casi, del lavoro sostituivo, sempre su richiesta del condannato (v. art. 102, comma 2, l. 689/81). La violazione di queste sanzioni determina il ripristino delle pene detentive della specie corrispondente (v. art. 108, comma 1, l. cit.).

Per i reati di competenza del giudice di pace, non essendo praticabile - come si è detto - il ripristino delle sanzioni carcerarie (perché bandite dall'arsenale sanzionatorio), l'unica sanzione applicabile in sede di conversione non può che essere la sanzione principale della detenzione domiciliare. In definitiva, il passaggio dalla pena pecuniaria non pagata per insolvibilità alla pena paradetentiva della permanenza domiciliare non è immediato, ma filtrato dall'irrogazione della pena del lavoro sostituivo: solo se il condannato non consente alla sua irrogazione troverà diretta applicazione la detenzione domiciliare; negli altri casi, quest'ultima potrà operare solo se saranno state violate le prescrizioni inerenti al lavoro sostitutivo accettato dal reo.

Nessun rilievo è stato invece mosso alla scelta di individuare il limite di durata massima della permanenza domiciliare in quarantacinque giorni, in ossequio al limite di cui all'art. 16, comma 1, lettera a), della legge delega, che, per vero, potrebbe rivelarsi in taluni casi insufficiente a corrispondere, sulla scorta del citato criterio di ragguaglio, all'ammontare della pena pecuniaria non eseguita. Viene, dunque, mantenuta questa soluzione, pur nella consapevolezza dei problemi che potrebbe alimentare.

La fattispecie delittuosa descritta dall'articolo 56 individua dunque solo quelle violazioni gravi o reiterate - per esprimersi con la legge delega - degli obblighi riconnessi alle sanzioni principali, ossia il lavoro di pubblica utilità e la permanenza domiciliare. In proposito, anche per evitare che ogni violazione si potesse tradurre nell'applicazione di una sanzione detentiva non sostituibile, è parso necessario distinguere tra due ipotesi: la prima individua il fatto-reato con riferimento alla inosservanza del contenuto essenziale dell'obbligo della permanenza domiciliare o del lavoro sostitutivo (vale a dire l'allontanamento dal luogo di permanenza ovvero la mancata "presentazione" o l'abbandono del lavoro) ed è perciò certamente qualificabile come grave; la seconda sanziona la violazione reiterata degli obblighi o dei divieti inerenti le pene sopra indicate, in tal modo escludendo dall'orbita di tipicità del precetto le mere "trasgressione" che, soprattutto con riferimento al lavoro di pubblica utilità, possono derivare dalla mancata osservanza non già dell'obbligo "sostanziale" di prestare l'attività lavorativa, bensì da quelli riconducibili alla particolare tipologia di lavoro ed alle direttive in merito ricevute dal prestatore. Entrambe le fattispecie incriminatrici contenute nell'articolo 56 richiedono che le violazioni vengano realizzate "senza giusto motivo". Questo requisito evoca una clausola di illiceità che sembra evidenziare un legame con la categoria delle scriminanti. Già impiegata, con alcune varianti lessicali, nel codice penale (di pensi alle clausole contenute negli articoli 637, 638, 731), questa clausola è caratterizzata dal richiamo di alcune cause di giustificazione, non già nella loro comune e predeterminata fisionomia (quella fissata dagli articoli 51 e 54 c.p.), ma in un'accezione più ampia, ben potendo il "giusto motivo" essere costituito da un qualsiasi motivo correlato a particolari contingenze. In definitiva, il "giusto motivo" denota un'orbita applicativa lievemente più ampia rispetto a quella perimetrata dalle scriminanti comuni.

Va infine rilevato che, vuoi per evitare che presunte violazioni siano riconducibili ad una valutazione in ordine alla "insoddisfacente" esecuzione della pena, vuoi per evitare una situazione di assenza di controlli o del loro improprio affidamento a soggetti variamente influenzabili da fattori "esterni" rispetto all'esecuzione della sanzione (ancora una volta con specifico riferimento al lavoro di pubblica utilità), si è previsto che la verifica sull'esecuzione delle sanzioni in questione, tenuto conto anche delle conseguenze cui conduce, sia affidato all'ufficio di pubblica sicurezza ovvero al comando territorialmente competente dei carabinieri.

Analogo discorso vale in relazione all'articolo 60, il quale null'altro ha fatto che allargare il novero delle cause interruttive della prescrizione conformemente alle scelte processuali operate dal decreto legislativo, senza peraltro alterare la logica sottesa all'articolo 160 del codice penale. Con l'occasione si sottolinea che la disciplina relativa al termine di prescrizione del reato e della pena si ricava agevolmente alla stregua dell'articolo 58 commi 1 e 2 del decreto, laddove si chiarisce che le pene della permanenza domiciliare e del lavoro di pubblica utilità si considerano, a ogni effetto giuridico e quindi anche ai fini della prescrizione, come pene detentive della specie corrispondente a quella della pena originaria. I commi successivi della disposizione indicano, poi, i criteri di ragguaglio, utili per determinare la prescrizione della pena.

