Tribunale
di Locri - Sez. Dist. di Siderno, in composizione monocratica,
Ordinanza 3 novembre 2000
Tribunale
di Locri - sezione distaccata di Siderno
Udienza del 3 novembre 2000
Giudice monocratico: dott. Alessio Liberati
Ordinanza di ammissione prove
- proc. n. 16193/96 rg. Siderno, c/o F. S.
Con riferimento alle richieste probatorie formulate nell'odierna udienza, ed
in particolare sull'acquisizione - mediante lettura - dei verbali delle dichiarazioni
precedentemente rese dai testi, a seguito della variazione dell'organo giudicante,
come richiesto dal Pubblico Ministero e senza il consenso della difesa, il Giudice
osserva quanto segue:
si ritiene che in caso di cambiamento dell'organo giudicante i verbali delle
dichiarazioni assunte in precedenza possano essere acquisiti ed inseriti nel
fascicolo del dibattimento mediante lettura ex art. 511 c.p.p. sia nelle ipotesi
di consenso delle parti, sia - in mancanza di esso - nei casi in cui le dichiarazioni
già rese si siano rivelate assolutamente ininfluenti o irrilevanti nel
loro contenuto per sostenere le tesi difensive e accusatorie proposte, pur assumendo
una qualche rilevanza per il convincimento del giudice.
Tale giudizio spetta al nuovo giudice, il quale deve valutare - ai sensi dell'art.
190 c.p.p. - se quanto dichiarato possa avere potenziale rilevanza per le ipotesi
ricostruttive enunciate dalle parti nella relazione introduttiva, evitando quindi
la riassunzione di prove assolutamente inutili al processo e, presumibilmente,
di cui sia stata chiesta la nuova assunzione (negando il consenso alla lettura)
per mere finalità dilatorie.
Di fronte alla richiesta di riassumere una prova, pertanto, il Tribunale potrà
o non ammetterla affatto (qualora sia del tutto inutile) o consentirne l'ingresso
delle dichiarazioni mediante lettura, anche senza il consenso delle parti, nel
rispetto del principio di concentrazione dell'attività processuale (se
assuma rilievo per aspetti diversi dalla ricostruzione del fatto storico).
Rileva in proposito il Tribunale che l'art. 511 c.p.p. recita testualmente che
"la lettura di dichiarazioni è disposta solo dopo l'esame della
persona che le ha rese, a meno che l'esame non abbia luogo". Tale locuzione
lascia quindi spazio alla "mediazione" del giudice, ed in particolare
alla valutazione di non manifesta irrilevanza o superfluità ex
art. 190 c.p.p.; in caso contrario il legislatore avrebbe infatti detto "a
meno che l'esame non possa aver luogo", con riferimento cioè a parametri
obiettivi riguardanti la possibilità ontologica (non può aver
luogo), e non il dato di fatto osservato a posteriori (non ha avuto luogo).
Del resto la lettura di verbali di atti riferiti a precedenti acquisizioni probatorie
costituisce una deroga al principio dell'oralità che, alla luce del sistema
processual-penalistico, appare giustificabile in ipotesi del genere.
L'oralità costituisce la sintesi degli altri principi del nuovo processo
penale, e diventa la nota fondamentale del dibattimento, nella quale convergono
contraddittorio, immediatezza e concentrazione, ma ad essa il codice riconosce
comunque possibili eccezioni legate a specifiche esigenze ontologiche: irripetibilità
dell'atto, pericolo per la genuinità della prova o per la perdita di
essa ("confluito" nell'incidente probatorio), atti assunti all'estero
a seguito di rogatoria, ecc..
L'importanza del principio di oralità nel processo penale non deve infatti
far perdere di vista gli altri principi cardine.