Maggiore attenzione merita invece l'articolo 62, che ha precluso l'operatività delle disposizioni in materia di sanzioni sostitutive nel caso di reati di competenza del giudice di pace. Oltre a chiarire (incidentalmente) la natura di sanzione principale delle pene applicate dal giudice onorario (il divieto, diversamente, non avrebbe avuto senso), la norma non risulta a rigore imposta dal dettato della legge delega; nondimeno, essa è apparsa necessitata alla luce delle caratteristiche dell'apparato sanzionatorio dei reati devoluti alla conoscenza del giudice di pace. Tali caratteristiche coincidono infatti per gran parte con quelle delle sanzioni di cui agli articoli 53 e seguenti della legge n. 689 del 1981; sicché l'applicabilità di queste ultime avrebbe comportato la creazione di un meccanismo frustrato nelle sue stesse finalità, prim'ancora che artificioso e complesso (e quindi poco coerente con le esigenze di semplificazione che ispirano il nuovo sistema).

10.6. L'esclusione della sospensione condizionale della pena.Il sistema delle pene delineato per i reati di competenza del giudice di pace integra un "microcosmo" punitivo, la cui nota distintiva è data dalla rinuncia alla pena detentiva, in luogo della quale - come si è visto - si fa ricorso alla pena pecuniaria e a sanzioni alternative al carcere che valorizzano la funzione rieducativa associata ad un modesto tasso di afflittività.

Proprio la natura e la funzione del nuovo apparato di sanzioni pongono sul tappeto la questione del ruolo che, in questo contesto, sono chiamati a svolgere gli istituti sospensivi, in particolare l'istituto che, nei fatti, ha vigorosamente segnato la funzionalità del nostro sistema sanzionatorio, vale a dire la sospensione condizionale della pena.

La legge delega mantiene sul punto il più assoluto silenzio e il Governo è convinto che il silenzio non debba necessariamente tradursi in un drastico divieto di modifica della disciplina della sospensione condizionale della pena nell'ambito della giurisdizione penale del giudice di pace.

Nella relazione illustrativa dello schema di decreto legislativo, è stata pertanto evidenziata l'opportunità di intervenire sul funzionamento della sospensione condizionale, in vista di un suo adattamento al mutato scenario sanzionatorio che contrassegna il sistema penale affidato alla competenza del giudice di pace.

La necessità di una rimeditazione sul ruolo da assegnare in questo settore alla sospensione condizionale della pena è sollecitata dal fatto che la giurisdizione penale "onoraria" è "marcata" da una chiara finalità conciliativa affiancata da istanze deflattive e sempflificative. Il sistema è infatti percorso da istituti che tendono alla composizione del conflitto tramite la reintegrazione delle istanze della vittima; inoltre, già "a monte" vi è l'obbiettivo di depurare la giurisdizione dalla trattazione di vicende "bagatellari" (v. l'istituto della particolare tenuità del fatto di cui all'art. 34) e, comunque, di arrestare il procedimento ogni qual volta siano state tenute condotte riparatorie dell'offesa (v. la causa estintiva disegnata nell'articolo 35). L'approdo dell'irrogazione della sanzione dovrebbe auspicabilmente costituire un esito "eccezionale", derivante dall'insuccesso di tutti i numerosi meccanismi destinati a favorire una definizione anticipata del processo.

E' però di intuitiva evidenza che il funzionamento dei descritti "filtri" di natura conciliativa o deflattiva è strettamente correlato alla presenza di un giudice di pace che non assuma le vesti di una "tigre di cartapesta", ma che, al contrario, sia munito di un potere di irrogare sanzioni destinate ad esplicare una qualche funzione dissuasiva, capaci, perciò, di invogliare gli attori del sistema a ricorrere alla composizione del conflitto.

Inoltre, le sanzioni irrogabili dal giudice pace sono accomunate dalla carenza di effetti desocializzanti, essendo bandito il ricorso a pene carcerarie, e potendosi, solo nei casi più gravi, ricorrere ad una blanda sanzione paradetentiva (la permanenza domiciliare). Di conseguenza, non sembrerebbe avere molto senso proiettare l'istituto sospensivo, tradizionalmente impiegato per evitare che l'autore del reato risenta degli effetti desocializzanti connessi alla pena carceraria, sopra sanzioni sprovviste di tali effetti.