Può affermarsi che i principi di oralità, di concentrazione e
di immediatezza vanno coordinati tra di loro, essendo il sistema, a ben vedere,
costruito su diverse esigenze fondamentali del processo, che vanno correlate
ed armonizzate: l'immediatezza è un principio che consente al giudice
di fissare quanto pervenutogli (attraverso l'oralità del processo), in
verità processuale, mentre il principio di concentrazione assicura il
riavvicinamento tra i vari atti necessari ad una determinazione del giudice
che sia il più possibile fedele alle risultanze (immediate ed orali)
del processo.
Il principio del contraddittorio garantisce invece alle parti la possibilità
di controllo circa il rispetto degli altri principi processuali.
Particolarmente importante, per la questione relativa alla rinnovabilità
degli atti dibattimentali mediante lettura, è poi il principio di non
dispersione della prova, che offre interessanti spunti a sostegno della tesi
della limitazione della lettura senza il consenso delle parti.
Infatti può dirsi che la lettura degli atti porterebbe, per certi versi,
alla dispersione della prova stessa: gli elementi a disposizione del giudice
per formare il proprio convincimento sulla base di una testimonianza sono individuabili
non solo nelle frasi dette dal teste, ma anche in tutta una serie di atteggiamenti,
gestualità, espressioni, silenzi, incertezze, ecc. (es. incertezza del
teste desumibile dal silenzio e dal tempo intercorso per riconoscere una persona
o per riferire una circostanza) che difficilmente sono desumibili dalle trascrizioni
o dai verbali, e che talvolta assumono rilevanza decisiva ai fini della formazione
dell'opinione del giudice (si pensi, in proposito, anche alle polemiche in materia
di "video conferenze" utilizzate per le deposizioni dei collaboratori
di giustizia, ove è comunque parzialmente possibile "vedere"
tali aspetti "collegati" alle affermazioni rese).
Tutti questi elementi assumono rilevantissima importanza ai fini della valutazione
dell'affidabilità del teste, aspetto indispensabile perché inscindibilmente
legato alla valenza della stessa dichiarazione nel procedimento di convincimento
del giudice.
Ciò vale in particolar modo nei casi in cui non vi sia ancora una scissione
tra "sincerità" e "veridicità" delle affermazioni
del dichiarante - come accade ad esempio nelle ipotesi di patologia mentale
o di senilità o di deposizione di bambini in tenera età, ove il
teste potrebbe essere "sincero" pur non dicendo il "vero",
per errori di percezione o per incapacità evocatrice -, e cioè
dove il giudice possa ancora validamente valutare (senza la necessità
di perizie o, comunque, di valutazioni di carattere tecnico/scientifico) la
deposizione nella sua composita struttura del dictum e delle modalità
del dictum, afferenti entrambi al giudizio di attendibilità della deposizione.
Il "cambiamento" del giudicante - sia esso collegio, o, peggio, giudice
monocratico - comporterebbe quindi la "perdita" di tali aspetti della
prova, che non potrebbero più "entrare" nel processo.
Quindi anche il risentire dichiarazioni "identiche" a quelle già
acquisite (e potenzialmente presenti nel processo per mezzo dei verbali) può
assumere grande importanza ai fini della decisione.
Ciò premesso, sembra quindi opportuno riconoscere alle singole parti
la disponibilità dell'"oralità" del processo.
Solo esse, infatti, sono in grado di valutare quali di tali elementi emersi
in precedenza possano assumere rilevanza per la tesi sostenuta, e siano perciò
importanti per il giudice (al quale compete comunque - si chiarirà -
un limitato potere di "censura").
Certamente tale operazione non potrebbe essere compiuta dal nuovo giudice, il
quale - per presupposto - è estraneo agli elementi "collegati"
alle dichiarazioni rese in precedenza.
Inopportuno parrebbe anche - e per ovvi motivi - rimettere tale valutazione
ai soli giudici che abbiano assistito alle precedenti deposizioni, con esclusione
del nuovo (o dei nuovi) giudicanti; ciò varrebbe oltretutto solo per
i collegi!
Inutile dilungarsi neanche sulla possibilità che tale valutazione sia
compiuta dal giudice o dal collegio "uscente", che si scontra - con
la sola eccezione delle ipotesi di valutazione "preventiva", la quale
potrebbe esporre però il giudice ad un giudizio anticipato - con le possibilità
ontologiche di realizzazione.
Posto quindi che il giudice deve formare il proprio convincimento alla luce
di tale visione sinottica delle prove, l'esigenza di riassunzione è pertanto
necessariamente legata (anche) agli aspetti enunciati, diversi da quelli meramente
contenutistici: se si dovesse solo assumere "informazioni" ulteriori,
perché insufficienti o contraddittorie quelle preesistenti, si dovrebbe
comunque ricorrere - per poter arrivare ad un valido convincimento - all'assunzione
di altre prove, eventualmente ex officio, prescindendo del tutto dalla questione
della rinnovazione mediante lettura, quindi è evidente che il patrimonio
processuale in questione è costituito dalle affermazioni (si anticipa,
rilevanti) considerate alla luce degli aspetti "collegati", e cioè
da tutto quanto detto contribuisca alla decisione del giudice.
Al principio dell'oralità dunque possono essere poste talune, pur limitate,
deroghe, riconducibili prevalentemente ad esigenze eguali e contrarie, che trovano
la loro giustificazione negli altri principi enunciati.
Tenendo conto di tale assunto nella prospettiva ermeneutica consegue che, ove
il legislatore abbia lasciato lacune nella disciplina, la regola da osservarsi
è quella della tendenziale riassunzione della prova, a condizione però
che non vi siano interessi contrari di pari importanza.
Il "diritto all'oralità" delle parti non è difatti assoluto,
ma, al contrario, viene "compresso" dallo stesso legislatore, come
emerge con chiarezza anche da altre disposizioni processuali.
In particolare l'art. 513 comma 1 e 2 c.p.p. prevede che in caso di contumacia,
assenza o rifiuto dell'imputato, o in caso di impossibilità di sentire
la persona imputata di reato connesso, le dichiarazioni precedentemente rese
possano essere acquisite mediante lettura.
Similmente dal combinato disposto degli artt. 238 comma 5 e 190 c.p.p. si evince
che, pur restando fermo il diritto delle parti ad ottenere l'esame delle persone
le cui dichiarazioni siano state acquisite per mezzo dei verbali delle deposizioni
già rese, esso deve avvenire "a norma dell'art. 190 c.p.p.",
e, quindi, "escludendo le prove vietate dalla legge e quelle che manifestamente
sono superflue o irrilevanti".
E' palese, quindi, nel rinvio, un potere di "filtro" già riconosciuto
dal legislatore in capo al giudice.
Si è già detto, poi, della significativa apertura lasciata dall'art.
511 comma 2 c.p.p., laddove recita " la lettura di dichiarazioni è
disposta solo dopo l'esame della persona che le ha rese, a meno che l'esame
non abbia luogo", lasciando quindi spazio non solo ad ipotesi di impossibilità
ontologica ma anche ad eventi dipendenti da altre circostanze, quale potrebbe
essere, appunto, la non ammissione da parte del giudice "mediatore".
Del resto, diversamente considerando si arriverebbe a consentire alle parti
di richiedere nuovamente (e far riassumere) tutte le prove precedentemente acquisite,
ivi comprese quelle assolutamente inutili ai fini del processo.
Onde evitare eccessive "dilazioni", che osterebbero ad una piena applicazione
del principio di concentrazione, appare quindi opportuno definire con chiarezza
(e seguendo criteri e modalità analoghi a quelli altrove utilizzati dallo
stesso codice di procedura penale) i limiti alla disponibilità delle
parti anche laddove la legge abbia lasciato lacune sul punto.