La Camera e il Senato hanno dimostrato di condividere le considerazioni del Governo: il Senato ha proposto di escludere tout court l'applicabilità della sospensione condizionale della pena nei reati di competenza del giudice di pace. La Camera, dal canto suo, recependo una delle proposte di soluzione avanzate dal Governo nella relazione, ha suggerito di affidare alla richiesta dell'imputato l'applicabilità del beneficio, fatta salva la non sospendibilità delle pene pecuniarie per la parte non eccedente un milione di lire.

Il Governo ha ritenuto di dover privilegiare l'orientamento manifestato dal Senato e di escludere, pertanto, l'applicabilità della sospensione condizionale nell'ambito dei reati di competenza del giudice di pace (art. 60).

In favore di questa scelta militano, oltre all'insieme delle considerazioni svolte poc'anzi, la tendenziale eccezionalità dell'esito di condanna e la centralità della funzione conciliativa. Il rafforzamento della cornice di operatività della causa estintiva derivante da condotte riparatorie e l'esistenza di altri istituti deflattivi, fanno sì che l'imputato disponga di un'ampia gamma di opzioni che consentono di evitare la pronuncia di una sentenza di condanna, a patto, ovviamente, di una ricomposizione del conflitto con la vittima. La rinuncia alla pena detentiva e il notevole spazio riconosciuto alla conciliazione suggeriscono, pertanto, proprio nell'intento di rafforzare la mitezza ma anche l'effettività di questa giurisdizione, di non ricorrere all'istituto sospensivo.

La prospettiva di riforma suggerita dalla Camera non sembra da preferire perché, da un lato, espone l'istituto ad una frammentazione applicativa per vero poco plausibile; dall'altro lato, perché rischia comunque di indebolire le finalità che ispirano il microcosmo punitivo tipico del giudice di pace, riconoscendo un eccessivo rilievo agli interessi del condannato a discapito di quelli della vittima e della funzione conciliativa del giudice.

V. Disposizioni finali e transitorie

11. Norme applicabili da parte di giudici diversi.L'articolo 63 detta le regole applicabili nell'ipotesi in cui sia un giudice diverso dal giudice di pace a dover giudicare i reati a quest'ultimo attribuiti dall'articolo 4 del decreto.

La norma regola dunque due distinte situazioni. Da un lato, il caso di connessione eterogenea dipendente dal concorso formale, con attrazione della resiudicanda a favore del giudice superiore. Dall'altro, il caso in cui il reato sia giudicato dal tribunale per i minorenni, o, al limite, da altro giudice speciale, la cui giurisdizione sia radicata ratione personae.

Per entrambe le ipotesi, si prevede espressamente, al fine di fugare possibili incertezze interpretative, che le sanzioni irrogabili siano quelle delineate nel decreto. Una differente soluzione, che mantenesse per tali ipotesi le sanzioni previgenti, si esporrebbe d'altro canto a censure sotto il profilo di una irragionevole sperequazione tra autori del medesimo fatto di reato.

Nei relativi procedimenti andranno inoltre osservate, in quanto connotate da profili favorevoli per il soggetto autore del reato, le disposizioni del decreto relative alla sentenza di condanna alla pena della permanenza domiciliare, alla declaratoria di particolare tenuità del fatto e all'estinzione del reato per condotte riparatorie, nonché la disciplina relativa alle iscrizioni nel casellario giudiziale.

11.1. Disposizioni transitorie. - L'assoluta novità della riforma, che ha condotto alla creazione di una sorta di giudice "speciale" (ove la "specialità" si apprezza sotto il duplice, correlato profilo delle sanzioni che può irrogare e del rito che applica), ha reso opportuno articolare una disciplina transitoria che si dia carico di regolare l'applicazione delle nuove disposizioni in relazione alla fase in cui si trova il procedimento penale e tenendo conto delle ricadute sul piano sostanziale anche di alcune norme processuali.

L'articolo 64 precisa anzitutto che la disciplina introdotta dal decreto ha integrale applicazione solo per l'avvenire. Il nuovo complesso normativo andrà dunque integralmente osservato nei procedimenti per reati commessi dopo la sua entrata in vigore.

La scelta appare coerente con il principio secondo cui tempus regit actum, dal momento che la data di commissione del reato rappresenta un elemento oggettivo, che inoltre vale ad individuare con precisione il momento determinativo della competenza

D'altro canto, la scelta di non attribuire al giudice di pace la competenza per l'arretrato relativo ai reati oggi devoluti a tale giudice si fonda sulla necessità di non gravare lo stesso di un carico tale da rallentare il decollo della riforma, con ciò frustrandone il successo.

Dunque, in linea generale a tali ultimi procedimenti si applicheranno le disposizioni processuali ordinarie, rimanendo ferma la competenza del tribunale.