La soluzione va individuata proprio nel potere di "filtro" da parte
del giudice: l'acquisizione mediante lettura appare la soluzione più
adatta a contemperare il principio di "non dispersione" con quello
di concentrazione, dopo che sia già stata svolta attività istruttoria.
Nel rispetto del principio di non dispersione si consente così di far
entrare nel processo le prove potenzialmente utili, che però non si siano
rivelate tali in concreto (e di cui le parti abbiano chiesto la riassunzione),
e dalle quali - per l'esito "negativo" - il giudice potrà comunque
trarre un qualche elemento di valutazione. La stessa esistenza di una deposizione
chiesta da una parte e che non abbia raggiunto il risultato auspicato potrebbe
infatti assumere, in qualche caso, rilevanza ai fini della decisione.
Lo strumento utilizzabile va perciò normativamente ricondotto agli artt.
190 e 511 c.p.p. (giudizio di non manifesta superfluità od irrilevanza
coordinato con la possibilità di lettura degli atti). E' necessario tuttavia
chiarire il significato delle disposizioni nell'ambito del diverso momento processuale
(rispetto a quello cui si riferisce l'originaria ipotesi dell'articolo).
L'art. 190 c.p.p. infatti recita testualmente "Il giudice provvede senza
ritardo con ordinanza escludendo le prove vietate dalla legge e quelle che manifestamente
sono superflue o irrilevanti", ma non dice rispetto a cosa si debba operare
tale valutazione. Probabilmente rispetto alla verità processuale da raggiungere,
desumibile dai fatti e dalle circostanze contestati.
Trattandosi, nella fattispecie, di valutazione che postula una pregressa acquisizione
probatoria, e quindi un precedente ed analogo giudizio, ne consegue che, interpretando
la norma nella nuova dinamica del processo, non può operarsi una valutazione
ab origine, cioè come se non ci fosse stata alcuna attività (e
pertanto con riferimento al solo fatto storico, e non alle risultanze processuali
già acquisite). Si arriverebbe infatti a dover ammettere necessariamente
tutte le prove già ammesse in precedenza!
Non si può però neanche consentire - per i motivi poc'anzi illustrati
- che tale valutazione sia fatta con riferimento al solo contenuto delle dichiarazioni
(se, come detto, l'aspetto probatorio da acquisire è quello "collegato"
ad esse, e, perciò, non potrebbe operarsi alcun giudizio tramite gli
atti, ai quali resta estraneo).
Può quindi solo ipotizzarsi che l'eventuale giudizio di superfluità
o irrilevanza debba essere limitato alle dichiarazioni di cui è stata
chiesta la ammissione e che però non abbiano contribuito in alcun modo
all'emersione del fatto storico, o abbiano assunto rilevanza per aspetti diversi
dal contenuto ai fini del convincimento del giudice. Si tratta cioè di
un giudizio analogo a quello ab origine, il quale interviene a seguito della
vana escussione del teste: in simili ipotesi è difatti evidente l'intento
dispersivo e dilatorio della parte, in quanto è già emersa, nel
corso delle precedenti fasi del giudizio, la palese irrilevanza del "contenuto"
del mezzo di prova (rispetto al risultato inizialmente previsto e non al patrimonio
probatorio acquisito).
In tal caso il giudice, non avendo luogo l'esame, potrà comunque disporre
la lettura dei verbali ex art. 511 c.p.p., se lo riterrà utile: la prova
entrerà così nel processo per mezzo del solo verbale, il quale
è, in tal caso, sufficiente a fornire tutti gli elementi necessari per
la decisione (essendo irrilevante il contenuto della deposizione per la ricostruzione
storica dei fatti, è del pari inutile acquisire gli aspetti collegati
attinenti la valutazione di attendibilità del medesimo contenuto).
Viceversa, qualora la prova si fosse già rivelata in precedenza inutile
non solo per la ricostruzione storica dei fatti ma anche per qualsiasi altro
aspetto del convincimento del giudice, egli potrà sic et sempliciter
non ammetterla ex art. 190 c.p.p..
L'eventuale relazione della parte che ne chiede l'ammissione dovrà quindi
tendere a dimostrare che tale prova sia invece rilevante proprio nel suo contenuto
(cioè nel dictum e nelle modalità del dictum).
Infatti se il dictum è potenzialmente utile per la decisione (e ciò
potrà essere desunto anche dal solo contenuto delle dichiarazioni), il
giudice dovrà ammettere le prove richieste, non potendo in alcun modo
valutare - con le sole eccezioni illustrate - gli altri aspetti che le stesse
parti, in sostanza, ritengono rilevanti per il corretto convincimento del giudice.
Con riferimento a queste ultime prove valgono perciò i soli limiti "intrinseci".
Difatti non può negarsi che, trattandosi di prove per le quali si chiede
la riacquisizione mediante rinnovazione degli atti - contestandosi così
la procedura di rinnovazione mediante lettura (senza richiesta della parte,
si ricorda, la procedura di rinnovazione mediante lettura risponde infatti a
meccanismi dotati di una sorta di automaticità), in virtù del
principio di oralità -, tale acquisizione dovrà essere logicamente
ed ontologicamente compatibile proprio con il detto principio.
In particolare, tendendo l'oralità a far entrare nel processo (recte:
nella valutazione del nuovo giudice) gli elementi "accessori" al dictum
dai quali possano essere desunte considerazioni inerenti alla attendibilità,
è palese l'intrinseca esigenza che le richieste della parte siano ex
se compatibili con tale principio.
Ne consegue l'inammissibilità (da valutare ai sensi dell'art.190 c.p.p.
in seguito alla richiesta delle parti) delle prove che per la loro prevedibile
durata possano far perdere nella fase istruttoria proprio l'utilità che
si è invocata.
In altre parole se la prova di cui si chiede la riacquisizione risulti eccessivamente
lunga da acquisire (a causa, ad esempio, dell'ingente numero di testimoni da
escutere o della vastità del contenuto delle deposizioni di essi, valutata
anche in considerazione delle possibilità concrete di svolgere suddetta
attività da parte dell'A.G. (per la disponibilità delle aule,
per i ruoli che obbligano a lunghi rinvii, per la previsione di astensioni da
parte degli avvocati o di legittimi futuri impedimenti da parte di essi, per
l'allungamento dei tempi conseguente alla difficoltà di tradurre eventuali
indagati in procedimento connesso che siano ristretti in luoghi lontani, ecc.))
e tale da rendere assolutamente invana l'utilità paventata circa l'acquisizione
di elementi "accessori" al dictum (e cioè titubanze, silenzi,
incertezze, o, al contrario, certezze, assoluta chiarezza e precisione, ecc.
rilevanti per la valutazione di attendibilità), posto che tali prove,
proprio per la durata temporale dell'acquisizione, non consentono la permanenza
- per limiti intrinseci di memoria - per la futura valutazione del giudice,
esse devono essere considerate inammissibili, in quanto di fatto superflue.
Tali prove non apporteranno difatti nulla di nuovo nel processo decisionale
del giudice, il quale - a causa della durata eccessiva - sarà costretto
a basare la propria decisione solo sul "contenuto" delle deposizioni,
già presente in atti, non potendo invece tenere a mente gli elementi
"accessori" di cui si chiede, in sostanza, l'acquisione.
La parte richiedente dovrà perciò argomentare, nella propria richiesta,
anche in considerazione di tali aspetti, e, posto che in processi particolarmente
complessi la scelta è implicitamente necessaria, dovrà anche indicare
le ragioni afferenti alla preferenza di taluna o talatra rinnovazione.