La regola soffre tuttavia rilevanti eccezioni.

Per quanto attiene ai profili processuali, il secondo comma, rinviando alle previsioni contenute nel precedente articolo 63, estende ai procedimenti per reati commessi prima dell'entrata in vigore del decreto una serie di ulteriori disposizioni.

Trattasi, anzitutto, della norma che disciplina le modalità di pronuncia della sentenza di condanna alla permanenza domiciliare (che troverà applicazione, ovviamente, solo se il giudice irrogherà nel concreto le sanzioni paradetentive).

Inoltre, sono immediatamente applicabili le disposizioni relative all'improcedibilità derivante dalla particolare tenuità del fatto (articolo 34) e all'estinzione del reato conseguente a condotte riparatorie (articolo 35).

Infatti, entrambi, pur avendo una struttura processuale sono caratterizzati da evidenti ricadute sostanziali. E' apparso dunque opportuno chiarire l'operatività delle indicate disposizioni anche per i procedimenti pendenti.

Ugualmente, a questi si applicheranno le disposizioni, di maggior favore per il condannato, in materia di iscrizione nel casellario giudiziale (articoli 45 e 46).

Nell'ambito di tali procedimenti, il comma 2 detta poi una disciplina particolare per l'ipotesi dei reati, devoluti al giudice di pace e commessi dopo la pubblicazione del decreto e tuttavia prima della sua entrata in vigore.

Si prevede che nei procedimenti per tali reati tutte le nuove disposizioni processuali, ivi compresi quelle relative alla competenza, siano applicabili, dovendo dunque in fase di giudizio essere trattati dal giudice di pace.

La previsione si giustifica in quanto, tenuto conto dei tempi necessari per il passaggio alla fase processuale si correrebbe il rischio di una forzata inattività del giudice di pace che, dopo l'entrata in vigore del decreto, sarebbe costretto ad attendere lo svolgimento delle indagini preliminari attivate in relazione ai reati commessi dopo tale data.

Ovviamente, anche tale disposizione entrerà in vigore dopo la vacatio fissata dalla legge di delega, sia pur consentendo di ricomprendere retroattivamente nel proprio ambito i reati commessi nei centottanta giorni precedenti.

Può dunque verificarsi il caso di procedimenti che, nei sei mesi successivi alla pubblicazione del decreto, siano trattati secondo gli attuali moduli procedurali.

Tuttavia, trattasi di conseguenza non evitabile, dal momento che la formulazione dell'articolo 21 comma 2 della legge n. 468, che prevede espressamente che il decreto legislativo entra in vigore centottanta giorni dopo la sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale, non ha consentito spazi di deroga in rapporto ad un'eventuale disposizione che imponga, nell'arco della vacatio, la sospensione dei procedimenti pendenti.

Al fine di evitare l'indiscriminata traslatio dei procedimenti al giudice di pace, quale che sia la fase nella quale essi si trovino, si è stabilito che la disposizione si applichi a condizione che alla data di entrata in vigore del decreto la notizia di reato non sia stata ancora iscritta nel registro di cui all'articolo 335 c.p.p.

L'individuazione nell'iscrizione della notitia criminis del momento oltre il quale è impedita la devoluzione delle pendenze al giudice di pace consente di evitare il rischio di commistioni tra diversi moduli procedurali (si pensi ad esempio alle differenze esistenti tra i due procedimenti in tema di attività ad opera della polizia giudiziaria ed intervento del pubblico ministero, durata delle indagini preliminari e di chiusura delle stesse), nel contempo eliminando gravosi adempimenti connessi alla trasmissione degli atti da parte del giudice togato.

Per quanto riguarda i profili sanzionatori, si espressamente richiamata, anche al fine di evitare ogni incertezza interpretativa, l'applicabilità, delle disposizioni dell'articolo 2, comma terzo, c.p. .

Tale disciplina, dunque, varrà ad individuare le regole sostanziali applicabili ai reati commessi prima dell'entrata in vigore del decreto (naturalmente anche se successivi alla sua pubblicazione), trattandosi di successione di norme penali nel tempo.

A tale proposito, si evidenzia che la soluzione prefigurata nello schema di decreto era diversa. Si prevedeva infatti l'applicabilità ai reati commessi anteriormente all'entrata in vigore del decreto delle nuove sanzioni, ritenute ex lege complessivamente più favorevoli.

Tuttavia, considerato che non può escludersi che le vecchie sanzioni siano, in concreto, per l'imputato maggiormente favorevoli, specie tenuto conto della disciplina della sospensione condizionale (esclusa per le sanzioni del giudice di pace), è parso opportuno non derogare ai criteri generali che disciplinano la successione delle norme penali.

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