In mancanza, non potendo il giudice correttamente operare alcuna selezione o
scelta - e per il semplice fatto che la richiesta è dettata dall'esigenza
di far conoscere elementi che il giudice, per assunto, non conosce (si rinvia
alle precedenti considerazioni, anche circa la possibilità di scelta
da parte del collegio) - l'istanza di nuova acquisizione di prove non potrà
che essere ritenuta, si è detto, inammissibile, perché, intrinsecamente
illogica e contraddittoria, si palesa di fatto come attività superflua
e, forse, dettata da ragioni dilatorie.
I limiti ontologici del principio dell'oralità, a ben vedere, si pongono
anche come confine con i principi - parimenti rilevanti - di concentrazione
e di immediatezza, i quali non possono che arricchire le considerazioni suesposte.
A sostegno delle affermazioni sostenute va altresì evidenziato che l'art.33
nonies c.p.p. - introdotto dall'art. 170 del decreto l.vo 19 febbraio 1998 n.51
- ha espressamente previsto la validità delle prove acquisite in violazione
delle disposizioni sulla competenza del collegio o del giudice monocratico.
Ciò significa che, in caso di trasmissione degli atti dal collegio al
giudice monocratico, o, viceversa, di trasmissione degli atti dal giudice monocratico
al collegio, l'attività istruttoria compiuta conserva la prova validità
ed è utilizzabile. E' palese quindi che, in seguito all'intervento legislativo,
il principio dell'oralità non può che essere interpretato in senso
restrittivo, non configurandosi in capo alle parti un assoluto diritto all'oralità,
ma, anzi, essendo tale principio dell'oralità compresso dal principio
di economicità dei giudizi e dell'attività processuale perseguito
dall'art. 33 nonies c.p.p..
In conclusione, premesso che
la richiesta deve essere comunque motivata dalla parte, non possono essere acquisite
nuovamente:
a) le prove già rivelatesi assolutamente ininfluenti per il processo
nella precedente assunzione (inammissibili per irrilevanza ex art.190
c.p.p.);
b) le prove già rivelatesi inutili nel contenuto (e delle quali non rilevano
perciò nemmeno gli elementi "accessori" inerenti l'attendibilità)
pur essendo utili per qualche profilo per la decisione del giudice, le quali
possono essere rinnovate mediante lettura;
c) le prove utili alla decisione per il loro contenuto (e, quindi, anche per
gli elementi "accessori") la cui acquisizione sia logicamente in conflitto
con il principio di oralità (in base al quale è stata formulata
la richiesta) a causa della eccessiva durata prevista per la acquisizione: tali
prove, non potendo il giudice operare la scelta, devono essere considerate inammissibili,
in quanto, non potendo fornire all'A.G. gli elementi ulteriori che si invocano,
a causa dei limiti intrinseci, risulteranno manifestamente superflue ai fini
della decisione, in considerazione del fatto che già esistono agli atti
le dichiarazioni (posto che le prove assunte nella pregressa fase dibattimentale
fanno già parte del contenuto del fascicolo, in quanto conservano il
carattere di attività legalmente compiuta, cfr. Corte Costituzionale
sentenza n.17 del 1994 e ordinanza n.99 del 1996) e che non è di fatto
possibile acquisire gli ulteriori aspetti attinenti l'attendibilità.
per questi motivi
il Giudice,
rilevato che la richiesta della difesa non appare adeguatamente motivata, posto che si fa generico riferimento all'esigenza di risentire i testi circa fatti sui quali hanno già deposto, non evidenziando in alcun modo quali siano gli elementi connessi - afferenti alle modalità del "dictum" - alle dichiarazioni in atti, in virtù dei quali si ritiene necessario procedere a nuova escussione per il principio di oralità che si invoca.
dichiara
l'utilizzabilità di tutti gli atti di istruzione dibattimentale fino ad oggi svolti, e dispone l'acquisizione delle dichiarazioni testimoniali rese nelle precedenti udienze mediante lettura dei verbali.
Siderno, 3 novembre 2000
Il Giudice
dott. Alessandro Liberati